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giovedì 24 aprile 2025

Gli anarchici torinesi nella prima resistenza antifascista


Nel capoluogo subalpino i libertari federati nell’Unione anarchica piemontese, con numerosi militanti e dirigenti di primo piano nella Fiom e nell’Unione sindacale italiana locali, sono protagonisti del movimento consiliari sta dando forte impulso, insieme alla frazione comunista del Psi guidata da Antonio Gramsci, alla agitazione metallurgica e alla grande occupazione delle fabbriche del settembre 1920, propugnando una soluzione espropriatrice e rivoluzionaria. Organizzati nel corpo delle Guardie rosse con gli ordinovisti e nei Gruppi rivoluzionari d’azione, promossi dall’Unione anarchica italiana e aperti alla base operaia delle altre forze sovversive, gli antiautoritari torinesi sono tra i primi ad esporsi per difendere le industrie autogestite dai lavoratori dalla repressione governativa e dalle prime provocazioni e violenze delle squadre fasciste, sorte anche a Torino dall’arditismo di guerra con il patrocinio padronale. Proprio due giovani miliziani dell’Usi, Raffaele Van Dijck, anarchico belga, e Alfonso Garamella, emigrato pugliese, operai calzaturieri di presidio allo stabilimento chimico Capamianto, cadono vittime il 12 di quel settembre in uno scontro a fuoco con l’industriale Francesco De Benedetti, finanziatore del Fascio torinese, capo squadrista e proprietario della attigua omonima fonderia, tra i ritrovi delle prime bande nere. Già a questi tragici episodi sarebbe dunque possibile far risalire la primogenitura anarchica dell’antifascismo d’azione torinese. La smobilitazione delle occupazioni, concertata dai vertici riformisti di Psi e Cgil con il governo Giolitti e gli industriali, sancisce la sconfitta del movimento dei Consigli di fabbrica e chiude il Biennio rosso rivoluzionario. Dall’ottobre 1920 dilagano infatti la repressione statale e il terrore borghese contro gli operai, sempre più esercitato attraverso lo strumento della violenza squadrista, inaugurando il tragico Biennio nero. Presto si scatena la caccia agli arsenali messi al sicuro dalle avanguardie di fabbrica in vista della resistenza e di una nuova rottura rivoluzionaria, con una infruttuosa perquisizione al Circolo libertario “Francisco Ferrer” di Barriera di Milano e con successivi sequestri di armi, arresti e denunce a carico di diversi attivisti. Con il 1921 le brutalità fasciste si fanno sempre più gravi e frequenti. «Ricordo », testimonia Maurizio Garino, dirigente anarchico della Fiom, «che c’erano gli operai della
Fiat che uscivano e gli squadristi, quando individuavano un membro del Consiglio di fabbrica, o qualcuno che era un rosso... allora via! Giù! Bastonate!». A farne le spese, con i comunisti, sono in primo luogo i libertari, tra i quali il giovane meccanico Giovanni Barberis. Il corrispondente torinese di «Umanità Nova» denuncia la complicità delle autorità con i fascisti capeggiati dall’ex-anarchico interventista Mario Gioda, lasciati agire indisturbati e coperti, e fornisce puntualmente notizie sulle violenze delle camicie nere e sulla conseguente risposta organizzata del proletariato. Già in marzo, infatti, l’assemblea dei delegati dei Consigli di fabbrica, l’Uap, l’Usi e il neonato Partito comunista d’Italia danno vita ad un Comitato contro il fascismo, primo passo verso la costituzione di un fronte rivoluzionario d’azione antisquadrista in città. In anticipo su altre città Torino vede dunque rapidamente approntarsi la resistenza dei lavoratori. Sotto il fuoco delle squadre di Cesare Maria De Vecchi si trovano innanzitutto le strutture sindacali più combattive. Le sedi dell’Usi di via San Domenico 34 e di vicolo Pappagalli sono essere colpite tra le prime. Il 25 aprile anche la Camera del lavoro confederale, al 12 di corso Siccardi, viene attaccata e devastata dopo forte resistenza. Nel tentativo di vendicare le spedizioni punitive l’anarchico Mario Facta, giovane meccanico disoccupato, resta ucciso di lì a poco nel fallito attentato esplosivo contro il già noto ingegnere fascista De Benedetti, assassino confesso dei due miliziani sindacalisti caduti in settembre alla Capamianto occupata ma mai perseguito penalmente. Con l’inizio dell’estate, mentre l’artigiano individualista Guglielmo Casassa
Mont, ex minatore, è arrestato per il ferimento di una camicia nera, le “teste di morto” assaltano nuovamente la sede confederale, stavolta respinte, e alcune sedi del Pcd’I. La risposta operaia non si fa attendere e il 7 luglio «Umanità Nova» annuncia: «Corre voce che anche a Torino si stanno organizzando gli Arditi del Popolo. Di lì a poco, il 15 luglio, ai funerali di due militanti comunisti caduti in una rappresaglia, presenti migliaia di lavoratori, fanno per la prima volta la loro comparsa duecento Arditi del popolo che, inquadrati militarmente, sfilano dal Cimitero Monumentale per essere poi dispersi dalla Regia Guardia a Porta Palazzo. Per iniziativa della Lega proletaria dei mutilati e reduci di guerra, a maggioranza comunista, con l’adesione di numerosi miliziani delle Guardie rosse e dei Gruppi rivoluzionari d’azione e con l’appoggio dei partiti e delle organizzazioni economiche di classe, il 19 luglio si costituisce la sezione cittadina del «nuovo esercito di Difesa Proletaria». «Gli Arditi del Popolo costituiti a Torino». Aderiscono da subito anche l’Uap e l’Usi, che già organizza squadre di militanti a presidio delle proprie sedi, auspicando che l’arditismo popolare, forma militare dell’auspicato fronte unico rivoluzionario, «sappia nel momento della lotta unificare il proletariato». Oltre al comunista Mandelli, segretario politico cittadino della Lega proletaria, la Questura individua tra i comandanti degli Arditi del popolo del capoluogo gli anarchici antiorganizzatori Raffaele Schiavina, noto propagandista già redattore con Luigi Galleani del periodico «Cronaca Sovversiva», e Ilario Margarita, detto “Barricata”, muratore militante del Gruppo “Germinal” e dirigente locale Ilario Margarita, dell’Usi. Tra i miliziani libertari più noti figurano anche i libertari Giulio Guerrini, romano di nascita, falegname, ex combattente e ferito di guerra, iniziatore degli Arditi del popolo torinesi e responsabile della squadra del Pilonetto, spesso erroneamente citato dalle fonti e in letteratura come iscritto al Partito comunista; Carlo Peroni, tipografo novarese, già caporalmaggiore di fanteria e prigioniero di guerra; Giuseppe Odello, operaio metallurgico alla Fiat Lingotto, attivista del Circolo “Ferrer” e della Fiom, già guardia rossa; il barbiere Pietro Gibellino, immigrato dal vercellese; Domenico Rubatto, tornitore: tutti di età media sui trent’anni e appartenenti alle varie tendenze del movimento anarchico. Ma non pochi altri devono essere gli antiautoritari aderenti agli Arditi del popolo, come forse il fonditore di origine pisana Arduilio D’Angina, vicepresidente della Società di mutuo soccorso della categoria, decorato di guerra e capoguardia delle milizie consiliariste, per i quali non si hanno però ad ora riscontri certi dalle carte di polizia. Il ruolo dei libertari risulterebbe dunque niente affatto trascurabile, tanto che il labaro delle formazioni cittadine vede recare su un fronte le loro insegne rosse e nere. Marce, ronde ed esercitazioni si svolgono in queste settimane nei sobborghi operai e a Collegno, mentre gli scontri con le camicie nere si moltiplicano nel centro cittadino, a Moncalieri e in Borgo San Paolo, dove il libertario siracusano Umberto Consiglio, segretario della Cooperativa dell’Industria del Legno, tenente di fanteria nel recente conflitto mondiale, è tra i promotori della resistenza popolare, e per questo in seguito arrestato e condannato. Il direttorio torinese della nuova formazione antifascista si schiera intanto contro il trattato di pacificazione sottoscritto dai socialisti con Mussolini e plaude al Pcd’I, agli anarchici e all’Usi chiedendo ulteriore sostegno politico e materiale per l’organizzazione dei battaglioni. Forti di ventimila aderenti a livello nazionale, gli Arditi del popolo contano in Piemonte circa milletrecento miliziani suddivisi in otto sezioni territoriali tra le quali quella del capoluogo, con quasi un quarto degli effettivi dell’intera regione e nuclei in via di costituzione in provincia a Bussoleno e Carmagnola, primeggia per consistenza ed efficacia. L’organizzazione è però da subito nel mirino del capogabinetto Bonomi. A metà agosto un nuovo corteo delle centurie è ancora una volta sciolto con la forza dalla Guardia Regia al Parco del Valentino

e un’ondata di arresti colpisce con l’accusa di costituzione di banda armata almeno una cinquantina di militanti comunisti e libertari tra i quali Guerrini e Schiavina, in realtà estraneo alla struttura ardito popolare e contrario al carattere gerarchico e paramilitare di questa, che trovano su «Umanità Nova» la solidarietà dell’Uai. La stretta repressiva del governo porta dunque in Ottobre alla crisi definitiva del giovane mo-vimento antisquadrista cittadino, messo fuori legge e indebolito dalla defezione dei comunisti autoritari che ne avevano costituito la spina dorsale, i quali ora anche a Torino cedono al diktat dell’esecutivo nazionale spezzando il fronte antifascista e ripiegando nei ranghi delle squadre armate di partito, forti di ottocento effettivi. Due di queste resteranno tuttavia intitolate agli anarchici Mario Facta, e Vincenzo Todeschini, giovane operaio tipografo disoccupato iscritto alla Fiom caduto alcuni mesi prima in una disperata azione individuale contro la sede della Questura. Solo in seguito, talvolta molti anni più tardi, i dirigenti comunisti torinesi Gramsci, Tasca e Terracini produrranno una seria autocritica sul mancato sostegno all’organismo unitario ardito popolare e sugli evidenti limiti delle proprie formazioni esclusive nel contrasto al fascismo. Le forze residue degli Arditi del popolo e dell’antifascismo d’azione non irrigimentato dal Pcd’I devono tentare di riorganizzarsi in forme spontanee e semiclandestine intorno a Margarita, appena rientrato da Brescia, dove in qualità di segretario della Camera del lavoro sindacalista rivoluzionaria ha contribuito a dar vita al nucleo ardito-popolare locale, e a pochi altri. I fascisti si scateneranno in autunno e nell’inverno del 1922 in nuove provocazioni e violenze contro i tranvieri, i ferrovieri e gli operai della Fiat, tra i quali l’Usi e l’Uap hanno un significativo radicamento e che si contrappongono spontaneamente agli assalti, e colpiranno le sedi comuniste e anarchiche di Vanchiglia, in via Mongrando 30, e di Barriera di Casale, al 7 di via Casalborgone, difese dai militanti e dagli abitanti della zona. A fine aprile le camicie nere si riuniscono al Teatro Balbo per poi attaccare ancora una volta la Camera del lavoro. In settembre i lavoratori resistono ancora alle incursioni squadriste a Nichelino, a Moncalieri, a Pozzo Strada e alla Casa del popolo di Borgo Vittoria, in strada Lanzo 101, sede del Gruppo anarchico rionale “Bruno Filippi”. Nelle continue aggressioni resta ferito anche il libertario Giovanni Vaudano, mentre Consiglio e Peroni sono costretti ad abbandonare la città. Schiavina e Guerrini risultano intanto assolti insieme a una decina di militanti comunisti nel processo contro gli Arditi del popolo. Ma ormai tutto è perduto. Il 28 ottobre 1922 Roma è presa dai fascisti e il 31 la Camera del lavoro torinese, dove hanno sede l’Uap e il Gruppo anarchico “Centro”, è ridotta a un rogo. Cadono anche le ultime Case del popolo, le cooperative, i circoli e i giornali operai e rivoluzionari. L’11 novembre ventimila squadristi piemontesi sfilano in un imponente corteo. L’opposizione dei lavoratori è definitivamente spezzata, per prendere Torino si attende solo l’ordine di Mussolini. Tra il 18 e il 20 dicembre i “lanzichenecchi”, come spesso usa chiamarli «Umanità Nova», calati in città agli ordini del console Brandimarte, detto “Procellaria”, investono la città causando undici vittime operaie. Tra queste il segretario comunista libertario della Fiom cittadina Pietro Ferrero e Giovanni Massaro, manovale disoccupato dello Scalo Dora e simpatizzante anarchico, oltre a Carlo Berruti, massimo dirigente torinese del Sindacato dei ferrovieri passato di recente dalle file antiautoritarie, alle quali aveva aderito giovanissimo, al Pcd’I; mentre l’operaio Probo Mari, secondo alcuni studi anch’egli anarchico e militante dell’Usi, era riuscito a sopravvivere all’esecuzione. Scampati alla strage, Margarita e Guerrini riparano presto oltreconfine continuando la lotta antifascista. Come loro, lavoratori coscienti e uomini liberi, altri anarchici torinesi, nativi o acquisiti, saranno ancora protagonisti nel fuoruscitismo, nella cospirazione interna contro il regime, nella guerra rivoluzionaria contro la reazione in Spagna, nel maquis in Francia e nella Resistenza partigiana. 



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