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venerdì 27 novembre 2015

L’OROLOGIO

Nell’esatto momento in cui la rivoluzione industriale ha richiesto una maggiore sincronizzazione del lavoro, nasce l’esigenza dell’orologio. Il piccolo congegno che regola i nuovi ritmi della vita industriale rappresenta allo stesso tempo uno dei bisogni più urgenti tra quelli indotti dal capitalismo per stimolare il proprio progresso.
Così scopriamo, il senso del tempo nel suo condizionamento tecnologico e con il calcolo del tempo, il mezzo di sfruttamento del lavoro. Con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe , le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi, vengono plasmate le nuove abitudini di lavoro e viene imposta la nuova disciplina del tempo. E allorché viene imposta la nuova disciplina del tempo, gli operai iniziano a combattere non contro il tempo, ma intorno ad esso. La prima generazione di operai di fabbrica viene istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione forma le commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione sciopera per lo straordinario come tempo retribuito in modo maggiorato del 50 per cento. Gli operai hanno accettato le categorie dei propri padroni e hanno imparato a lottare all’interno di esse. Hanno appreso la lezione: il tempo è denaro.

COME STRUMENTO DEI PROLETARI COSCIENTI PER LA CRITICA DI OGNI IDEOLOGIA PRESENTE

La pratica rivoluzionaria deve spazzare via ogni residuo ideologico e mitico che il mercato culturale e il conservatorismo del PCI, dei sindacati e dei loro alleati tentano di opporre come ultimo baluardo di fronte all’inevitabilità della loro scomparsa voluta dalla feccia proletaria emergente dalla società di classe. I “contestatori” della cosiddetta sinistra extraparlamentare sono i tristi epigoni dei fallimenti storici del movimento operaio ed impiegano ogni arte magico-ideologica per mettere le briglie all’onda rivoluzionaria e assicurarsi la gestione burocratica del futuro assetto sociale.
Acheronte intende essere l’espressione del minimo di coerenza finora raggiunto dai proletari organizzati soggettivamente e il massimo di spietatezza nei confronti dei falsi rivoluzionari.
Acheronte, organo dell’Organizzazione Consiliare, intende praticare il massimo di settarismo nei confronti dei nemici - dichiarati ed occulti – del proletariato moderno e, nel contempo, il massimo di apertura dialettica nei confronti dei sinceri rivoluzionari già in marcia verso la critica pratica della società presente, per l’instaurazione del potere assoluto dei Consigli Proletari.
La moderna teoria proletaria ci distingue no solo da coloro che vaneggiano sul Partito, vecchio o nuovo,ma anche da coloro i quali, riproponendo la logora tematica dei consigli operai, contrabbandano per novità le sconfitte storiche del proletariato, non rendendosi conto che solo l’autogestione generalizzata porterà alla distruzione pratica degli operai in quanto classe separata, per la realizzazione della felicità idonea al capovolgimento della sopravvivenza socializzata.

(ACHERONTE numero due, Ciclostilato in proprio Torino, 17/3/1971.)

Lo Stato il Capitale e la Rivoluzione

La dottrina dello Stato di Bakunin è ciò che differenzia, fin dalla loro formazione, le due correnti del socialismo ottocentesco e novecentesco. Lo Stato, per definizione di ambedue le fazioni, rappresenta quell'insieme di organi polizieschi, militari, finanziari ed ecclesiastici che permettono alla classe dominante (la borghesia) di rimanere in possesso dei suoi privilegi. La differenza si presenta però nell'utilizzo dello Stato durante il periodo rivoluzionario. Per i marxisti, infatti, si sarebbe dovuta presentare una situazione in cui lo Stato sarebbe stato arma in mano al proletariato per eliminare la controrivoluzione. Solo allora, con la dissoluzione dell'apparato statale si sarebbe passati all'assenza di classi. La posizione di Bakunin (e, con lui, di tutti gli anarchici) è che lo Stato, strumento prettamente in mano alla borghesia, non può essere usato che contro il proletariato: dato che l'intera classe sfruttata non può amministrare l'infrastruttura statale, ci vorrà una classe burocratica che lo amministri. Bakunin temeva l'inevitabile formazione di una "burocrazia rossa", padrona dello Stato e nuova dominatrice. L'ugualianza e quindi la libertà, secondo il pensatore Russo, non possono esistere nella società marxista. Lo Stato va quindi abbattuto in fase rivoluzionaria. Se lo Stato è l'aspetto politico dello sfruttamento della borghesia, il Capitale ne è quello economico. Qui le differenze del marxismo sono inesistenti (basti pensare che il primo libro de Il Capitale fu tradotto in Russo proprio da Bakunin). La differenza tra la concezione marxiana e quella bakuniana del Capitale, è che per Bakunin questo non è elemento fondante dello sfruttamento. Anche se non esplicitato, nella sua opera non viene fatto riferimento alcuno alla concezione materialistica della storia (che prevede l'aspetto economico della società come basilare per l'analisi della stessa). Un aspetto importante del pensiero di Bakunin è l'azione rivoluzionaria. Bakunin ha perseguito per tutta la vita questo scopo e, in alcune parti della sua opera, sono rintracciabili le linee guida della concezione rivoluzionaria del pensatore russo. In primo luogo la rivoluzione deve essere essenzialmente popolare: il senso di questa affermazione va ricercato ancora nel contrasto con Marx. I comunisti credevano in un'avanguardia che dovesse guidare le masse popolari attraverso il cammino rivoluzionario. Bakunin invece prevedeva una società segreta che avrebbe dovuto solamente sobillare la rivolta, la quale poi si sarebbe auto-organizzata dal basso. Altra differenza con il marxismo è l'identificazione del soggetto rivoluzionario. Se Marx vedeva nel proletariato industriale spina dorsale della rivoluzione (mettendolo in contrapposizione con una classe agricola reazionaria), Bakunin credeva nell'unione tra il ceto contadino e il proletariato l'unica possibilità rivoluzionaria. Marx, in alcuni suoi scritti, non nega la possibilità che il trionfo del proletariato possa giungere senza spargimenti di sangue. Bakunin è invece categorico su questo punto: la rivoluzione, essendo spontanea e popolare, non può essere altro che violenta. 

giovedì 19 novembre 2015

L’ideale anarchico nel movimento DiY (Do It Yourself)

Ciò che caratterizza il movimento DIY è una generale assenza di interesse nell’apprendimento teorico a favore di un più acceso impegno pratico, affiancato da un vasto dibattito ed approfondimento delle tematiche direttamente legate all’attualità del proprio vivere sociale, in vista di una immediata realizzazione dell’ideale anarchico. Realizzazione che si struttura attorno ad una vita gestita in modo etico, accompagnata da radicali cambiamenti personali, attraverso occupazione e liberazione di spazi, sviluppo di strategie di comunicazione, autoproduzione e autogestione, e per mezzo di ulteriori e svariate forme di azione diretta volte alla liberazione di uomini, animali e natura. 
Centrale per il movimento DIY è l’opposizione ad ogni forma di discriminazione. Gli anarchici credono nel concetto di uguaglianza fra tutti gli individui indifferentemente dalla propria etnia, genere o orientamenti sessuali. Tale presupposto viene ritenuto fondamentale per creare una società realmente libera dove tutti possano collaborare nel fine comune di una esistenza migliore. L’anarchismo è la filosofia della libertà personale, responsabilità personale e mutuo rispetto tra tutte le persone. Crediamo in una società dove la libertà di un individuo sia limitata solo dalla libertà di qualcun altro. La forte rilevanza che viene data al concetto di libertà porta alla critica di qualsiasi forma statale compresa quella democratica. Nell’anarchia lo stato non scompare interamente, esso semplicemente si dissolve nelle persone. Le persone assorbono lo stato e assumono le sue funzioni come parte integrante della vita di tutti i giorni.
Per libera associazione il movimento DIY intende l’assunto secondo il quale nessuno potrà sentirsi libero finché non lo saremo tutti e che quindi dobbiamo unire i nostri sforzi a tal fine. Tale libertà va ricercata opponendosi a pregiudizi, ingiustizie e discriminazioni ricercando la più alta forma di libertà di espressione possibile attraverso il confronto diretto. L’anarchismo, contrariamente ad una convinzione diffusa, non è né caos, né violenza, né uno stile di vita alternativo (inteso come moda passeggera). Noi abbiamo una specifica visione di quello che l’autorità rappresenta, di come tende all’ingiustizia e di come possiamo organizzare la società senza di essa; basandola sulla libertà, eguaglianza sociale e cooperazione. L’anarchismo, quindi, non è un movimento apolitico. Al contrario la politica proviene dalle nostre vite e dalle nostre azioni, e dal modo in cui le persone si relazionano fra loro, si associano pensando autonomamente. 
Tutto questo è utopico? Certo che lo è. Ma sapete qual è il più grande timore per tutti? Che tutti i sogni, tutte le pazze idee e ispirazioni, tutti i desideri impossibili e le utopiche visioni che abbiamo possano realizzarsi, che il mondo possa accogliere i nostri desideri. Potrebbe essere vero che ogni essere umano si perde in un universo che è fondamentalmente indifferente, chiuso per sempre in una terrificante solitudine, ma non dovrebbe essere concepibile che alcune persone muoiano di fame mentre altre distruggono cibo o lasciano fattorie inutilizzate. Non dovrebbe essere possibile che donne e uomini sprechino il loro tempo lavorando per servire la vuota ingordigia di pochi uomini ricchi, giusto per sopravvivere, è una stupida e inutile tragedia, patetica e senza senso. Non è di certo utopico rivendicare di porre fine a farse come queste. 

DO THEY OWE US A LIVING? dei Crass

che vada a farsi fottere chi ragiona in maniera politica 
ci sono delle cose che voglio dire sullo stato della nazione, su come siamo trattati al giorno d'oggi
a scuola ti danno soltanto merda
fanno di tutto per farti cadere in trappola
e tu che provi, provi, provi ad uscirne e non ci riesci perché ti hanno incastrato
ecco, tu sei solo un piccolo esempio di come loro non devono essere
solo un piccolo esempio per mostrarti quello che hanno fatto a me e a te
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo
non mi vogliono più con loro perché ho gettato via quello che mi hanno offerto
mi hanno chiamato con parole dolci e gentili, ma io non sono il giocattolo di nessuno
e adesso vorrebbero fregarmi, vorrebbero vedermi morto
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo
non riuscirò mai a vivere come vogliono loro
sono riusciti a rovinare il mondo, eppure sono indebitati fino al collo
ti faranno una lobotomia per le colpe che non hai mai commesso
ti puniranno per tutto ciò che secondo loro è sbagliato
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo
non far caso a quello che dice la gente
sono tutti assuefatti alla televisione, non vogliono pensare
ti vogliono usare come bersaglio per le loro richieste e i loro consigli
e quando non vorrai ascoltarli ti diranno che sei pieno di difetti 
devono restituirci la vita? oh, certo, certo che devono
devono restituirci la vita? oh, certo, cazzo, devono proprio farlo



Costituirsi in Comune

La comune è ciò che accade quando degli esseri si trovano, s’intendono e decidono di camminare insieme. La comune è forse ciò che si decide nel momento in cui si usa separarsi. È la gioia dell’incontro che sopravvive al suo strangolamento di rigore. È ciò che fa sì che si dica noi e che sia un evento. Non è strano che delle persone che si accordino formino delle comuni, ma è strano che restino separate. Perché le comuni non si moltiplicano all’infinito in ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni scuola. Le comuni accettino di essere ciò che sono laddove sono. Se possibile diventino una molteplicità di comuni che si sostituiscano alle istituzioni della società: la famiglia, la scuola, il sindacato, il club sportivo, ecc. Delle comuni che non abbiano il timore, oltre alle loro attività propriamente politiche, di organizzarsi per la sopravvivenza materiale e morale di tutti i loro membri e di tutte le difficoltà che le circondano. Delle comuni che non si definiscano – come fanno generalmente i collettivi – tramite un dentro e un fuori, ma sulla base dell’intensità dei legami al loro interno. Non tramite le persone che le compongono, ma tramite lo spirito che le anima. Una comune si forma ogni volta che qualcuno liberatosi della sua camiciola individuale si fa carico di non contare nulla se non su sé stesso e sulla comune, e a misurare la sua forza in base alla realtà. Ogni sciopero selvaggio è una comune, ogni casa occupata collettivamente  è una comune, i comitati d’azione del ’68 erano delle comuni come lo erano i villaggi di schiavi evasi negli Stati Uniti, o anche come radio Alice a Bologna nel 1977. Ogni comune vuole essere la base di se stessa. Vuole dissolvere la questione dei bisogni. Vuole spezzare ogni dipendenza economica e, al contempo, ogni soggezione politica, e degenera in milieu dal momento in cui perde il contatto con le evidenze che la fondano. Ci sono comuni di ogni sorta, che non attendono né il numero, né i mezzi, e ancor meno il momento giusto che non arriva mai, per organizzarsi.

giovedì 12 novembre 2015

Il gusto rabbioso di vivere

L’obbligo produttivo aliena la passione di creare. Il lavoro produttivo rientra nei procedimenti di mantenimento dell’ordine. Il tempo di lavoro diminuisce proporzionalmente alla crescita dell’impero del condizionamento.
In una società industriale che confonde lavoro e produttività, la necessità di produrre e sempre stata antagonista del desiderio di creare. Quale scintilla umana, ossia quale creatività possibile, può restare in un essere strappato dal sonno ogni mattina alle sei, sbattuto sui treni suburbani, assordato dal fracasso delle macchine, torchiato, spremuto dalle cadenze, dai gesti privati di senso, dal controllo statistico, e rigettato alla fine della giornata nelle sale di stazione, cattedrali di partenza per l’inferno delle settimane e l’infimo paradiso dei week-end, quando la folla si comunica nella fatica e nell’abbruttimento?
Dall’adolescenza all’età della pensione, i cicli di ventiquattr’ore si susseguono con il loro uniforme macinare del vetro spezzato: incrinatura del ritmo congelato, incrinatura del tempo-che-è-denaro, incrinatura della sottomissione ai capi, incrinatura della noia, incrinatura della fatica. Dalla forza viva dilaniata brutalmente alla lacerazione sempre aperta della vecchiaia, la vita barcolla da ogni parte sotto i colpi del lavoro forzato. Mai una civiltà ha raggiunto un tale disprezzo della vita; allevata nel disgusto, mai una generazione ha provato fino a questo punto il gusto rabbioso di vivere. Coloro che si assassina lentamente nei macelli meccanizzati del lavoro sono gli stessi che si trovano a discutere, cantare, bere, ballare, fare l’amore, tenere la strada, prendere le armi, inventare una poesia nuova. Già si costituisce il fronte contro il lavoro forzato, già i gesti di rifiuto modellano la coscienza futura. Ogni appello alla produttività, nelle condizioni volute dal capitalismo e dall’economia sovietizzata, è un appello alla schiavitù.

NEL SONNO di Wistawa Szymborska

Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all’indirizzo vecchio.

Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.

Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti.

Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.

Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.

Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell’oblio.

Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.

Spazzavo via l’aria
e l’erba dell’infanzia.

Cercavo di fare in tempo
Prima del crepuscolo del secolo trascorso,
dell’ora fatale e del silenzio.

Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.

Al risveglio
ho guardato l’orologio.
Il sogno era durato due minuti e mezzo.

Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacché si imbatte
nelle teste addormentate.

Controllo Sociale

Secondo il neurologo americano Paul MacLean, nell’uomo esistono, stratificati uno sull’altro, tre tipi di cervelli: il cervello rettiliano o R-Complex, il cervello limbico, o Paleomammaliano o Sistema Limbico, la corteccia cerebrale o Neocortex. Ognuno di questi tre cervelli, svolge funzioni specifiche, ed interessa zone anatomiche differenti.
Il Cervello Rettiliano o R-Complex, presiede le funzioni legate alla sopravvivenza biologica dell’individuo, respirazione, battito cardiaco, funzioni involontarie corporee ed è fondamentale per le forme di comportamento stabilite geneticamente, quali scegliere il luogo dove abitare, prendere possesso del territorio, impegnarsi in vari tipi di parata [comportamenti dimostrativi], cacciare, ritornare alla propria dimora, accoppiarsi, [procreare], subire l’imprinting, formare gerarchie sociali e scegliere i capi.
Il Cervello limbico, presiede alle emozioni, mentre la corteccia cerebrale è deputata alle funzioni associative, superiori ed astratte, come il pensiero, la logica, la creatività, il ragionamento, il comportamento finalizzato, ecc.
Poiché c’è competizione per l’informazione in uscita, la forte attivazione dei cervelli limbico e rettiliano, disconnette (temporaneamente) la corteccia cerebrale, compromettendo anche seriamente, a seconda del livello di attivazione dei due cervelli, il funzionamento corticale. Il comportamento finale dell’individuo quindi ( se logico-razionale-creativo oppure legato all’istinto di sopravvivenza, attacco, paralisi o fuga) sarà determinato da quale tipo di cervello si attiva.
Dal punto di vista sociale, negli ultimi secoli, abbiamo potuto assistere al passaggio da una gestione del potere di tipo  monarchica o comunque oligarchica, a democrazie basate sul consenso. In taluni ambienti, con sempre maggiore insistenza,  si vocifera di un presunto controllo mentale di massa, e di operazioni di ingegneria sociale, volte al condizionamento di larghi strati della popolazione mondiale, se non della stragrande maggioranza dell’umanità. Lo scopo di questo controllo sociale di massa, sarebbe quello di creare una massa di persone non pensanti, docili e sottomesse, scopo ottenuto con strategie atte ad ostacolare il corretto funzionamento delle aree corticali, disconnettendo le facoltà razionali delle persone sottoposte a tale controllo e facendole agire, per usare una metafora, come un gregge di pecore ipnotizzate  che, stordite ed incapaci di prendere decisioni logico-creative, si incammina ignaro verso una società gestita da un potere centralizzato, tecnologico, assoluto. Pertanto, per attivare l’istinto di sopravvivenza e disattivare le aree corticali, in particolare la corteccia pre-frontale, e quindi bloccare del tutto il giudizio critico o la capacità di pensare con lucidità o di escogitare soluzioni creative, occorre innescare il meccanismo di sopravvivenza biologica, insito in ciascun essere vivente. Come si attiva questo programma biologico, in modo sufficientemente intenso, da bloccare il corretto funzionamento delle aree corticali?
Ovviamente, tutto ciò che è in grado di minacciare la vita e la sicurezza dell’individuo, andrà ad attivare tale processo.
Elenchiamo due esempi di meccanismi attivatori, del programma biologico di sopravvivenza: paura per la propria incolumità fisica (atti di terrorismo, guerra, aggressione, violenza fisica, aggressività verbale comportamentale diffusa); minaccia alle basi biologiche dell’esistenza (carenza di cibo, assenza di un tetto,  e per traslazione nella nostra società avanzata, recessione economica, perdita del lavoro, della casa, diminuzione significativa della capacità di acquisto, aumento del debito). Se gli attivatori sono sufficientemente intensi, scatta il meccanismo di sopravvivenza biologica che blocca l’uso di funzioni coscienti superiori e critiche ed il gioco è fatto.

giovedì 5 novembre 2015

Critica del linguaggio

La serie di attentati contro il linguaggio, che va dalle composizioni maccheroniche del Medioevo a Jean-Pier Brisser passando per le orde iconoclaste, prende la sua vera luce dall’esplosione dadaista. La volontà di dar battaglia ai segni, al pensiero, alle parole, corrisponde per la prima volta nel 1916 a una vera crisi della comunicazione. La liquidazione del linguaggio, così spesso intrapresa speculativamente tentava di realizzarsi storicamente. Finché un’epoca serbava tutta la sua fede nella trascendenza del linguaggio e in Dio, il signore di ogni trascendenza, il dubbio nutrito circa i segni faceva parte dell’azione terrorista. Quando la crisi dei rapporti umani ebbe spezzato il tessuto unitario di comunicazione mistica, l’attentato contro il linguaggio assunse il carattere di una rivoluzione. Tanto che si è quasi tentato di presumere, alla maniera di Hegel, che la decomposizione del linguaggio abbia scelto il movimento Dada per rivelarsi alla coscienza degli uomini. Nel regime unitario, la stessa volontà di giocare con i segni è rimasta senza eco, in qualche modo tradita dalla storia. Denunciando la comunicazione falsificata, Dada avviava lo stadio di superamento del linguaggio, la ricerca della poesia. Il linguaggio del mito e il linguaggio dello spettacolo si arrendono oggi alla realtà che li sottende: il linguaggio dei fatti. Questo linguaggio, portatore della critica di tutti i modi di espressione, porta in sé la propria critica. Poveri sotto-dadaisti! Per non aver capito niente del superamento necessario implicato da Dada, continuano a spappagallare che i nostri sono dialoghi di sordi. Così hanno la loro mangiatoia ben fornita nello spettacolo della decomposizione culturale.
Il linguaggio dell’uomo totale sarà il linguaggio totale; forse la fine del vecchio linguaggio delle parole. Inventare questo linguaggio è ricostruire la persona anche nel suo inconscio. Nel connubio infranto dei pensieri, delle parole, dei gesti, la totalità si cerca attraverso la non-totalità. Bisognerà parlare ancora fino al momento in cui i fatti permetteranno di tacere.   

DELICATESSEN di Jean Pierre Jeunet e Marc Caro

In tempo di guerra ogni buco è una trincea, così fanno i sordidi condomini di Delicatessen, brutti, sporchi, cattivi e affamati. La guerra è in realtà una carestia generale che, unita alla crisi economica con conseguente svalutazione e scomparsa di carta moneta, ha lasciato gli abitanti sul lastrico e con la pancia vuota. Il rimedio c’è, ed è quello di consumare la carne in esubero, per esempio quella degli affittuari che non si possono permettere più la pigione. Chi riscuote è il perfido Clapet, macellaio, tenutario e aguzzino che commercia carne (umana) in cambio di legumi, che affitta una camera all’ex fenomeno da baraccone Louison e che è pure il padre padrone della bella, occhialuta Julie, di cui Louison è  innamorato. Insomma, un bel triangolo a cui si aggiungono le pretese del ripugnante e burbero postino, marcantonio da spavento in grado di sfondare i vetri a colpi di catarro, nonché le stramberie assortite dei condomini. La depressa che tenta il suicidio nei modi più improbabili, lo spasimante ritardato che, credendo l’amata in pericolo, si taglia una gamba come pegno d’amore offrendola al macellaio. La follia regge alla perfezione un ecosistema basato sul reciproco riciclaggio e sul consumo delle scorie. Chi è vecchio ha d’altronde più probabilità d’essere usato come prodotto di scambio per evitare la morosità. È così che un inquilino in bolletta si garantisce una proroga, sbolognando la suocera rimbambita al macellaio. Non senza un briciolo di risentimento, s’intende, determinato più dal conflitto di classe che da altro: “I ricchi di merda, se la cavano sempre”.  Ma non tutti la pensano allo stesso modo. A parte la svampita e pentita Julie, che tenterà di salvare Louison dalla mannaia paterna, le fogne che si intrecciano sotto l’abitato brulicano di un esercito di vegetariani integralisti in tuta subacquea, decisi a muover guerra alle bande cannibali del mondo superiore. Se a questo si aggiungono i trenta sacchi di mais accumulati da Clapet, il baratto è garantito. Le preziose sementi in cambio di un sequestro lampo che metterà in salvo la coppietta innamorata. Le cose non vanno come dovrebbero, e il blitz si trasforma in uno scontro armato prima, in una 
insurrezione generale poi.
Cult movie francese, grottesco fino al midollo, sensibile e divertente. Delicatessen è l’opera prima di Jean Pierre Jeunet, all’epoca soprattutto pubblicitario e animatore, realizzata in collaborazione con il disegnatore umoristico Marc Caro. In una società antropofaga ed abbruttita (il condominio), l’ingresso del grottesco (il pagliaccio) rende assurda la vita dei suoi inquilini, mette in crisi un modello che alla lunga tenderebbe a consumarsi (viene mangiata la nonna di uno degli inquilini), e risolve il presente con la speranza di un futuro ripulito (l’ondata d’acqua che spazza via gli aggressori) e musicale (la coppia che suona sul tetto imitata dai fanciulli). È raro, bisogna ammetterlo, trovare opere così dense d’immagini e maschere che celano (nemmeno troppo) significati così ampi e nella realtà così concreti. È questa, infatti, non solo la condizione della Francia, quella che Jeunet e Caro vogliono descrivere, ma di una società più ampia fatta di uomini senza scrupoli, accecati dalla fame (il senso del consumo) e dalla merce. 
Per chiudere è interessante notare che i cereali siano usati dai cannibali come monete, perdendo così il loro valore concreto di cibo: ciò significa, con tutta probabilità, che per i due autori il denaro non ha una vera utilità e quindi l'ansia di possesso di stampo capitalistico è oltremodo stupida e (auto)distruttiva.


E' possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?

Nel mondo delle macchine, stiamo diventano macchine a nostra volta. Come tanti automi telecomandati siamo chiamati soltanto a seguire le istruzioni che ci vengono impartite e ad adempiere ai comandi imposti.
Non c’è un dittatore umano che ci costringa a trasformarci in congegni dal rendimento utile, è la mentalità che abbiamo acquisito che ci dirige: la nostra educazione, la nostra istruzione, la nostra accettata libertà vigilata, i nostri sbrigativi rapporti con gli altri (e con noi stessi), la nostra indotta convinzione di non poter fare altrimenti. L’inganno che ci confina al ruolo di cinghie di trasmissione del Grande Motore, trova nell’ideologia della Macchina la sua stessa natura svelata, persino etimologicamente.
Se nel mondo delle macchine stiamo diventando macchine è anche perché nel mondo delle macchine noi non esistiamo più. E questa progressiva espulsione dell’umano dal mondo degli umani è semplicemente inarrestabile, se non fermando la tecnologia per intero. La tecnica, infatti, può solo correre verso la via di una sempre maggiore invasione della tecnica, è nella sua logica. Conseguentemente, più aumenterà l’uso di ritrovati di tecnologia, più saranno questi ultimi a prendere il sopravvento sulla vita, incrementando ogni nostra distanza emozionale verso le sorti del mondo. Figlia della logica stessa che la produce (logica della perfezione meccanica, dell’efficienza operativa, della velocità di esercizio, dell’ordine e dell’obbedienza), la tecnologia è l’incarnazione del mondo che la promuove e la diffonde. Ne supporta dunque tutti i valori, tutte le categorie, tutte le forme di alienazione. Parlare di tecnologia significa parlare di divisione del lavoro, di specializzazione, di efficienza e competitività, di produttività, di sviluppo, di dominio sulla Natura. Significa parlare di accentramento delle funzioni, di dipendenza dal mercato, di freddezza ed operatività, di distanza emozionale, d’inflessibilità, d’irresponsabilità, appunto. Che sono, guarda caso, valori opposti a quelli portati dall’attrezzo: e cioè flessibilità, decentramento, relazione, eguaglianza, responsabilità, autonomia (autonomia dagli esperti, dal mercato, dal lavoro produttivo). Insomma, la tecnologia è tutt’altro che neutrale, e l’idea che essa sia soltanto un fenomeno neutro non è un’idea diffusa a caso: serve a convincere. Ci spinge cioè a sottovalutare il potere invasivo e pervasivo della tecnologia, la sua capacità manipolativa (dell’ambiente ma anche della percezione umana) e quindi ci induce a credere che essa non sia un problema ma un’opportunità. La tecnologia, invece, è un problema. Un grosso problema!
Quello che si dovrebbe aver chiaro è che quando si parla di “tecnologia”, si parla di schiavitù. Una simile chiarificazione, peraltro, consente di rispondere da sola al quesito che qualche favoreggiatore di un eco-mondo-tecnologico non manca mai di porre per cercare un conforto alla propria visione ideologica: è possibile fare un uso sostenibile di tecnologia? Basta mettere le parole giuste al loro posto e la risposta viene da sé: è forse possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?