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giovedì 28 settembre 2023

Assassinio, guerra, carestia e avidità i mali della carne

Quindi per sfuggire i mali della carne: assassinio, guerra, carestia, avidità - paradossalmente resta solo un sentiero: l'assassinio del proprio corpo, la guerra alla carne, carestia fino alla morte, avidità di salvezza. Diamo a ognuno di questi quattro termini una diversa maschera di linguaggio (chiamare le Furie "Le Gentili" non è un puro eufemismo, bensì un modo di scoprire ancor più significato). Mascherati, ritualizzati, realizzati come arte, i termini prendono la loro oscura bellezza, la loro "Luce Nera". Invece di assassinio diciamo caccia, la pura  economia paleolitica di tutte le società tribali arcaiche e non-autoritarie — "venatoria", assieme l'uccisione e il mangiare della carne e la via di Venere, del desiderio. Invece di guerra, diciamo insurrezione, non la rivoluzione di classi e poteri, ma quella dell'eterno ribelle, l'oscuro che scopri la luce. Invece di avidità, diciamo desiderio, inconquistabile desiderio, folle amore. E poi invece di carestia, che è un tipo di mutilazione, parlare di pienezza, abbondanza, sovrabbondanza, generosità del sé che si svolge a spirale verso l'esterno, verso l'Altro. Senza questa danza di  maschere, nulla sarà creato. La più antica mitologia fa di Eros il primogenito del Caos. l'Uno, e poi ri-ritorno, torna ancora indietro, portando uno dei modelli di bellezza. L'artista, il cacciatore, il guerriero: uno che è allo stesso tempo passionale e bilanciato, insieme avido e altruista all'estremo. Dobbiamo salvarci da tutte le salvezze che ci salvano da noi stessi, dal nostro animale che è anche  la nostra anima, la nostra vera forza vitale, come pure il nostro animus, la nostra auto—padronanza che ci anima, che può manifestarsi anche come rabbia e avidità. IL POTERE ci ha detto che la nostra carne è sporca - con questo stratagemma e la promessa di salvezza, ci ha schiavizzati. Ma - se la carne è già "salvata", già luce - se anche  la coscienza stessa è un tipo di carne, un etere palpabile e simultaneamente vivente - allora non abbiamo bisogno di alcun potere che interceda per noi. Il deserto è un paradiso, anche ora. La vera proprietà dell'assassinio è con l'Impero, giacché solo la libertà è vita completa. La Guerra è pure Potere - nessuna persona libera morirà per la grandezza di un'altra. La Carestia arriva in esistenza solo con la civiltà dei salvatori, i re-sacerdoti. Avidità - di terra, di ricchezza simbolica, di potere per deformare i corpi e le anime di altri per la loro salvezza - anche l'avidità non sorge dalla "Natura naturante", ma dall'arginare e dal  canalizzare tutte le energie per la Gloria dell'Impero. Contro tutto questo, il ribelle possiede la  danza delle maschere,  la totale radicalizzazione del linguaggio, l'invenzione  di un "qualcosa" che non colpirà gli esseri viventi, ma le idee maligne, i pesi morti sui coperchi delle bare dei nostri desideri. L'architettura del soffocamento e della paralisi verrà fatta saltare in aria solo dalla nostra totale celebrazione di tutto  - anche dell'oscurità. (Liberamente tratto da T.A.Z. di Hakim Bey


La “machnovitchina” siberiana

Il pensiero anarchico in Siberia prende piede grazie all’incontro tra  il pensiero libertario, in gran parte giunto attraverso i prigionieri politici, e le tradizioni siberiane quali l’autonomia dei gruppi cosacchi, il banditismo contadino, la cooperazione agricola, senza dimenticare la presenza di gruppi religiosi ortodossi dissidenti e delle più diverse comunità religiose, tra cui i “discepoli” di Tolstoj. Questa composita tradizione per sua natura antiautoritaria influenza molti degli anarchici deportati in Siberia, rafforzandoli nei loro convincimenti, come ricordano nelle loro memorie tanto Bakunin quanto Kropotkin. Le prime attività di diffusione delle dottrine anarchiche risalgono al 1905-1906, mentre i primi tentativi insurrezionali, in collaborazione con elementi social-rivoluzionari, si hanno nel 1907 a Omsk e nel 1911 a Tchita. Dapprima il movimento anarchico siberiano si orienta verso posizioni bakuniniane, salvo poi subire, come nel resto del Paese, la divisione tra anarco-comunisti, anarco-sindacalisti e anarco-individualisti. I militanti anarchici nel 1906-1907 sono in un centinaio, a fronte di 3.000 socialdemocratici e 1.000 socialrivoluzionari; diventano poi 800 gli anarchici divisi in 46 gruppi nel 1917. Entrando poi specificamente nel periodo della Rivoluzione del 1917, anche in Siberia si verifica la spaccatura a proposito del rapporto da tenere con i bolscevichi. Va notato che qui il movimento anarchico si compatta attorno al sindacato dei minatori di Keremovo. Una fallita sollevazione ha luogo nella guarnigione “bianca” di Irkutsk, ma la propaganda raggiunge ben presto Tomsk, Krasnojarsk e la flotta del lago Bajkal. In quel periodo vedono la luce numerose traduzioni di autori come Kropotkin (russo, ma che all’epoca, ormai residente a Londra, pubblicava le sue opere in inglese), Reclus e il “nostro” Malatesta per le edizioni Novomirski, letteralmente “Nuovo mondo”, e sui periodici “Sibirskiy anarkhist” (L’anarchico siberiano) e “Buntovnik” (L’insorto). Oltre che tra i ferrovieri e i contadini, l’influenza anarchica è forte anche tra i 140 mila soldati inviati a combattere le truppe bianche di Koltchak. Proprio la presenza della controrivoluzione impedisce il disarmo, da parte dei bolscevichi, delle bande partigiane anarchiche, che fanno la loro comparsa nella regione dal 1918 e il cui contributo militare, sotto la guida di comandanti come Novoselov e Rogov, è assolutamente indispensabile per la vittoria della rivoluzione. Tuttavia, ben presto i contrasti con i bolscevichi si palesano. Dapprima con la nomina di amministratori esterni alla regione e poi con la nomina di ex-ufficiali zaristi a capo delle guarnigioni locali. La resa dei conti si ha in occasione del 1° maggio 1920 a Julanikh, dove 1.000 partigiani e qualche migliaio di contadini rendono omaggio alle vittime della controrivoluzione. La rivolta scoppia due giorni dopo quando Novoselov proclama la nascita della Federazione Anarchica d’Altaï (FAA). In seguito all’attacco dell’Armata rossa le truppe anarchiche si dividono in piccoli gruppi e si disperdono nella taiga. Nel giugno 1920 Rogov, catturato, si suicida; Novoselov invece continua la lotta fino a settembre, prima di sparire con i suoi partigiani. Riapparirà nel 1921 tentando una nuova sollevazione, alleato anche a truppe controrivoluzionarie, ma la sorte della battaglia gli si rivelerà in breve tempo contraria. Insurrezioni, presto sconfitte, scoppiano anche nella regione di Tomsk sotto la guida di Lubkov e dei suoi 2.500-3.000 partigiani. Si conclude così quella che può essere definita una “machnovitchina” siberiana.



L’opera d’arte realizzata dal capitalismo

Marx pone la contraddizione, tipica della società capitalistica, al centro delle sue riflessioni. Lì dove viene introdotto l’uso delle macchine dovrebbe ridursi e, al tempo stesso, potenziarsi il lavoro umano; mentre, e qui si tocca con mano la contraddizione, proprio l’uso delle macchine affama l’essere umano e lo costringe ad un accresciuto, spesso bestiale, sforzo lavorativo. Nella realtà ciò che dovrebbe determinare un aumento della ricchezza genera sempre maggiore miseria. La questione dell’assoggettamento della natura all’uomo diventa la questione dell’assoggettamento dell’uomo all’altro uomo. Ciò che dovrebbe, attraverso l’introduzione di sempre più raffinate tecniche e di strumenti scientifici all’uopo, determinare un miglioramento complessivo della vita, anche di quella spirituale, conduce invece l’uomo alle soglie della più totale abiezione.

L’OPERA D’ARTE REALIZZATA dal capitalismo è stata la trasformazione della massa popolare in liberi «poveri che lavorano». Quindi il capitalismo dà vita ad un nuovo sistema di oppressione che garantisce soltanto l’illusione della libertà. La stessa divisione della società in classi è garantita da una forma di indipendenza personale, ossia la libertà formale, che convive con la più totale dipendenza materiale, ossia la sudditanza economica. Soltanto con la transizione ad una società senza classi, si potrà pervenire alla formazione di una individualità libera fondata «sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale». 


giovedì 21 settembre 2023

Gli animali non umani parlano, tra di loro, con noi e con il vivente tutto

Il tradimento chiama e interroga l’amore. Tradiamo solamente ciò che amiamo. Rompiamo la parola data nei confronti di coloro i quali sono nostri compagni, con i quali al principio abbiamo instaurato un legame d’adozione e di fiducia. Si tratta di un’alleanza. In francese, come in italiano, esiste la definizione «animali da compagnia», ma in tale definizione trovo che ci sia qualcosa che ha a che fare con il servizio, come quello delle dame di compagnia, un rapporto insomma tra superiori e inferiori. Nella vita urbana, al parco, capita spesso di vedere un umano e un animale: dovrebbero essere momenti di compagnia quelli, invece c’è un guinzaglio, una corda, un’incarcerazione virtuale, un imprigionamento. E ci sono i padroni, i proprietari che intervengono per privare della libertà: quella tra due cani di incontrarsi ad esempio, quando vengono prontamente tirati e privati di comunicazione. Si tratta di un atto di schiavitù non dichiarata che si insinua dappertutto. Tramite la schiavitù l’essere umano nega la propria umanità. Anche tramite il tradimento la nega. Nel «ti prendo, ti lascio, scelgo di lasciarti in vita o di togliertela», l’essere umano tradisce e tradisce la pulsione di fiducia che gli animali hanno nei confronti degli umani. Il tradimento è imperdonabile e in questo senso non si riesce a scegliere quale lo sia di più, se non nel senso che certo non si può recuperare, perché il crimine compiuto è rapido e inaccettabile.


LA PORTA A SUD - Gabriela Fantato

Bisognerà rifare i conti,

quel battere preciso

dentro gli anni e la ferita.

Adesso la finestra sta aperta

il cielo scivola dentro,

porta il vento

e uno stridere di denti.

Attorno il confine si è fatto

coro – lingua di molte voci,

stanze nella promessa di una terra.

Bisognerà ascoltare l’allarme

tra un abbraccio e la paura

dentro la ninna-nanna.

Al centro – non più un tavolo

e piatti bianchi per l’abbraccio.

Senza la porta,

il confine segna il sud da dove

viene il mare e la storia,

quel muoversi di sogni

nel passare.


Henry David Thoreau

Henry David Thoreau nasce nella piccola cittadina di Concord, nel Massachusetts, il 12 luglio 1817. La sopravvivenza della sua famiglia si lega alla modesta attività nel campo della costruzione artigianale di matite: quanto basta per permettere a David di frequentare, dal 1829, l’Accademia di Concord. Nel ’37 conosce Ralph Waldo Emerson, massimo esponente dei trascendentalisti – un gruppo eterogeneo di intellettuali distaccatisi dalla Chiesa Unitaria – che attira l’attenzione di Thoreau sullo studio delle scritture indiane. Quattro anni dopo, quando va ad abitare con Emerson, e ha l’accesso alla sua splendida libreria, comincia a leggere alcune importanti scritture indiane. Alcune annotazioni sul suo diario testimoniano questa attenzione. Sempre nel ’37 si laurea in letteratura all’Università di Harvard e l’anno dopo, insieme con il fratello John, apre una scuola privata che abbandona nel ’40 per l’opposizione dell’ambiente culturale cittadino favorevole, tra l’altro, alle punizioni corporali agli studenti. Dal ’45 al ’47 vive in una modesta abitazione costruita con le proprie mani sulle rive del lago Walden, vicino a Concord. La cronaca di questi due anni si può leggere su “Walden ovvero vita nei boschi”, un classico in materia di rapporti tra l’uomo e la natura. In quest’opera esalta la libertà e l’indipendenza dell’individuo, intravede nell’industrializzazione americana e nel capitalismo basato sul profitto lo stravolgimento dei ritmi della natura: 150 anni fa Thoreau era già consapevole che la Natura doveva essere capita e salvata. Lo scrittore statunitense propone il ritorno a una società agricola, ecologica, fondata sugli scambi. Pubblicato nel ’54, il libro costituisce un insieme di riflessioni e considerazioni, di narrazione di episodi di vita quotidiana e di descrizione degli eventi naturali che si manifestano con il cambio delle stagioni, attorno al lago Walden e ai suoi boschi. Nel ’46 si rifiuta di pagare il cinque per cento delle tasse che avrebbero dovuto finanziare la guerra contro il Messico: “Non voglio che i miei soldi siano spesi per comprare armi che serviranno ad uccidere dei miei fratelli.” Per questo gesto sconta un giorno di carcere. Il ’46 è anche l’anno in cui pubblica quello che molti definiranno un classico del pensiero libertario: “La disobbedienza civile”. Testo letto con entusiasmo da Tolstoj, adottato da Gandhi come manifesto di ribellione non violenta, apprezzato da Martin Luther King e dalla beat generation. Sarà una delle prime letture del giovane Malcolm X durante il carcere, lettura che contribuirà in modo determinante a fargli scoprire la questione dei diritti dei neri d’America. Thoreau vede negli “affari” (business) una delle cause che provocano la servitù politica e nella proprietà una delle più consistenti minacce alla libertà dell’uomo. Agli scritti ispirati alla natura americana Thoreau affianca un’intensa attività politica condensata in numerosi articoli, conferenze e lezioni pubbliche, alcune delle quali pubblicata, come le dure requisitorie contro lo schiavismo americano che traggono origine dalla fucilazione avvenuta in Virginia nel 1859 di John Brown, fervente sostenitore della necessità di abolire la schiavitù praticata in quello Stato, giunto a ribellarsi armi alla mano alle leggi che ne consentivano e alimentavano l’esistenza. Nel ’60 scrive su “The Liberator”, pubblicazione antischiavista. In conseguenza della tisi muore nel maggio del ’62. Postumo esce “The journal” (14 volumi), un’accurata autoanalisi tenuta sul suo diario dall’età di vent’anni fin quasi al termine dei suoi giorni. Sua la frase: “Il migliore dei governi è quello che governa meno. Se attuata, questa affermazione porta al seguente risultato: il migliore dei governi è quello che non governa del tutto.”


giovedì 14 settembre 2023

VA BENE, VA BENE, VA BENE

Ma non c’è più una cultura universale se non ci sono più culture nazionali e locali, strappate dai luoghi della propria genia, della propria generazione e delle loro genealogie. Non c’è più scambio se non ci sono più poli di scambio, più niente da scambiare. Nient’altro che gli stessi prodotti provenienti dai siti delocalizzati della divisione internazionale del lavoro, in funzione dei costi di produzione, manodopera e trasporto più bassi possibili. Niente più comunicazione se non c’è più niente da comunicare, se l’espansione e il perfezionamento dei circuiti porta alla scomparsa dei luoghi e dei loro propri geni. Se i mezzi hanno ucciso il fine è perché le reti non si connettono più a nient’altro che a se stesse. Non c’è niente da mettere in comune se non si ha più nulla di proprio. Se non ci sono più persone di qui o di altri luoghi, ma nient’altro che passeggeri uniformi e intercambiabili. Nient’altro che una circolazione di segnali in costante accelerazione e che non segnalano altro che: va bene, va bene, va bene. Nient’altro che una funzione circolare in perenne accelerazione.


LEZIONI DI PITTURA - Herbert Pagani

Quando lascio Parigi, capital-spazzatura

Quando fuggo dalle pubblicità che mi assalgono a colori

Quando lascio il suo grigio nel retrovisore

Per cantare da qualche parte fra Loira e Mosella

Riscopro il tuo volto fra le rondini

E ritorno pittore e mi scordo il cantante.


Hai dei cieli che danno lezioni di pittura

Hai i cieli dei quadri della rivoluzione

Le tue nubi sputate da enormi cannoni

Si contendono l’alto, e passando in macchina

Mi sembrano navi assetate d’azzurro

E fioccano così basse, che mi sfiorano la fronte


Le tue capanne hanno tutta l’aria di venir fuori da una bibbia

Curata da un qualche Mosè normanno

E i tuoi prati sono di un verde così commestibile

Che si vorrebbe essere cavallo per brucarli un po’


Hai i cieli di Vlaminck, ma di un blu che si muove

Hai i campi di Van Gogh, ma con in più gli odori

Hai Monet per le acque, i riflessi, i vapori

E queste giungle fiorite nelle stazioni dei paesi

Sono talmente Rousseau [il doganiere], che quasi è un peccato

Che manchi un leone che sorride fra i fiori.


Che mi guidino dal cielo o li abbia alle calcagna

Che sian d’oro o di bronzo, di bruma o di sangue

Il tuo sole mi rivela, a questa o quell’ora

Primavere giapponesi, autunni spumosi

Estati violette, come da manuale

Novembri di pioggia, inverni di diamante. 


Però io, che prendo le tue lezioni di pittura,

Io che canto la tua terra proprio ai tuoi figli

Io che a forza d’amore ho perduto l’accento

E ti cucio in francese quartine su misura

Come molti amanti ho anch’io una ferita

Che conservo segreta, ma continua a sanguinare.


Ma mi hai visto? Ho il ricciolo berbero

Ma mi hai ascoltato? Ho la voce di un muratore

È nell’olio d’oliva che cucino le canzoni

E parlo gesticolando e adoro la mamma

Ed ho tanti pogrom nel mio cuore millenario

Che talvolta esito davanti al prosciutto.


Cominci a capire perché mi addolora

Vedere il disprezzo che hanno a volte i tuoi figli

Per i neri, gli arabi, gli ebrei, gli zingari

Che non hanno il talento di passare per poeti

Emiliano Zapata

A differenza di molti altri rivoluzionari del ventesimo secolo, Emiliano Zapata (1879-1919) non è stato un intellettuale né un transfuga della classe dominante, ma un leader popolare di origine indigena. Nato nel villaggio di Anenecuilco (Stato di Morelos – Messico), Emiliano è il nono di dieci figli di una delle tante famiglie impoverite dalle haciendas, le grandi aziende agricole divoratrici di terre nate dalla modernizzazione promossa dal dittatore Porfirio Diaz. Nel Morelos si scontrano due civiltà: quella degli imprenditori capitalisti e quella degli indigeni legati alla terra e al villaggio (pueblo) che conservano uno spirito indomito e un forte senso della solidarietà. Zapata riceve l’istruzione elementare fino a quando, rimasto orfano all’età di 16 anni, comincia a lavorare distinguendosi ben presto come buon agricoltore e gran conoscitore di cavalli. All’inizio del secolo conosce due personaggi che giocheranno un ruolo importante nella sua vita: Pablo Torres Burgos e Otilio Montano. Entrambi sono maestri di scuola. Il primo gli mette a disposizione la propria biblioteca dove può leggere anche “Regeneración”, rivista clandestina dei fratelli Flores Magón; il secondo lo introduce alla letteratura libertaria, in particolare all’opera di Kropotkin. Grandi scioperi si svolgono nelle ferrovie, nell’industria tessile, nelle miniere e nelle fabbriche di tabacco. Due scioperi annunciano la rivoluzione: quello di Cananea nel 1906, e lo sciopero di Rio Blanco nel 1907, represso dall’esercito, dalla polizia e dai rurales che ammazzano 200 lavoratori e ne imprigionano 400. Nel 1909 Zapata viene eletto sindaco di Anenecuilco. L’anno dopo, in seguito ad un infruttuoso incontro con il presidente Diaz e a vari tentativi di risolvere i problemi del pueblo per via legale, comincia a occupare e a distribuire terre. Il 1910 è anche l’anno in cui si lancia nella lotta armata. Dopo la morte di Torre Burgos per mano dei federales, diventa il capo indiscusso della rivoluzione del Sud. I suoi guerriglieri non abbandonano mai del tutto il lavoro, ma prendono le armi solo per respingere l’invasione. Mancano di esperienza organizzativa essendo stata proibita da Diaz ogni attività sindacale. Conoscono le idee anarcosindacaliste, soprattutto attraverso le relazioni degli emigrati negli Stati Uniti con i membri degli International Workers of the World (IWW). Partecipa alla rivoluzione di Francisco Madero per rovesciare il presidente Diaz, ma successivamente si mette a capo di un’insurrezione contro lo stesso Madero ritenendo non mantenuta la sua promessa riforma agraria. Nel 1914 marcia su Città del Messico insieme ad un altro rivoluzionario, Doroteo Arango – detto Pancho Villa – guida dei rivoluzionari del Nord. Gli abitanti della capitale hanno paura dell’Attila del Sud, però i rivoluzionari non commettono saccheggi né atti di violenza. In un gesto poi diventato famoso, Zapata rifiuta l’invito a sedere sulla poltrona presidenziale: “Non combatto per questo. Combatto per le terre, perché le restituiscano”. E torna nel Morelos, territorio libero dopo la fuga dei proprietari terrieri e dei federales. Grazie alla sua ferma richiesta restituzione della terra agli indios, gode di un appoggio incondizionato da parte di queste popolazioni, con le quali forma uno degli eserciti più agguerriti della rivoluzione messicana. Il grido libertario “Tierra y Libertad”, diffuso dalla rivista “Regeneración”, diventa uno dei simboli della rivoluzione. Zapata lo scrive sulle sue bandiere. Durante la presidenza di Venustiano Carranza, giunge a controllare metà del paese e, nelle zone che domina, proclama il “Piano Ayala” di restituzione della terra agli indigeni. Gli articoli 6, 7, 8 e 9 del Plan de Ayala riguardano in modo diretto la questione della terra: si chiede la restituzione di “terrenos, montes y aguas” usurpati a coloro che ne avevano i titoli di proprietà, in genere pueblos e piccoli coltivatori, e l’espropriazione del latifondo per sviluppare l’agricoltura ed eliminare la disoccupazione e la miseria. Il rivoluzionario messicano non è mai stato dichiaratamente anarchico pur essendo fortemente influenzato dal magonismo – movimento sorto nel 1892, che nella sua evoluzione ideologica finisce con l’aderire ai principi anarchici: antistatalismo, ateismo, egualitarismo, disprezzo dei meccanismi elettorali. Quasi invincibile sul piano militare, Zapata è attirato in un’imboscata tesagli dall’ufficiale traditore Jesùs Guajardo e assassinato il 10 aprile 1919, presso l’hacienda di Chinameca. Aveva sempre sostenuto che era meglio “morire in piedi che vivere in ginocchio”.



giovedì 7 settembre 2023

Cos’è che tanto temiamo della Catastrofe?

C’è chi resiste ad accettare la convenienza della Catastrofe; e, non potendo credere nella capacità di ammenda del capitalismo —capacità di porsi dei limiti, di porre il freno, di “smettere di essere sé stesso”—, appoggia una “eco-tirannia”, una “eco-dittatura”: obbligare gli uomini a comportarsi bene, nella loro relazione con l’ambiente, come devono comportarsi per assicurare semplicemente la sussistenza della specie umana; obbligarli a vivere come è necessario per schivare quella catastrofe. Si tratterebbe, senz’altro, della più filantropica delle dittature, una tirannia veramente “umanitaria”. A questa “eco-dittatura” si riferiva Hans Jonas quando aggiungeva che, se deve esistere un’umanità sulla Terra, bisognerà rinunciare ai lussi della libertà; e, tra altri, le ha dedicato molte pagine Rudolf Bahro, nella sua Logica della Salvazione. Secondo quest’autore, «il governo della salvazione sarà totalitario, o eco-dittatoriale, o come si voglia chiamarlo, fino a quando gli individui non avranno il minimo proposito di porsi per convinzione propria all’altezza della sfida storica: assicurare la sussistenza della specie umana sulla Terra, per il quale scopo porre termine agli orientamenti economici e alle pratiche politiche “sterminatrici” oggi dominanti». Certo che risulta peripatetica quest’idea di una “santa tirannia”, di una “dittatura filantropica”; certo che è scomodo accettare la postulazione di una catastrofe imminente (“imminente” è un termine relativo: vuol dire “immediatamente”, in un pugno d’anni o in pochi secoli). Ma, possiamo credere ancora nella volontà di “auto-correzione” del produttivismo? Possiamo fidarci del fatto che sarà riveduta e neutralizzata la logica di crescita, di produzione e consumo inarrestabile, che caratterizza il capitalismo e che pure ha fatto estinguere il Socialismo? È possibile immaginare formule di organizzazione politico-economica che, appartandosi dal produttivismo, e recuperando gli elementi positivi delle tradizioni collettiviste, cooperativiste, agrarie, ecc., istituiscano modelli di società infinitamente meno dannosi per la Natura che quello attuale e, in questo modo, garantiscano la non-estinzione degli esseri umani. La tradizione libertaria sa molto su questa possibilità: storicamente è stata fatta un’incursione per vie poco transitate che permetterebbero all’uomo di sorteggiare “santi dispotismi” e “catastrofi annunciate”. Però ci sono uomini (o sarà possibile averli) disposti ad accettare un cambio così drastico nelle loro abitudini politiche ed economiche; capaci di assumere che sono stati formati ed educati in una farsa sanguinosa, e che hanno investito tutta la loro vita nell’errore più stupido e nel concimare la perdizione dell’umanità? Se si potesse rispondere affermativamente a questa domanda rimarrebbe ancora uno spiraglio di speranza. Se la risposta è negativa, rimane solo una questione da esporre: cos’è quello che temiamo della Catastrofe? Che temiamo della Catastrofe quando la maggior parte dei nostri simili già vive nel suo seno (catastrofe di morire di fame, di veder morire i suoi figli nell’infanzia, di sapersi indifeso e alla mercè delle malattie, di non poter scappare dal terrore politico,...)? Non sarà che l’unica cosa che non ci sembra buona di quest’infortunio quotidiano, nel cui cuore vivono già milioni di persone, l’unica cosa che ci inquieta e ci scuote, è che domani potrebbe toccare anche a noi, gli occidentali, gli uomini e le donne che durante gli ultimi secoli abbiamo fatto tutto il possibile perché la catastrofe sia il destino degli altri e adesso retrocediamo spaventati davanti al sospetto, se non alla certezza, che dovrà essere anche il nostro?

Pedro Garcìa Olivo


Katmandu (Les Chemins de Katmandou) – André Cayatte

(A Jane Birkin)

Il giovane Olivier partecipando alle dimostrazioni studentesche di Parigi, ferisce un agente. Per evitare la cattura, decide di partire alla volta di Katmandu, in Nepal, dove vive il padre, che egli ritiene molto ricco per chiedergli 30 milioni di alimenti mai versati alla moglie separata. Non essendo in grado di pagarsi il viaggio, il giovane accetta di partire per l'India per conto di un'organizzazione pacifista impegnata in una serie di iniziative a favore di paesi sottosviluppati. Durante il viaggio conosce una ragazza inglese tossicodipendente che pratica il libero amore con due coetanei, uno svedese e un olandese. Cayatte si reinventa il ‘68 e imbastisce un film lisergico e con una morale in stile peace and love. Una volta giunto in India, però, anziché fermarsi nella località destinatagli, intraprende il viaggio alla volta del Nepal, deciso a ricongiungersi col padre. A Katmandu lo attende una sgradita sorpresa: il padre è soltanto un uomo povero che fa la guida nei safari e trafficando in statue trafugate nei templi locali. A questa delusione si aggiunge la tragica morte della ragazza hippie incontrata durante il viaggio e alla quale si era affezionato. Lasciata Katmandu, Olivier riprende la strada dell'India, deciso
a svolgere con autentico impegno quei compiti che l'organizzazione pacifista, alla quale aveva aderito esclusivamente per effettuare il viaggio, gli aveva affidato. Voglio vivere così. Una perla del brutto a cui ripensare, così come consigliato da uno dei suoi pochi ma prestigiosi fan, ovvero Joe Dante: Katmandu (Les Chemins de Katmandou), di Andrè Cayatte (1969), un’innocente devianza figlia dei beati anni della contestazione il cui segreto fulcro di seduzione risiede tutto nell’eclettico cast: la storica e invidiabile coppia Jane Birkin e Serge Gainsbourg autore delle musiche, Pascale Audret, Elsa Martinelli, Arlene Dahl, Sacha Pitoeff… Per il giovane Olivier (Renaud Verley), esauriti i fasti ideologici del Maggio francese, è tempo di rientrare nell’alveo familiare e tentare di salvare il salvabile del rapporto con i genitori, una madre – modella ormai avanti con gli anni – abbandonata a sè stessa e un padre fuggito in Oriente, ora raggiunto da Olivier, che in Nepal riconosce il luogo ideale dove confondersi nell’illusoria chimera de «il privato è politico», stretto in un affaire inestricabile di soldi, droga e amore libero, ma la raffigurazione squallidamente realistica dei paradisi artificiali prodotti dalla droga ha una certa energia (notevole Jane Birkin sudicia, strafatta e infagottata in maglioni larghi). Un reperto d’epoca da guardare con tenerezza, anche per la scoperta finale della solidarietà



L’educazione libertaria in Elisée Reclus

Reclus coniuga l’educazione con la ricerca scientifica che lo porta ad una esaltazione della Natura nei suoi aspetti fondanti l’identità umana. L’educazione libertaria trova nel suo pensiero simbiosi perfetta con la natura umana e geoambientale. Il suo approccio pedagogico è dunque di tipo immanentistico nel senso che identità umana e natura coincidono. Pertanto scopo dell’educazione non può che essere quello di svelare ciò attraverso un approccio libertario e coerente di mezzi e fini in modo che educare sia esattamente educare ad essere ciò che si è. L’educazione dunque, secondo Reclus, non è formazione ad un uomo predefinito a priori, non è formazione di un modello, ma piuttosto svelamento libero e autodeterminato di ogni singola essenza che si riconosce in altre singolarità nel suo essere naturale. Rispetto ad altri autori anarchici e libertari egli mette particolarmente in evidenza come la scienza debba essere fortemente legata ad una interpretazione etica dello sviluppo storico e sociale e l’educazione, conseguentemente, non possa che assecondare questa simbiosi, garantendo, in questo modo, una vera, profonda, perché naturale, liberazione umana. Reclus compie il tentativo anarchico più profondo di interpretare tutta la vicenda umana saldando la realtà storica con quella naturale, l’uomo alla natura. La società anarchica è quella società che sostituisce le leggi storiche del potere con quelle spontanee dell’umano. L’educazione occupa dunque, in quanto processo dialogico di auto-svelamento della propria natura, un posto fondamentale nella sua teoria sociale e culturale. Egli ha modo fin dal 1853, quando dall’America del Nord scrive al fratello Elie, di sottolineare questi concetti allorché scrive che il bambino lasciato solo disegna prima il tronco, le idee filosofiche, l’essenza, la struttura e poi i rami e le foglie. Con ciò egli rivela come l’essenza debba precedere la forma, come la natura contenga l’umanità. La sua vita di “educatore” dimostra questa semplice ma rivoluzionaria verità: la scienza deve essere cosa viva e non “miserabile scolastica”, pertanto l’organizzazione della conoscenza deve prioritariamente saldare teoria e prassi, lavoro manuale e intellettuale, curiosità naturale e sistematicità, in modo che la scienza stessa sia in grado di alimentare la felicità umana. L’istruzione integrale e quella scientifica devono essere guidate dall’etica della libertà e della solidarietà e trovano nella natura il fondamento della loro autenticità. Proprio l’istruzione permette agli uomini il progresso che è tale in quanto sviluppa la conoscenza e la comprensione fra gli esseri viventi. Ed è proprio la natura che deve divenire il campo di osservazione per eccellenza in modo da permettere agli uomini di prendere coscienza dei loro interessi comuni e di trovare la forza per realizzarli. La conoscenza contiene in sé il senso della fatica e dello studio, proprio perché è scoperta del senso proprio di essere nel mondo. Pertanto l’istruzione integrale e l’educazione libertaria non contemplano premi e castighi ma, piuttosto, ricerca naturale delle leggi e delle conoscenze che promuovono la felicità dell’essere. Forte e radicale è, conseguentemente, la critica al sistema scolastico vigente che si preoccupa di formare al consenso e all’obbedienza verso lo Stato e la Chiesa e non permette in nessun modo il dispiegarsi delle potenzialità indivi-duali. Insegnamento mnemonico e meccanico, tempi dettati dalla logica arbitraria dell’insegnamento piuttosto che da quella dell’apprendimento, rapporti gerarchici e forte discriminazione delle donne, indottrinamento e selezione classista, costituiscono agli occhi di Reclus altrettanti obiettivi da abbattere a favore di una scuola autenticamente libertaria ed egualitaria. Egli è convinto che il diffondersi delle idee libertarie sia proporzionale alla possibilità di affermarsi di una società autenticamente libera che permetta all’uomo di perseguire la sua felicità e realizzi pienamente la sua più profonda convinzione: “l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa”