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giovedì 25 giugno 2020

Leo Jogiches

Leo Jogiches è un nome troppo poco presente nelle nostre memorie! Eppure inseparabile da quello di Rosa Luxemburg e dunque di lotta politica del movimento operaio della fine del XIX secolo e dell'inizio del XX.
Leggere la corrispondenza di Rosa Luxemburg tra il 1893 e il 1898, è seguire innanzitutto le loro vite intrecciate. Dalla loro vita in Svizzera e in Francia sino alla partenza di Rosa Luxemburg per la Germania. È seguire con divertimento una relazione che potremmo dire alla Sartre e Beauvoir anche se questa relazione è diversa, ma è una relazione segnata dalla riflessione e l'azione politica che si svolge nel corso delle righe. È vedere Rosa Luxemburg molto giovane che segue già degli studi brillanti e prepara un dottorato che pretende di fare di Jogiches il suo alter ego in questo campo. Ed è vedere Leo Jogiches impegnarsi in una ricerca che non lo entusiasma, lui che vive piuttosto nell'organizzazione e l'azione. La qual cosa sottolineerà molto più tardi Clara Zetkin in un omaggio a lui. È soprattutto vedere sin da quest'epoca i loro scambi e la loro azione su un abase di riflessione comune, marxista.
Leo Jogiches, come Rosa Luxemburg è di quei giovani che vivono sotto il dominio russo che molto presto si sono politicizzati e impegnati. Lo vediamo seguire un percorso che sarà quello di numerosi di questi giovani siano essi Russi, Lituani o Polacchi: raggiunge un gruppo vicino alla Narodnaja Volja di ispirazione piuttosto populista prima di evolversi verso una concezione marxista.
Arrestato due volte nel 1888 e 1889, fugge verso Ginevra poi Zurigo. È anche un percorso obbligato per numerosi militanti che fuggono la prigione, il confino, l'esercito, e di cui fa parte Rosa Luxemburg. Si incontrano dunque a Zurigo a fine del 1890 o inizio 1891. Come Rosa Luxemburg, si avvicina dapprima a Plekhanov, per infine allontanarsene e creare con lei su basi classiste il SDKPiL (Partito social-democratico del Regno di Polonia e di Lituania) in opposizione ai socialisti nazionalisti del PPS (Partito socialista polacco). Una grande parte della vita di Jogiches sarà dedicata alla lotta all'interno del movimento operaio polacco. Nel 1905, partecipa alla rivoluzione russa. Arrestato, condannato a otto anni di lavori forzati, evade. Nel 1914 sin dai primi giorni della guerra e dello stato d'assedio, Jogiches allestisce i suoi primi elementi dell'organizzazione che sarebbe divantato il gruppo Internazionale poi Spartakus.
Dopo il doppio assassinio di Liebknecht e Rosa Luxemburg, conduse clandestinamente l'inchiesta e fece in poche settimane luce sul caso, ritrovando soprattutto una fotografia degli assassini mentre stavano festeggiando. Fu probabilmente il motivo per il quale, il giorno stesso del suo arresto il 10 marzo 1919, fu abbattuto dall'ufficiale di polizia Tamschik all'interno della prigione di Moabit, con il pretesto di un tentativo di fuga.


Alla conquista dell’uomo

La tecnologia è un complesso sistema che comprende la divisione del lavoro, l'estrazione delle risorse e lo sfruttamento in favore di tutti quelli che lavorano in questo processo. La tecnologia si distingue dai semplici strumenti. Uno strumento semplice è l'uso temporaneo di un elemento all'interno della nostra area che ci è immediatamente vicina finalizzato ad aiutarci in un'operazione specifica. Gli strumenti non comprendono un complesso sistema che aliena gli utilizzatori dall'azione. Nella tecnologia questa separazione è implicita, e crea un'esperienza intermedia che porta alle varie forme di dominazione. La nostra dominazione cresce ogni volta che un nuovo "salva-tempo" tecnologico viene creato, poiché rende necessaria la costruzione di più tecnologia per il supporto, l'alimentazione, il mantenimento e la riparazione della tecnologia originale. Ciò ha condotto molto velocemente all'istituzione di un complesso sistema tecnologico che sembra avere un'esistenza indipendente dagli umani che lo hanno creato, e dove i rapporti di potere tra l’inventore e l’invenzione chiaramente favoriscono gli interessi della Macchina stessa. I sottoprodotti scartati dal Sistema Tecnologico inquinano il nostro ambiente fisico e psicologico. Il Sistema Tecnologico metodicamente distrugge, elimina, o subordina il mondo naturale, e non permette alla Terra di ristabilirsi o di creare una relazione simbiotica con esso. La tecnologia sta costruendo un mondo esclusivamente a misura delle macchine e l'ideale che spinge il sistema tecnologico a compiere i suoi sforzi è quello di poter meccanizzare ogni cosa che incontra. Se noi vogliamo essere qualcosa di più che "servi delle macchine" o cyborg lacchè della tecnologia dobbiamo allora riconoscere la sua dominazione e lavorare per smantellare il sistema che è stato edificato attorno alla necessità delle macchine, e non delle forme di vita libere.

La nuova sensibilità annuncia un mondo nuovo

Contro la produttività delle cose e delle persone, contro la falsa gratuità contemplativa che ne è il complemento, lentamente si coalizza quella parte della vita che la prospettiva del potere ha obliato nel cuore delle pietre, degli alberi e degli uomini. Nel suo irrompere imprevisto spariranno l'economia e gli Stati, mentre emergerà  la società dove la ricchezza tecnica è al servizio della ricchezza dei desideri individuali. Questa è la lotta collettiva che la merce e i suoi storpi si rifiutano di veder montare contro di loro. 
La nuova sensibilità annuncia un mondo nuovo. L’intelligenza sensuale dà forma alla fine definitiva del lavoro e delle sue separazioni. La vera spontaneità è propria solo dei desideri alla ricerca dell'emancipazione. Essa dissolverà l'incubo millenario dell'economia, la civilizzazione mercantile con le sue banche, le sue prigioni, caserme, fabbriche, la sua noia mortale. Presto costruiremo le nostre case, le nostre strade riscaldate, i nostri percorsi labirintici in una natura riconciliata con la mano dell'uomo. Avremo delle regioni fetali, dei posti d'avventura, dimore ispirate e fluttuanti, altri tempi, dove l'età non avrà più senso e il reale non avrà limiti. Inventeremo dei micro-climi varianti secondo gli umori, e dimenticheremo l'epoca in cui, la burocrazia scientifica, perfezionando le armi della distruzione meteorologica, ci trattava da utopisti. Perché la spontaneità ha l'innocenza di cancellare questo  passato terribilmente presente dove niente di ciò che uccide è impossibile, e dove tutto ciò che incita a vivere è tacciato di  follia.

giovedì 18 giugno 2020

Abel Paz il primo giorno della rivoluzione

Quando nella notte tra il 19 e il 20 di luglio del 1936, arrivai all’Ateneo Eclectico del quartiere del Clot, era già passata la mezzanotte, ma dall’attività febbrile che vi regnava non sembrava di essere già alle prime luci del nuovo giorno, il 20. Era un continuo andirivieni di gente che si muoveva in fretta per far fronte alle necessità dei posti di guardia sulle barricate, che durante il giorno erano state alzate vicino all’Ateneo, nella calle Industria e nella calle Padre Claret, allo sbocco della rambla Guinardó, accanto al distributore di benzina e di fronte alla clinica Victoria. Mi mossi tra i capannelli che commentavano i fatti del giorno e la rapidità della vittoria sui militari golpisti. Una vittoria che era stata ottenuta nelle strade in meno di dodici ore di scontri con la truppa. Per uno dei presenti il ballo era cominciato mentre si trovava nel Paralelo, di fronte al Molino, all’uscita del Sindacato del Legno nella calle Rosai.
Raccontava come in un batter d’occhio la strada era stata disselciata e si era alzata una barricata enorme; dietro quel riparo avevano aspettato a pie’ fermo la truppa che scendeva da plaza de España con l’obiettivo di occupare il porto. Avevano fatto fronte con armi di fortuna e con bombe a mano fatte in casa. La truppa aveva preso posizione agli ordini di un tenente, ma questi doveva aver perso la testa e aveva ordinato ai suoi di attaccare allo scoperto la barricata; i difensori avevano vissuto momenti di angoscia nel vedere la rapidità con cui sparivano le loro munizioni. Ma nel momento in cui il tenente, sempre più esaltato, gridava: “All’attacco!”,
un caporale aveva rivolto la sua arma verso l’ufficiale e con un colpo l’aveva steso. “Tutti potemmo vedere la scena”, continuò il compagno, e aggiunse: “Da quel momento i soldati smisero di sparare e cominciarono a venire verso di noi gridando entusiasti: Viva la Repubblica!”. Tutti fraternizzammo, i soldati cominciarono a liberarsi delle divise e ciascuno per conto proprio si mise a raccontarci come erano stati ingannati dai loro comandanti. Questi avevano detto loro che andavano a difendere la Repubblica minacciata da elementi che le si erano sollevati contro...”.
Il testimone continuò a raccontare quello che era successo dopo, ma io mi allontanai dal gruppo con l’intenzione di riposare almeno un po’, perché sentivo che il giorno che stava nascendo sarebbe stato duro. Finii per buttarmi su una coperta e lì mi sistemai per dormire. Impossibile. Ero sfinito, ma con i nervi a fior di pelle. Ero sovraeccitato. Chiudevo gli occhi e invece del sonno sopraggiungevano e si accavallavano le scene che avevo vissuto in quel giorno. Per me tutto era cominciato verso le nove della mattina del 19 luglio, molto vicino alla casa dove vivevo, nel quartiere del Clot. Qualcuno, appostato sul campanile della chiesa che avevo di fronte a casa, sparò sulla gente che si stava radunando nell’avenida Meridiana. Tra quelli che erano accorsi c’era un vecchio militante del sindacato Manifatturiero e Tessile, armato di un fucile da caccia. Imbracciò l’arma e sparò più volte contro il campanile, dopodiché non ci fu alcuna risposta. Chi aveva sparato? Rimase un mistero, perché malgrado in molti si facesse irruzione nella chiesa e si cercasse dovunque, non fu possibile trovare l’aggressore. Qualcuno disse che le chiese comunicavano l’un l’altra attraverso dei sotterranei, e che sicuramente il prete era sparito per quella via ma, per quanto si cercasse a lungo, non ci fu verso di scoprire il sotterraneo. La cosa più probabile è che il prete avesse indossato degli abiti civili e si fosse mescolato agli attaccanti per dileguarsi protetto dal travestimento.
(Da Abel Paz, “Spagna 1936. Un anarchico nella rivoluzione”.)

SAM STONE – Al Kooper

Sam Stone tornò a casa dalla moglie, 
in famiglia, dopo aver combattuto 
la guerra d'oltremare. 
Quando aveva combattuto 
i suoi nervi erano scossi e 
gli era rimasta una scheggia nel ginocchio. 
La morfina alleviava il dolore e 
l'erba cresceva nel suo cervello, 
dandogli la fiducia di cui aveva bisogno, 
con cuore di porpora e la “scimmia” 
sulla spalla 
C’è un buco nei braccio di papa 
dove va tutto il denaro
e il benvenuto a casa di Sam Stone 
durò troppo a lungo. 
Andò a lavorare dopo aver speso 
fino all'ultimo soldo e 
cominciò a rubare, quando 
aveva quella sensazione di vuoto, 
per un'abitudine da cento dollari 
Senza straordinario l'oro 
correva nelle sue vene, 
come migliaia di vagoni ferroviari 
placava la sua mente, quando lui voleva, 
mentre i suoi bambini se ne andavano in giro 
correndo con addosso abiti altrui. 
Sam era solo quando ruppe 
Il suo ultimo pallone aerostatico, 
si mise a scalare i muri, pur 
sedendo, lì, su una sedia 
e soddisfò la sua ultima ricchezza, 
mentre la stanza puzzava di morte. 
con una “overdose” che si aggirava nell'aria 
ora non c'è niente da fare, 
tranne che vendere la casa comprata 
per sovvenzione governativa, 
per un'urna drappeggiata di nero. 
(“Sam Stone” coautore John Prine)

La notte delle coscienze ha un tempo unico

Ubbidendo alla logica del profitto a breve termine, il valore d’uso del lavoro cede il passo al suo valore di scambio. Da quando la tirannia del lavoro è stata assorbita dalla tirannia del denaro, un grande vuoto monetizzabile si è impadronito delle teste e dei corpi. Quelli che incitano al lavoro sono gli stessi che lo distruggono. Quelli che osano oggi glorificare il lavoro sono gli stessi che chiudono le imprese per giocarsele in borsa alla roulette delle speculazioni borsistiche. 
Per quanto l’oscurantismo della nostra epoca  e la società dello spettacolo si sforzano di propagare l’istupidimento, l’insensibilità, il servilismo, la legge del più forte e del più furbo, niente potrà impedire al pensiero radicale di avanzare e di minare di nascosto lo spettacolo in cui la miseria esistenziale è elevata a virtù. La notte delle coscienze ha un tempo unico. Non c’è riuscita possibile per le ideologie ammuffite e per le vecchie gomme sgonfie della religione rigonfiate in tutta fretta, rimesse in sesto, gettate in pasto a una disperazione che l’affarismo è bravo a rendere redditizia.
Nel bene e nel male è iniziata la fine dello sfruttamento della natura, la fine del lavoro, dello scambio, della predazione, della separazione da sé stessi, del sacrificio, dei sensi di colpa, della rinuncia al piacere, del feticismo del denaro, del potere, dell’autorità gerarchica, del disprezzo e della paura della donna, della subornazione del bambino, dell’ascendente intellettuale, del dispotismo militare e poliziesco, delle religioni, delle ideologie, della rimozione e dei suoi sfoghi mortiferi.
Non c’è che la volontà di vivere che permetta il predominio dell’essere sull’avere, del godimento sull’appropriazione, della creazione sul lavoro e dall’affinamento dei piaceri sulla redditività delle loro rappresentazioni mercantili.
Per questo dobbiamo scommettere sull’autonomia degli individui, sulla facoltà creatrice che è in ciascuno e sulle collettività che federandosi getteranno le basi per una società solidale ed egualitaria.

giovedì 11 giugno 2020

LA VERA PRIGIONE - Ken Saro-Wiwa

Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un'intera generazione
E' il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L'inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina. 
È questo
È questo
È questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.
Alle 12.45 di venerdì 10 novembre 1995 il corpo di un uomo era appeso con una fune al collo, in una caserma di Port Harcourt, città della Nigeria meridionale. Il boia- inesperto - che aveva sbagliato a fare il nodo, fu costretto a ripetere l’esecuzione per ben quattro volte, prima che il collo del condannato si spezzasse e provocasse così la morte per soffocamento in pochi secondi. Durante i quattro tentativi di esecuzione, invece, l’uomo restò vivo, rischiando ogni volta di soffocare, ma molto lentamente. Il suo nome era Ken Saro-Wiwa, scrittore, poeta, drammaturgo, nigeriano, fondatore del Movimento non violento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, organizzazione che diventò celebre il 4 gennaio del 1993 quando riuscì a portare in piazza oltre 300 mila persone, contro le devastazioni ambientali e la cacciata di migliaia di contadini e pescatori dalle zone dove erano concentrate le estrazioni di petrolio della compagnia petrolifera anglo-olandese della Shell. Venne sepolto in una fossa comune e i familiari non riuscirono mai a farsi restituire il suo corpo. Ma il funerale fu celebrato lo stesso: nella bara, solo i suoi libri e la sua pipa.

L’essenziale è essere collegati

L’immagine, e con essa l'informazione, non è legata ad alcun principio di verità o di realtà.
Il vero problema delle società attuali, allora non è più la sovrapposizione di beni, ma l'eccesso di produzione di informazioni nel sociale, che rovescia paradossalmente "la società dell'informazione in una società afasicà”, sempre più incapace di parlare.
Il flusso incessantemente in crescita delle informazioni nel sociale instaura quindi il dominio di una forma circolatoria pura, votata radicalmente alla circolazione forzata e sempre più ravvicinata delle informazioni.
La comunicazione non si basa necessariamente sull'informazione, ma costituisce una dimensione a sé; è il puro collegamento, il contatto, tutte quelle forme di combinatoria relazionale che non hanno bisogno di messaggio. L’essenziale è essere collegati, anche se non si ha nulla da "dire".
Nell'informazione e nella comunicazione, il valore del messaggio è quello della sua circolazione pura, del fatto stesso che esso passa da immagine a immagine, da schermo a schermo.
L'informazione invece di fare comunicare si esaurisce nella messa in scena della comunicazione. Si gioca a parlarsi, a sentirsi, a comunicare, si gioca con i meccanismi più sottili di messa in scena della comunicazione.

Franz Kafka e l’anarchia

Tre testimonianze di contemporanei cechi documentano la simpatia che lo scrittore praghese aveva per i socialisti libertari cechi e la sua partecipazione ad alcune delle loro attività. Agli inizi degli anni '30, nel corso delle sue ricerche in vista della redazione del romanzo Stefan Rott (1931), Max Brod raccolse delle informazioni da uno dei fondatori del movimento anarchico ceco, Michal Kacha. Esse concernono la presenza di Kafka alle riunioni del Klub Mladych (club dei Giovani), organizzazione libertaria, antimilitarista ed anticlericale, frequentata da molti scrittori cechi (S. Neumann, Mares, Hasek). Integrando queste informazioni- che gli furono "confermate da altre parti"- Brod scrive nel suo romanzo che Kafka "assisteva spesso, in silenzio, alle sedute del circolo". Kacha lo trovava simpatico e lo chiamava "Klidas" che  significa "il silenzioso" o più esattamente seguendo il gergo ceco "colosso di silenzio".
La seconda testimonianza è quella dello scrittore anarchico Michal Mares, che aveva fatto la conoscenza di Kafka in strada (erano vicini di casa). Secondo Mares - il cui documento fu pubblicato da Klaus Wagenbach nel 1958 -, Kafka era venuto, su suo invito, ad una manifestazione contro l'esecuzione di Francisco Ferrer, l'educatore libertario spagnolo, nell'ottobre 1909. Nel corso degli anni 1910-12, avrebbe assistito a delle conferenza anarchiche sull'amore libero, sulla Comune di Parigi, sulla pace, contro l'esecuzione del militante parigini Liabeuf, organizzate dal Club dei Giovani, dall'associazione "Vilem Körber" (anticlericale ed antimilitarista) e dal Movimento anarchico ceco. Avrebbe anche, in diverse occasioni, pagato cinque corone di cauzione per far liberare il suo amico dalla prigione. "A mia conoscenza, Kafka non apparteneva ad nessuna di queste organizzazioni anarchiche, ma aveva per esse le forti simpatie di un uomo sensibile ed aperto ai problemi sociali. Tuttavia, malgrado l'interesse che egli aveva per queste riunioni vista la sua assiduità, non interveniva mai nelle discussioni". Quest'interesse si sarebbe manifestato anche nelle sue letture - Le Parole di un ribelle di Kropotkin (regalo dello stesso Mares), così come degli scritti dei fratelli Reclus, di Bakunin e di Jean Grave - e nelle sue simpatie: "Il destino dell'anarchico Ravachol o la tragedia di Emma Goldmann che editò Mother Earth lo toccavano particolarmente". 
La terza testimonianza sono le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch, apparso in prima edizione nel 1951 ed in una seconda, considerevolmente ampliata, nel 1968. Questa testimonianza, che si riferisce a degli scambi con lo scrittore praghese nel corso degli ultimi anni della sua vita (a partire dal 1920), suggerisce che Kafka conservava la sua simpatia per i libertari. Non soltanto qualifica gli anarchici cechi come uomini "molto gentili ed allegri", così "gentili ed amichevoli che si  trova obbligato a  credere ad ognuna delle loro parole", ma le idee politiche e sociali che egli esprime nel corso di queste conversazioni rimangono fortemente segnate dalla corrente libertaria. Ad esempio, la sua definizione del capitalismo come "un sistema di rapporti di dipendenza" in cui "tutto è gerarchizzato, tutto è incatenato" è tipicamente anarchica, per la sua insistenza sul carattere autoritario di questo sistema- e non sullo sfruttamento economico come fa il marxismo. Anche il suo atteggiamento scettico verso il movimento operaio organizzato sembra ispirato dalla diffidenza libertaria verso i partiti e le istituzioni politiche: dietro gli operai che sfilano "avanzano già i segretari, i burocrati, i politici professionali, tutti i sultani moderni di cui essi preparano l'accesso al potere... La rivoluzione sfuma, rimane soltanto allora la melma di una nuova burocrazia. Le catene dell'umanità torturata sono in carta ministeriale".

giovedì 4 giugno 2020

La società come prigione

Questo potere di coercizione e di cancellazione del dissenso si è instaurato ben prima di elargire “graziosamente” i diritti civili come il voto, che, inscenando la democrazia rappresentativa, garantirebbe la sovranità popolare.
La società come prigione di cui siamo anche carcerieri è un fatto. 
La società non sia più la prigione a cui siamo tutti condannati ma un luogo felice da edificare con le forze e le idee di tutti ben armonizzate tra loro.
Non basta togliere il potere a chi ce l'ha occorre che ciascuno si munisca di un proprio potere di pensare e di agire costituendosi come parte di una collettività di individui pensanti, federati per essere ciascuno il testimone e il custode della libertà di tutti. Significa ribaltare il concetto stesso di legge e di sovranità, non più un modo di costringere gli altri, ma una responsabilità di realizzare le proprie idee trovando anche le energie per attuarle e incoraggiando altri ad unirsi.
Dobbiamo sostituire il circolo vizioso del dominio e della sanzione violenta con il circolo virtuoso dell'esempio e della parola libera.
La libertà di tutti comincia dallo scambio gratuito di diverse sensibilità, diverse opzioni individuali e sociali. Ognuno deve poter prendere dagli altri quel che sembra migliorare il senso della vita, lasciando quel che ne complica le realizzazioni.
L’umanità dell'essere umano è infatti il dono che ognuno fa a se stesso per il piacere di tutti. Il dono che include tutti gli altri.
La rivoluzione sociale bussa dunque alla nostra porta nel nome di una felicità per tutti e non in quello di un qualunque risentimento corporativo di ruolo o di genere. 
Se anche non riusciremo a rovesciare la prospettiva del mondo avremo avuto ancora una volta il piacere concreto di averci provato.

HAROLD E MAUDE - Hal Ashby

Harold e Maude racconta infatti una strana storia d'amore tra una ragazzo e un'anziana che si sono letteralmente scambiati il modo tradizionale di concepire l'esistenza: laddove Harold guarda infatti alla morte con una curiosità e una fascinazione che hanno del morboso, Maude celebra la vita in ogni suo aspetto. Harold è dotato di un'intelligenza fuori dal comune, delle doti artistiche che lo rendono in grado di prendersi gioco di chi li circonda, di un fondamentale odio per l'umanità; pur essendo cresciuto in una famiglia molto benestante, l'assenza del padre e la convivenza con una madre che si accorge di lui solo quando il ragazzo mette in scena i suoi spettacolari suicidi lo ha trasformato in una persona taciturna ed infelice, incapace di ribellarsi all'autorità della famiglia, del governo (lo zio militare) e della società (lo psichiatra e il prete). In mezzo all'oscurità e all'uggia che lo circondano, Maude diventa praticamente un raggio di sole e una speranza per Harold, che giustamente comincia ad innamorarsi della vita e dell'anziana signora. Maude, a differenza di Harold, ha avuto una vita piena, sicuramente anche zeppa di difficoltà e dolore, e la sua celebrazione della libertà sta proprio nella capacità di accettare tutte le cose, quelle belle come quelle brutte, e di seguire i propri desideri senza lasciarsi condizionare da preconcetti, leggi o divieti, rimanendo splendida e giovane anche nella decadenza della vecchiaia.
La maliosa vivacità di Maude riaccende gradualmente in Harold l'interesse per la vita, attraverso una lenta ma saggia riscoperta dei valori della natura. La linda e calda casettina ove abita Maude, la suggestione per l'arte pittorica, lo stupore dei sensi, azionati da una strana macchina, la bellezza dei fiori, del canto, della musica, delle piante, dei boschi e degli uccelli affascinano il ragazzo.
Nella scena madre del film, Maude chiede ad Harold quale fiore vorrebbe essere, lui risponde una margherita, perché sono tutte uguali. Allora lei lo corregge dicendo che non è assolutamente vero: “certe sono più piccole, certe più grosse, alcune pendono a sinistra e altre a destra, certe hanno perso i petali… Ma sono tutte diverse”. E poi conclude dicendo: “Sai Harold, secondo me gran parte delle brutture di questo mondo viene dal fatto che della gente che è diversa permette che altra gente la consideri uguale”.
Un film stravagante, spiritoso e coinvolgente che dimostra che l’amore non conosce barriere. E la colonna sonora di Cat Stevens aggiunge magia alla magia.
Il film di Hal Ashby non ha un contenuto direttamente politico, ma è profondamente intriso dello spirito del ’68: l rivolta contro tutte le convenzioni, il desiderio di vivere la propria vita e gli affetti senza condizionamenti che arrivano dalla società.
Al di là delle derive sessantottine, Ashby si serve di un impianto narrativo brillante per mettere in evidenza un problema che è tipico anche dei nostri tempi: la solitudine e l’isolamento della vita nella società moderna. Così, i due caratteri (di Maude e di Harold) e le due esistenze, diametralmente opposte, trovano un incontro nel rifiuto di una società basata sull’avere, rigettando – come insegna Maude – il benessere, la ricchezza, l’aridità dei sentimenti, a vantaggio della fantasia, dell’altruismo e dell’ottimismo.

Un immaginario ribelle e libertario

Il movimento migrante, negli ultimi decenni, ha iniziato a mettere in crisi confini, culture, lingue, Stati, economie rivelando la possibilità di nuove concatenazioni di lotte per le libertà. Una delle connessioni più interessanti per la configurazione di nuove lotte è proprio quella tra condizione precaria e condizione migrante. 
In  questa nuova configurazione la parola rivoluzione non significa nulla. Non significa niente alcuna parola che si iscriva in una prospettiva universale. Non esiste più un piano etico, immaginario, progettuale che sia comune alle figure del lavoro frammentario globalizzato, perché non esiste un piano di consistenza sociale che 
sia loro comune. Il capitale ovviamente attraversa tutte le figure del lavoro frammentato e mantiene la posizione di agente di codificazione generalizzata. È qui che deve operare, con analisi, pratiche e azioni, un movimento ribelle all'altezza dei tempi, senza inseguire triti concetti ottocenteschi  come: federalismo, conservazione (o innovazione) delle culture territoriali, nazione.., svuotati di significato dalla storia e dalle interpretazioni reazionarie e razziste, alle quali si deve rispondere, non con la proposta di cambiamento di segno o interpretazione della muffa di un tempo, ma con la creazione di nuove parole, concetti e pratiche che sappiano rilanciare un immaginario ribelle e libertario.