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giovedì 28 febbraio 2013

Immaginiamo i bambini del futuro...

Per vedere chiaramente il presente, immaginiamo i bambini del futuro che tra breve giocheranno fra le rovine degli edifici scolastici, degli aeroporti e degli ospedali. In questi moderni castelli, trasformati in cattedrali  costruite per proteggerci dalla ignoranza, dal disagio, dal dolore e dalla morte, i bambini di domani riprodurranno, nei loro giochi, le illusioni della nostra Era delle Professioni, come negli antichi castelli e nelle antiche cattedrali noi, oggi, ricostruiamo le crociate dei cavalieri contro i peccatori o contro i Turchi nell'Era della Fede. I bambini nei loro giochi mescoleranno il gergo televisivo che ora inquina il nostro linguaggio con arcaismi ereditati dal medioevo o dai western. Li vedo  rivolgersi l'un l'altro chiamandosi presidente e segretario piuttosto che capo e signore. Già adesso qualche adulto ha la delicatezza di arrossire quando infila nel suo inglese manageriale termini quali: policy-making, social planning e problem-solving.
Gli studenti futuri saranno altrettanto confusi nel dover determinare le differenze fra istituzioni di ispirazione socialista e quelle capitaliste, al pari degli studenti di oggi quando sono chiamati a chiarire le pretese diffrenze tra le diverse sette per la Riforma cristiana dei secoli passati. Scopriranno che gli studiosi professionisti, o i chirughi o i progettisti di supermercati nei Paesi poveri e/o socialisti, verso la fine di ogni decennio, utilizzavano gli stessi dati, gli stessi strumenti, costruivano gli stessi edifici dei loro colleghi dei Paesi ricchi, che però l'avevano già fatto all'inizio dello stesso decennio. Gli archeologici suddivideranno le ere della nostra generazione non attraverso i frammenti di vasellame, ma grazie alle mode professionali, riflesse nelle tendenze aggiornate delle pubblicazioni ONU.

THINK TWICE Poison Idea


Alzato su ambedue i piedi
Mi tengo da solo
Nessuna pistola, 
Non c’è modo di lasciare un segno
Marchiato, 
Ossessionato dalla morte della gente
Nessuna scelta per te
Buone morti benedette
Apriti totalmente e prendi il tuo veleno
Conta le tue felicità
Prima di perdere.
Io ho la forza di essere pazzo
Per la scelta delle cose
Che si stanno rivoltando.
Tu hai la forza di morire,
c’è una sola uscita,
non è sopra,
è meglio che tu ci pensi 2 volte

La Banda Bonnot e il portavalori della Société Générale


In rue Ordener al numero 156 c’era la succursale della Société Générale. Tutte le mattine alla stessa ora, poco prima dell’apertura degli sportelli, un cassiere vi portava del denaro dall’ufficio centrale che si trovava in rue de Provence. Prendeva il tram Trinité – Saint-Ouen, scendeva alla fermata di rue Championnet, dove era atteso da una guardia del corpo. Era un’impresa facilissima diceva Jules Bonnot.
Alle ore otto e quarantacinque del 21 dicembre 1911, la Delaunay, a motore acceso si fermò davanti al numero 142 di rue Ordener, avanzando poi di qualche metro fino al numero 148, a causa del macellaio Alexandre Thomas, uscito dal negozio incuriosito dalla superba limousine. Raymond, dopo essersi messo un berretto con paraorecchi, scese dalla macchina. Bonnot allentò di nuovo il freno a mano e innestò la marcia sino al 150, in faccia al deposito di vino della Compagnie Beaujolaise. Guardò il suo orologio: le otto e cinquanta. Una pioggia fine, mezza nebbia e mezzo ghiaccio, cadeva ostinatamente. Improvvisamente Raymond si accostò alla vettura avvisando i compagni dell’arrivo del portavalori. Octave scese a sua volta dall’automobile coperto da un impermeabile giallo e, le mani nelle tasche dell’impermeabile, venne a mettersi sul marciapiede a fianco di Raymond. Due uomini avanzavano tranquillamente verso di loro, la testa abbassata per ripararsi dalla pioggia. Uno portava l’uniforme da cassiere della Société Générale, cappello a due punte, giacca verde scuro con bottoni d’oro, distintivo dorato sul petto. Si chiamava Ernest Caby. L’altro, la guardia del corpo, era un certo Peemans. Raymond e Octave davanti al 162 si fermarono sbarrando loro il passaggio. Caby dovette urtare contro di loro. Quando alzò gli occhi, vide un uomo in giallo dallo sguardo estremamente luminoso, che tirava fuori la mano dalla tasca. Nella mano c’era una browning.
La Delaunay
Col primo colpo Octave lo ferì al collo. Il cassiere cadde sulle ginocchia emettendo un gemito. Octave tirò un secondo colpo e lo colpì al torace. Ma fallì Peemans, che fuggì urlando. Raymond strappò un sacchetto di tela dalla mano sinistra di Coby, poi volle prendere la borsa di cuoio che quello portava sotto il braccio. Ma il cassiere aveva le dita contratte sulla cinghia. Octave gli diede un calcio violento sulla mano e Raymond recuperò la borsa. Un tentativo di intervento dei passanti fu fermato da alcune revolverate sparate in aria da Bonnot. Saliti in macchina Jules parte in tromba, mentre i complici mitragliano in tutte le direzioni per contenere la folla di curiosi.  

giovedì 21 febbraio 2013

Gli orrori del profitto

Le devastazioni provocate dalla crescita economica sono tali che la società capitalista moderna si caratterizza più per quello che distrugge che per quello che crea. Nessuna opera può ormai essere paragonata alle rovine create dalle sue esigenze. Questo significa, ovviamente, che la sete di benefici che guida il sistema produttivo e per tanto il modo di vivere che esso comporta viene spenta malgrado la valanga di danni per la popolazione, che vanno dai rischi per la salute (l'inquinamento provoca un quarto delle malattie) fino ai disastri ambientali. La distruzione ha raggiunto un livello talmente elevato che il contrasto tra interessi privati e danni pubblici diventa visibile anche ai più ritardati. E'a questo punto che dalle alte sfere del potere parlano di conflitto ambientale e territoriale, di cultura del no e di governance interattiva. E' da un po' di tempo che i problemi legati al lavoro hanno smesso di essere fonte di preoccupazione per i dirigenti, come dimostra il fatto che più del 40% dei lavoratori guadagni meno di 1000 euro al mese: questo grazie al fatto che, sotto la minaccia di precarietà e di esclusione, i meccanismi di controllo e di integrazione funzionano perfettamente. Non è così in altri casi dato che il fallimento dell'ecologismo politico ha fatto emergere la questione sociale, espulsa dai quartieri e dalle fabbriche, nelle lotte chiamate a torto ambientali  e in particolare nella difesa del territorio, senza ruolo di contenimento e dispersione della  "democrazia partecipativa". Nonostante tutto, questo emergere non è stato così tanto travolgente da produrre  un fenomeno di coscienza generalizzato e alle lotte resta ancora tanta strada da fare.

PROVOS:la Bianca-BOOOM esplooooderà!!!


Il Bianco-BOOOM! è uno scherzetto sotto il culo di Dio. Il Bianco BOOM!!!! è una Bomba Deluxe piazzata sotto i pulpiti e sotto gli altari, sotto la catena dell’orologio del sindaco, sotto il berretto dei poliziotti, sotto i carri armati e i caccia della NATO, contro le chiglie delle navi da guerra, tra gli organismi militari, sotto la Sala del Trono e nelle camere da letto dei presidenti delle multinazionali.
La Bomba Deluxe è un’arma segreta. Non assomiglia ad una bomba. Può essere messa nei bicchieri di champagne durante un ricevimento o nascosta nei sigari. Può nascondersi nel lucido con cui i generali si puliscono gli stivali. Una spazzolata e boom! le gambe gli schizzano via da sotto il culo. Può venir mischiata al materiale con cui vengono fabbricati i manganelli, una botta e i poliziotti si ritrovano senza mani. Può essere messa nella stoffa con cui vengono confezionate le bandiere e i vessili, appena messi al vento si disintegreranno.
Avanti Bianca BOOOOM! Bomba Deluxe esplodi! Distruggi i palazzi dei reggenti e di chi governa, radi al suolo le chiese e le automobili che fanno ammalare e che uccidono le città. Brucia i Rembrandt, uccidi la grande Arte, la Grande ARTE, la GRANDE ARTE, LA GRANDE ARTE!!! Polverizza i concerti di Mozart e i canti Gregoriani! Bach è morto, Bach è morto, Bach è morto!!! Spalanca la terra, sbriciolala, spalanca un abisso in cui possano cadere presidenti e prelati, bandiere e patrie. Brucia Bianca Boooom!!! Tutti possono farsi la loro Bomba Deluxe. Ognuno con la sua piccola Booom bianca!!! Soffiate la splendida polvere nell’aria, con forza, soffiate spesso. La splendida polvere andrà ovunque e la gente la respirerà. Arriverà nei polmoni, si dissolverà nel sangue e raggiungerà il sistema nervoso centrale e il sistema nervoso simpatico. E ad un certo punto … la Bianca-BOOOM esplooooderà!!!  

Archivio storico: Rivista Provos Ontbijt Op Bed (Colazione a letto), numero 5, anno 1966, Maastricht Olanda

La filosofia della rivolta


L’urto dei contrari segna differenze e deflagrazioni. La filosofia del contrasto o della rivolta invita alla scoperta del singolo, del ribelle, raccoglie il desiderio di essere e non di apparire, raccoglie le passioni che si liberano dell’oggettività e tendono a modificare gli strati molecolari della quotidianità.
La filosofia della rivolta è l’ateizzazione della fraternità cristiana. L’incominciamento di una trasgressione, di un condursi oltre la tolleranza del pensiero ammanettato, un’aprirsi alla strategia dell’osare che mette a fuoco e disconosce la ragione del più armato.
La filosofia della rivolta avversa il dolore del presente, lacera gli ultimi fuochi dell’ordinario amministrato nel traboccamento violento dei cospiratori dell’uguaglianza che infrangono gli specchi della metafisica del peggio; pratica di sopravvivenza, la filosofia della rivolta si spinge ai bordi dell’essere, oltre i graffiti del caso, più a fondo delle gocce di sole nella città degli spettri; nell’avventura, nella trascendenza, nei giochi di guerra per la liberazione di se stessi e di una umanità intimidita, terrorizzata, offesa all’origine della sua esistenza.
Ri/voltarsi è superare la nausea dello spettacolo. Lavorare contro una psicopatologia del non vissuto quotidiano. Le istituzioni non sono sorte per caso, ma per compensare la debolezza di chi vi partecipa. Ma ogni istituzione si fonda sul sacrificio dei suoi membri, si nutre di vita umana.
Abolire i rapporti, le rappresentazioni, le relazioni degli individui con le istituzioni, significa andare a realizzare la propria vita, le proprie passioni, i propri mondi. La libertà nasce dalla separazione degli individui dal prestabilito e la critica radicale è l’arma più efficace per realizzare la conoscenza, il passaggio dalle armi della critica alla pratica dell’utopia insinua momenti sovversivi dove occorre farsi candidi come colombe e astuti come serpenti, per andare a produrre ovunque la lacerazione dell’immaginario istituzionalizzato.

giovedì 14 febbraio 2013

LA FABBRICA È OVUNQUE


La fabbrica è ovunque. È il risveglio, il treno, l’automobile, il paesaggio distrutto, la macchina, i capi, la casa, i giornali, la famiglia, il sindacato, la strada, le spese, le immagini, la paga, la televisione, il linguaggio, le ferie, la scuola, il solito tran tran, la noia, la prigione, l’ospedale, la notte. Essa è il tempo e lo spazio della sopravvivenza quotidiana, è l’assuefazione ai gesti ripetuti, alle passioni rimosse e vissute per procura e per immagini interposte.
Tutte le attività ridotte a mera sopravvivenza sono lavoro coatto; esso trasforma il prodotto e il produttore in semplici oggetti di sopravvivenza, in merci.
Il rifiuto della fabbrica universale è dappertutto perché il sabotaggio e le pratiche di riappropriazione si diffondono a macchia d’olio tra gli umani, permettendo loro di trovare ancora dal piacere a non fare nulla, a far l’amore, a incontrarsi, a parlarsi, a bere, a mangiare, a sognare, preparare la rivoluzione della vita quotidiana non dimenticando nessuna delle gioie che sono ancora alla portata di chi non è completamente alienato.
Bisogna quindi lottare coscientemente o no, per una società in cui le passioni saranno tutto, la noia e il lavoro nulla. Sopravvivere ci ha finora impedito di vivere, si tratta ora di rovesciare questo mondo alla rovescia, di far leva sui momenti autentici, condannati, nel sistema spettacolare-mercantile, alla clandestinità e alla falsificazione: i momenti di felicità reale, di piacere senza riserve, di passione. 

BALLATA DI COLORO CHE SI AIUTANO DA SÈ di Bertolt Brecht


Siedono ancora qui fra i verdi
cespugli sulla spiaggia, fumando.
E già il loro cielo diviene
atrofizzato e pallido.

Forse hanno reso audaci
i loro cuori con l’acquavite?
Qui il nero della notte
contemplano, stupiti.

Bevono? Ridono ancora?
La risata sale come fumo
e pende, d’un tratto, folle,
la luna, rossa, dentro il cespuglio.

Diviene pallido il loro cielo?
Come tutto questo fu rapido!
Passato è il loro giorno
ed essi ancora rimangono?

Loro sghignazzano ancora,
- L’uomo si aiuta da sé? –
Ma li percuote un alito
dell’abetaia in sfacelo.

Soffiano i venti desolati,
e di loro è sazio il mondo.
E in silenzio li lascia soli
la sera nel bassofondo.

IATROGENESI (ciò che è causato dal medico o dalla medicina)

Due modi in cui il predominio della cura medicalizzata diventa ostacolo a una vita sana: primo, la iatrogenesi clinica, che si verifica quando la capacità organica di reazione  e di adattamento viene sostituita  da una gestione eteronoma; secondo, la iatrogenesi sociale, che insorge quando l'ambiente  è privato di quelle condizioni che permettono agli individui, alle famiglie, e alle comunità di tenere sotto controllo i propri stati  interni e gli spazi in cui vivono. La iatrogenesi culturale rappresenta  un terzo modo di negazione  della salute da parte della medicina. Essa ha inizio quando  l'impresa medica distrugge nella gente  la volontà di soffrire la propria condizione reale. E' un sintomo di questa iatrogenesi  il fatto che la parola "sofferenza" è diventata quasi inservibile per indicare una risposta umana realistica: evoca infatti superstizione, sadomasochismo, oppure la degnazione del ricco nei confronti del povero. La medicina organizzata professionalmente è venuta assumendo la funzione di una impresa morale dispotica tutta tesa a propagandare l'espansione industriale come una guerra contro ogni sofferenza. Ha così minato la capacità degli individui di far fronte alla propria realtà, di esprimere propri valori e di accettare il dolore e la menomazione inevitabili e spesso irrimediabili, la decadenza e la morte.

giovedì 7 febbraio 2013

Piacere costretto, Piacere perduto


L’idea che bisogna godere a tutti i costi sta lavorando ad un rifacimento dei vecchi divieti con le stesse conseguenze. Esso apporta, con molto destro, il suo sostegno a quelli per cui la rivoluzione è un dovere, la radicalità una prova, la vita uno spettacolo.
Mentre le vecchie talpe della critica lavorano all’affossamento del vecchio mondo, i liberatori dell’amore si operano per il miglioramento dell’economia sessuale. Il piacere obbligatorio rimpiazza il piacere proibito. Il godimento si affronta come un esame, con una bocciatura o una riuscita. Bere, mangiare, dedicarsi all’amore fanno parte ormai degli ornamenti della buona reputazione. Per il brevetto di radicalità, segnate qui la media oraria dei vostri orgasmi.
È finita con i peccati dell’ozio da quando i piaceri vengono assunti alla fabbrica quotidiana. Trasgredire i tabù, così comanda il progresso economico! L’emancipazione obbligatoria, cosa di meglio per riaffermare il divieto fondamentale, l’esclusione di ogni godimento che voglia sfuggire alla costrizione, al lavoro, allo scambio?
Dove il godimento non distrugge l’economia, c’è solo una emancipazione economizzata, ogni libertà nasconde una repressione, ogni repressione si mostra come libertà.
Che ce ne importa delle vostre distinzioni di medici legali e delle vostre scatole etichettate: eterosessualità, omosessualità, perversione, coprolalia, normalità, anormalità e tutti quanti. Il godimento non ha frontiere, e noi intendiamo premunirci contro tutto ciò che tenta di limitarlo. Quando il desiderabile cede al necessario, noi lo sfuggiamo come un lavoro.
Ciò che si accanisce a distruggerci ci indica assai bene che non c’è piacere all’infuori dell’affermazione della vita.


SANGUE DI CONDOR di Jorge Sanjinés


In un paese delle Ande boliviane, un centro medico statunitense del cosiddetto “Corpo della Pace”, che dovrebbe fornire assistenza sanitaria alle donne indie partorienti, le sottopone in realtà a sterilizzazione. Il capo della comunità india, Ignacio, scopre questo inganno criminale e, alla testa dei compaesani, insorge contro i medici, mutilandoli. La repressione della polizia contro i contadini è feroce; Ignacio, gravemente ferito, viene trasportato dalla moglie Paulina in un ospedale di La Paz, ove muore senza essere adeguatamente curato perché suo fratello Sisto non riesce a procurarsi il plasma necessario per una trasfusione. Rivestito il costume della sua comunità, il contadino inurbato Sisto torna al paese per lottare con le armi contro il neocolonialismo imperialista.
Sangue di Condor, il secondo lungometraggio del boliviano Jorge Sanjinés, stupisce per la sicurezza dello sviluppo narrativo quanto entusiasma per la chiarezza e per la forza della visione rivoluzionaria. Una comunità india emarginata e consumata dalla miseria e dalla coca, demograficamente impoverita dall’emigrazione urbana e dall’elevata mortalità infantile, è la cavia su cui viene posta in pratica una delle idee chiave dell’Alleanza del Progresso: la sterilizzazione delle donne dei paesi sottosviluppati. Per l’indio dell’Altipiano i figli sono l’unica risorsa per combattere contro la miseria, anche se contribuiscono a rendere più acuto il problema sociale. Per questa ragione, forse, Sangue di Condor non presenta una soluzione semplicistica del problema demografico, ma si limita a denunciare la politica imperialista del deliberato genocidio “scientifico” praticato sia con bombe, sia con operazioni chirurgiche.
Jorge Sanjinés
Sangue di Condor è uno dei migliori esempi di cinema politico latino-americano, e contrariamente a quanto spesso è avvenuto nella teoria e nella prassi di certo cinema militante, la dimensione estetica non è rifiutata o completamente sottomessa alla dimensione ideologica, ma viene assunta dal regista come momento primario della comunicazione-espressione ideologica.
Se da un lato è di indubbia efficacia il dato ideologico, propagandistico, agitatorio del film, dall’altro pare assai interessante il modo in cui l’apparente tono veristico viene continuamente superato e negato dall’intelligente elaborazione stilistica di un realismo rigoroso. Un sapiente uso del montaggio scompone la dimensione temporale dell’intreccio; i bellissimi primi piani dei volti degli indios, mentre pongono in risalto l’intensità dello sguardo e della fisonomia delle persone, operano una stilizzazione delle figure umane che ha qualcosa di monumentale, che fa ricordare la grandezza della civiltà Inca. Tema autentico del film è dunque la proposta della cultura india quale vera “civiltà”, in contrapposizione alla barbarie importata dai colonizzatori europei e nordamericani. La reale e particolare opera di sterminio condotta dall’imperialismo statunitense contro la razza india assume così l’aspetto di una metafora della violenza che il capitalismo esercita e pianifica in ogni paese del Terzo Mondo per imporre ovunque il suo modello di sviluppo.
Da questo ritratto doloroso d’una civiltà prossima alla morte, emerge una prospettiva reale di mutamento: con la rivoluzione, rivolgendo le armi contro i colonizzatori, gli “ex-Inca” possono ritrovare la grandezza e la forza di un tempo, possono riconquistare le radici della loro cultura con piena coscienza del loro significato e del loro valore.
  

Senza spargere una goccia di sangue


Abbiamo detto che il nuovo metodo di azione rivoluzionaria iniziato dagli operai metallurgici di prendere possesso delle fabbriche, se seguito da tutte le altre categorie di lavoratori, cioè della presa di possesso di tutte le fabbriche, della terra, delle mine, dei bastimenti, della rete ferroviaria, dei depositi di mercanzie di tutte le specie, dei mulini, dei pastifici, dei magazzini, delle case, ecc., menerebbe alla rivoluzione, sarebbe anzi aver fatto la rivoluzione senza spargere una goccia di sangue.
E questo, che fino a ieri pareva un sogno, oggi, dato lo stato d’animo del proletariato e la rapidità con cui le iniziative rivoluzionarie si propagano e si intensificano, incomincia a sembrare una cosa possibile.
Ma questa nostra speranza non significa punto che noi crediamo nella resipiscenza delle classi privilegiate e nella passività del governo. Noi non crediamo nei placidi tramonti. Noi sappiamo tutto il livore e tutta la ferocia della borghesia e del suo governo; noi sappiamo che oggi, come sempre, i privilegiati non rinunziano se non costretti dalla forza o dalla paura della forza, e se per un istante potessimo dimenticarlo, s’incarica di ricordarcelo la condotta quotidiana ed i propositi quotidianamente espressi dagli industriali e dal governo con le loro guardie regie, coi loro carabinieri, coi loro sgherri prezzolati in divisa o senza. Ce lo ricorderebbe il sangue dei proletari, il sangue dei nostri compagni assassinati. 
Ma noi sappiamo pure che il più violento dei prepotenti diventa buono se ha la sensazione che le botte sarebbero tutte sue.
Ed è per ciò che noi raccomandiamo ai lavoratori di prepararsi alla lotta materiale, di armarsi, di mostrarsi decisi a difendere e ad attaccare.
Il problema è e resta, un problema di forza.
Il senza una goccia di sangue, se preso alla lettera, resterà, purtroppo!, un modo di dire; ma è certo che più i lavoratori saranno armati, più saranno decisi a non arrestarsi a nessuna estremità, e meno sanguinosa sarà la rivoluzione.
Questa nobile aspirazione di non spargere sangue o di spargerne il meno possibile, deve servire di sprone a prepararsi, ad armarsi sempre di più. Poiché più saremo forti e meno sangue correrà.


(Archivio storico: Umanità Nova N°170 del 13 settembre 1920)