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giovedì 31 gennaio 2019

Mary Wollstonecraft

Definita «la profetessa del femminismo moderno», nacque il 17 aprile 1759 a Spitalfields, un sobborgo di Londra, dove il padre era impegnato nella conduzione di una fattoria. La famiglia, composta da sei figli, da un padre autoritario, dispotico e a volte violento, e da una madre indolente e rassegnata, cambiò spesso domicilio nel disperato tentativo di allontanare la minaccia di miseria che la sovrastava. I ricordi dell’infanzia infelice e delle discordie familiari ritorneranno spesso nei romanzi e negli scritti di Mary. Sua unica fortuna, in tanto dissesto, fu che le venne risparmiata un’educazione convenzionale e la segregazione di solito riservata alle ragazze. Fu infatti lasciata libera di giocare all’aria aperta, con i suoi coetanei, e di avere un rapporto costante e simbiotico con la natura. La sua formazione culturale Mary se la verrà costruendo faticosamente in seguito e sarà quella di un’autodidatta. A diciotto anni decise di abbandonare la casa paterna alla ricerca della propria indipendenza economica, ma la morte della madre la costrinse a tornare in famiglia per occuparsi dei fratelli e del padre.
Nel 1783 la troviamo a Newington Green, vicino a Londra, una comunità di ricchi dissidenti intellettuali dove, con l’aiuto dell’amica Fanny Blood aprì una scuola. Qui ebbe la possibilità di conoscere Richard Price, filosofo, teologo nonché amico di Franklin, Jefferson, Condorcet, Priestley, e di stabilire contatti con la comunità «nonconformista». La Wollstonecraft entrò così in rapporto con i radicali inglesi e le loro idee libertarie. Nel 1787 pubblicò Thoughts on the Education of Daughters, un saggio pedagogico ispirato a Rousseau e a T. Day, ma che risentiva del pensiero pedagogico di Locke e che anticipava alcune affermazioni della sua Vindication... L’anno successivo vide la luce il suo primo romanzo Mary: A fiction che narra la presa di coscienza di una giovane donna e la sua lotta contro le forze sociali inibitrici. Trasferitasi definitivamente a Londra, Mary Wollstonecraft fu introdotta nella cerchia di un gruppo cosmopolita di intellettualiliberali e radicali: H. Fuseli, J. Priestley, W. Godwin, W. Blake, T. Paine. Decise allora di abbandonare il suo lavoro di istitutrice e dedicarsi al giornalismo e alla professione di scrittrice. Inserendosi nel dibattito suscitato dalla presa della Bastiglia in Francia e intervenendo in difesa delle idee libertarie espresse in un opuscolo dall’amico Price, Mary pubblicò nel 1790 Vindication of the Rights of Men, in cui si schierava dalla parte dei riformatori liberali londinesi attaccati dai conservatori e a favore della libertà civile e religiosa già propugnata dagli illuministi.
Erano anni pieni di euforia e di entusiasmo per la Rivoluzione francese e la diffusione in tutta Europa delle idee egualitarie fece sorgere anche a Londra molti circoli libertari come i Friends of the People, cui aderivano pure esponenti delle classi medie. In questa atmosfera, nel 1792 pubblicò il libro che doveva renderla famosa e suscitare scalpore in mezza Europa: A Vindication of the Rights of Woman, il primo libro
femminista tout court che anticipa alcune delle analisi socio-politiche riprese dall’attuale movimento delle donne sulla subordinazione al maschio, sulla mancanza di autonomia, sulla necessità dell’indipendenza economica e di un’adeguata istruzione. «È giunto il momento» scrive, «per una rivoluzione nel comportamento delle donne; è il momento di restituire loro la dignità perduta e di fare in modo che esse, in quanto parte dell’umana specie,si adoprino a trasformare il mondo, iniziando da se stesse». La Wollstonecraft fece suoi i principi egualitari del radicalismo inglese e della rivoluzione francese e li applicò alle donne, stabilendo così i principi fondamentali su cui fondare la causa dei diritti delle donne e operando al contempo un’analisi complessiva della personalità femminile soffocata e distorta da deleterie influenze ambientali e da antichi pregiudizi. In particolare si scagliò contro il principio d’autorità e contro quelle istituzioni che lo perpetuano: l’aristocrazia, l’esercito, la Chiesa, la famiglia e in special modo il matrimonio. Anche la piaga della prostituzione affondava a suo avviso le proprie radici nell’educazione impartita alle donne che le ha sempre portate a cercare nell’uomo l’unico sostegno intellettuale, fisico ed economico e a considerare il proprio corpo una merce da offrire all’uomo come ricompensa per i servizi resi. Essere una rivoluzionaria, aver scritto Vindication nell’ultimo decennio del secolo XVIII, significava per Mary Wollstonecraft essere disperatamente sola ed isolata socialmente e politicamente oltre che sul piano emotivo. Decise allora di recarsi nella capitale francese proprio nel periodo in cui Etta Palm rivendicava davanti all’Assemblea legislativa i diritti delle donne all’istruzione e al divorzio. A Parigi la Wollstonecraft rimase impressionata dagli spettacoli di morte che vide per le vie e la sua simpatia politica non andò tanto al gruppo sanguinario della Montagna quanto ai girondini, più vicini al suo modo di sentire, sostenitori della tolleranza religiosa e sensibili ai problemi dell’emancipazione della donna. In An Historical and Moral View of the Origins and Progress of the French Revolution, del 1794, riuscì
ad esprimere ancora un cauto ottimismo nei confronti della rivoluzione. Risale a questo periodo la sua sfortunata vicenda sentimentale con Gilbert Imlay, un uomo di affari americano che si rivelò ben presto un cinico impostore. Il rapporto con quest’uomo, da cui nacque una figlia, Fanny, durò circa tre anni, ma fu molto burrascoso e parco di soddisfazioni morali, nonostante il tenace coinvolgimento affettivo di Mary che, vistasi abbandonata, tenterà ben due volte il suicidio. Dopo questa drammatica parentesi, la
Wollstonecraft, tornata a Londra, riprese a frequentare, la cerchia di amici fedeli, dove ritrovò William Godwin. I due cominciarono a frequentarsi e a conoscersi. Nacque così un sentimento maturo e profondo che li coinvolse entrambi nella stessa misura. Nel marzo 1797, essendo Mary di nuovo incinta, i due decisero di sposarsi nonostante le forti resistenze ideologiche. Fu un matrimonio di breve durata perché Mary Wollstonecraft morì di setticemia quindici giorni dopo il parto, il 10 settembre 1797, a soli trentotto anni.
La bambina sopravvisse e venne chiamata Mary, come la madre. Diventerà la seconda moglie del poeta Shelley e autrice del romanzo Frankenstein o il moderno Prometeo.

Ciò che rende possibile una rivoluzione

I punti, i nodi, i focolai di resistenza sono disseminati nel tempo e nello spazio con minore o maggiore densità, a volte modellano gruppi o individui in modo definitivo, accendono punti del corpo, momenti della vita, tipi di comportamento. Grandi rotture radicali, grandi divisioni binarie o massicce.  A volte. Ma più spesso abbiamo a che fare con punti di resistenza mobili e transitori, che introducono nella società sfaldature mobili, che rompono unità e producono raggruppamenti, che traversano gli individui stessi, ritagliandoli e rimodellandoli, e tracciano in loro, nel loro corpo e nella loro anima, regimi irriducibili. Proprio come la rete di relazioni di potere finisce per formare un tessuto spesso che attraversa i dispositivi e le istituzioni, senza localizzarsi precisamente in esse, allo stesso modo il disseminarsi dei punti di resistenza attraverso le stratificazioni sociali e le unità individuali. La codificazione strategica di questi punti di resistenza è ciò che rende possibile una rivoluzione.

La Libertà vista da Bakunin

Io posso dirmi e sentirmi libero solo in presenza degli altri uomini ed in rapporto a loro. Io stesso sono umano e libero soltanto nella misura in cui riconosco la libertà e l’umanità di tutti gli uomini che mi circondano. Sono veramente libero solo quando tutti gli esseri umani, uomini e donne, sono egualmente liberi. La libertà di ogni individuo è infatti soltanto il riflesso della sua umanità. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà altrui, così che più numerosi sono gli uomini liberi – e più profonda e più ampia è la loro libertà -, più estesa, più profonda e più ampia diviene la mia libertà. Si realizza la libertà illimitata di ognuno per mezzo della libertà di tutti. Confermata dalla libertà di tutti, la mia libertà si estende all’infinito”. 
Dunque la dimensione positiva della libertà è eminentemente collettiva; il suo ruolo, però, consiste nel potenziare la libertà individuale, non nell’indicare all’uomo le direzioni e il senso ultimo della sua azione, la cui natura rimane irriducibilmente soggettiva e perciò immune da ogni codificazione di senso proveniente da fonte esterna. Di qui una delineazione radicale del rapporto tra libertà individuale e contesto sociale, tra impulso esistenziale ed etica pubblica. Poiché, infatti, “la libertà individuale e collettiva è l’unica creatrice dell’orine umano”, ne deriva che da essa nasce “l’assoluto diritto di ogni uomo o donna adulti di non cercare per le proprie azioni altre conferme che quelle della propria coscienza e della propria ragione, di non determinarle che per mezzo della propria volontà e di esserne quindi, prima di tutto responsabili solo verso se stessi e poi nei confronti della società di cui fanno parte, ma solo in quanto consentono liberamente di farne parte. 

giovedì 24 gennaio 2019

AGOSTINELLI Cesare anarchico

Nasce ad Ancona il 30 ottobre 1854, giornaliero, liquorista cappellaio. Riceve le prime condanne negli anni Settanta e nel 1881 viene ammonito per contrabbando di tabacco. L’anno dopo partecipa alla manifestazione di protesta per la condanna a Cipriani ed è processato insieme ad altri compagni anarchici. Nel 1883 viene condotto al domicilio coatto di Ponza, dove resta fino al dicembre del 1884. Appena rilasciato si imbarca per l’Argentina insieme a Malatesta, Francesco Natta, Francesco Pezzi e Galileo Palla: arriva fin in Patagonia e si inventa cercatore d’oro. Rientra in Italia nell’autunno del 1885. Collabora al periodico “Il Paria” e poi a “Il Libero Parto”, per il quale cura la rubrica Ergastoli industriali sullo sfruttamento degli operai. Partecipa e organizza le iniziative del “circolo “Studi sociali” accanto ad Adelmo Smorti, con cui condividerà gran parte della sua vita di militante. Il 16 novembre del 1890 pubblica un manifesto astensionista Non votare, che esce come supplemento al settimanale socialista-anarchico maceratese “La Campana” di cui è amministratore. A marzo del 1891 viene denunciato per incitamento all’odio di classe e a luglio gli sono inflitti due mesi di carcere in seguito alle manifestazioni tenute ad Ancona per la festa del lavoro. Il 17 gennaio 1895 la commissione provinciale per il domicilio coatto lo invia a Porto Ercole. Viene poi condannato dal tribunale di Perugia per aver emesso grida sovversive transitando per la città umbra sul treno che lo porta alla sua nuova dimora forzata: Tremiti. Insieme a Smorti e Emidio Recchioni organizza il rientro in Italia di Malatesta, che ospita e al quale offre la propria esperienza per la nascita de “L’Agitazione”. È Cesare Agostinelli a presentare il giovane studente Luigi Fabbri a Malatesta nel rifugio anconitano di quest’ultimo. All’indomani dell’attentato Acciarito, viene
messo agli arresti insieme al gerente de “L’Agitazione” Benedetto Faccetti, a Ruggero Recchi e a Recchioni, mentre il giornale è costretto a interrompere le pubblicazioni. Al rifiuto di sottoscrivere in questura l’impegno a mantenere buona condotta. Viene di nuovo inviato all’isola di Ponza fino al maggio del 1898. Qualche settimana dopo il suo ritorno ad Ancona parte per Fiume, dove risiede in compagnia di Tito Alfredo Baiocchi e lavora come cappellaio. Nel 1900 ritorna nel capoluogo marchigiano. Promuove i giornali “La vita Operaia” e “Lo Sprone”; su quest’ultimo, nel giugno agosto 1910, accende una polemica con Fabbri sul giudizio in merito alle lotte agrarie in Romagna e il 16 ottobre successivo pubblica un manifesto contro Giovanni Gavilli, di cui critica aspramente l’individualismo. Agostinelli ospita nuovamente Malatesta dal ritorno dall’Inghilterra. Entra nella redazione di “Volontà” della quale diventa responsabile all’indomani della Settimana Rossa e fino alla momentanea chiusura del giornale nel luglio del 1915. Ugo Fedeli ha scritto che Malatesta prima di prendere una qualsiasi iniziativa usava dire “Sentirò Agostinelli”, perché era sicuro che il buon senso di questo uomo del popolo rispecchiava sempre con molta chiarezza il punto di vista della generalità dei militanti. Nel
1920 va ad abitare a Milano insieme a Malatesta e assume l’amministrazione di “Umanità Nova”, sebbene manifesti inizialmente dubbi sulla realizzabilità de quotidiano. Nel marzo del 1921 è fra i 22 processati e assolti per l’attentato al teatro milanese Diana. Ritorna ad Ancona si allontana dall’azione politica a causa dell’età ormai avanzata che per altro gli impedisce di lavorare. Tuttavia la vigilanza su di lui rimane pressante, giungendo perfino negli ultimi mesi di vita, all’infamia di privarlo senza motivo, con un sotterfugio anche di un modesto assegno che, estrema risorsa, gli veniva spedito regolarmente dall’estero. Muore ad Ancona il 23 aprile 1933.


Il Surrealista di Arthutro Scharwz

Un giorno mi è stato chiesto se il Surrealismo potesse essere italiano. Il Surrealismo non può essere italiano, così come non può essere francese, belga, tedesco o spagnolo. Dare al Surrealismo un luogo d’elezione geografico è già negarlo. Di che nazionalità era il primo surrealista, l’uomo che inventò la ruota? Essere surrealisti significa, in primo luogo, essere anarchici, con tutto ciò che il termine comporta, e cioè pura rivolta cosciente, rifiuto di ogni principio di autorità, di ogni sistema, di ogni gerarchia, di ogni violenza. Il Surrealismo, ricordiamolo, è amore, poesia, rivoluzione. Al pari del poeta, dell’innamorato, dell’alchimista, il surrealista è un paria, un solitario, anche quando milita in un gruppo, e allora lo stesso gruppo è un gruppo emarginato, fuori dal sistema, del quale nega le regole del gioco. La solitudine del surrealista è quella di Nietzsche e di Stirner, dove il confine tra solitudine ed egoismo è difficile da ritrovare. Perché l’amore del prossimo è operante solamente nella misura in cui il prossimo si ritrova nel Sé. L’amore del Sé è il presupposto alla consapevolezza del Sé, e capire se stessi significa capire e amare l’altro. La trasformazione della società passa necessariamente dalla trasformazione dell’individuo; pensare l’inverso significa collocarsi in una prospettiva cattolica o marxista, per cui la felicità non è mai una realtà da conquistare per sé, ma una promessa per altri che dovrebbe realizzarsi in un ipotetico futuro, a patto, evidentemente, che si accetti di rinunciare oggi a quello che ci viene promesso per domani,
esattamente come l’oste il cui cartello precisa: “Domani si fa credito”. L’egoismo del surrealista è individualismo nel senso etimologico primo della parola “individuo” (in-dividus), e cioè
in-diviso: il surrealista aspira alla totalità, lotta per incarnare la lettera e lo spirito della rivoluzione, per essere verbo e azione, per conciliare il sogno e la realtà. Sui muri della Sorbonne una mano anonima aveva tracciato nel ’68: “Prendo i miei desideri per realtà perché credo nella realtà dei miei desideri”. Più che di Surrealismo il termine implica già il concetto di scuola, di movimento organizzato si dovrebbe parlare di surrealisti, o, meglio ancora, di spirito surrealista, così come si parla di spirito anarchico. 
Il surrealista, che è l’Unico (nel senso di Stirner), nasce in qualsiasi situazione perché egli è il Ribelle per antonomasia. Ascolta il suono della luce che cambia. Surrealismo e Dadaismo sono gli unici movimenti dell’avanguardia storica che siano nati non per impulso dei pittori ma dei poeti: di poeti che erano teorici anche della pittura. Per i surrealisti e i dadaisti l’arte andava intesa come attività totale, sottratta alla distinzione di arte e vita, alla divisione del lavoro, all’opposizione di teoria e prassi, sogno e veglia ecc. Ricordiamo una delle più citate “insegne” del Surrealismo, quel verso di Lautréamont per cui “la poesia deve essere fatta da tutti e non da uno”. Breton aveva fatto suo il materialismo esoterico della filosofia alchimistica. Per il Surrealismo la bellezza è ovunque. Questo atteggiamento
ottimista è proprio del rivoluzionario. L’ottimismo dei
surrealisti era pari alla disperazione per l’infamia dell’ordine sociale esistente. Alla domanda cosa resta del Surrealismo oggi, penso a una filosofia della vita, a uno stato d’animo, a una morale, una purezza, un bisogno di libertà...
Le opzioni fondamentali del Surrealismo conservano tutta la loro carica eversiva perché esprimono le aspirazioni più profonde dell’uomo. Queste aspirazioni non cambiano ogni vent’anni, o venti secoli. Breton può quindi a buon diritto sostenere che la nascita di un movimento più emancipatore non infirma in nulla le tesi fondamentali del Surrealismo sui piani della poesia, della libertà, dell’amore. Quello che deve essere ripensato in funzione di dati interamente nuovi è il problema sociale.
Il Surrealismo, “nato da un’affermazione di fede senza limiti nel genio della gioventù”, ha visto riaffermare, proprio dalla gioventù, nelle giornate del maggio 1968, le sue opzioni fondamentali. Breton se n’era andato da poco più di un anno, eppure la sua presenza tra i giovani era più reale di quella di qualsiasi altro rivoluzionario.

La fine dell'educazione

Per prima cosa bisogna liberare il discorso da alcuni presupposti concernenti il significato dell'educazione. Cancelliamo quindi con un tratto di penna nozioni come esami con graduatorie, suddivisioni tra asilo  scuola primaria e scuola secondaria, qualsiasi segregazione per età e per sesso, durata dei vari corsi universitari determinata dal numero di esami, la laurea, i riti di transizione, da un limbo assurdo ad un altro limbo che ci si aspetta il candidato consideri un vero traguardo , E così via.
E' facile fornire una convalida della cancellazione di questo frenetici rituali superficiali che stivano la realtà dell'iniziazione per volgersi ad un ingenuo indottrinamento sfociante in un conformismo che confonde gli individuo sino al punto in cui la loro consapevolezza critica della situazione non funziona quasi più. 
Occorre considerare in modo assai ampio il termine educazione, perché qualsiasi  accezione di essa , se priva di questa necessaria ampiezza avrebbe l'effetto di una corda intorno al collo di una vittima strangolata.
Non abbiamo imparato niente,
non sappiamo niente, non comprendiamo niente,
non vendiamo niente
non aiutiamo,

non dimenticheremo.
(Manifesto cecoslovacco per la libertà)




giovedì 17 gennaio 2019

La politica della natura e la liberazione animale

A differenza dell’apparato industriale –statale e di sicurezza, l’intero arco della sinistra sembra non essersi accorto che negli ultimi decenni è emerso un nuovo movimento – quello di liberazione animale – di enorme portata etica, politica ed ecologica. Poiché la liberazione animale – così come la teoria e la pratica del vegetarismo, ad essa inestricabilmente legate – mette in discussione i dogmi antropocentrici, specisti e umanisti insiti nelle tradizioni radicali e progressiste, la sinistra ha ignorato o denigrato, invece di farlo proprio, questo nuovo paradigma, questa forza di contrapposizione, e gli ambientalisti si sono rivelati altrettanto ostili e indifferenti. Tuttavia, l’importanza vitale del veganismo e della liberazione animale va assolutamente riconosciuta, ed entrambi meritano un ruolo di primo piano nella politica che dovrà decidere le sorti del ventunesimo secolo.
Sin dagli anni Settanta il movimento di liberazione animale è stato una delle forze di resistenza più dinamiche del pianeta. Se verso la fine di quel decennio andavano sgonfiandosi i “nuovi movimenti sociali”, composte da persone di colore, donne, studenti, pacifisti ed antinucleari, gay e lesbiche – i quali avevano definito la loro causa e la loro identità in contrapposizione a un movimento dei lavoratori in fin di vita e a una politica riduzionista delle classi sociali -, una nuova “politica della natura” si faceva strada con l’ascesa dei movimenti ambientalisti e di difesa degli animali. Sebbene avessero avuto tutti un umile esordio in Inghilterra e negli Stati Uniti all’inizio del diciannovesimo secolo, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento erano divenuti ormai dei movimenti sociali di massa. Pur differendo tra loro per molti aspetti cruciali, entrambi ruppero non soltanto con la ristretta politica di classe della “vecchia sinistra” ma anche con l’antropocentrismo e l’umanismo della “nuova sinistra” e dei “nuovi movimenti sociali”. Il movimento di liberazione animale ha tenuto viva una resistenza radicale, e continua a crescere a livello globale quanto a persone coinvolte e a influenza esercitata, malgrado la massificazione, la repressione statale, le ritorsioni provenienti dal mondo industriale e l’aziendalizzazione e la cooptazione dei gruppi animalisti tradizionali.
È ogni giorno più evidente che i movimenti di liberazione degli umani, degli animali e della Terra sono inseparabili l’uno dall’altro: nessuno (esseri umani, animali ed ecosistemi dinamici) potrà essere libero fintantoché non saranno liberi tutti gli altri (dallo sfruttamento e dall’intervento dell’uomo). Negli ultimi trent’anni è cresciuta la consapevolezza che l’ecologismo non può vincere senza giustizia sociale e che non vi può essere giustizia sociale senza ecologismo. 

PUGNI CHIUSI – I RIBELLI

Pugni chiusi
non ho più speranze
in me c'è la notte più nera

Occhi spenti
nel buio del mondo
per chi è di pietra come me

Pugni chiusi
perduto per sempre
non ha più' ragione la vita

La mia salvezza sei tu
sei l'acqua limpida per me, yeah
il sole tiepido sei tu amore
torna torna qui da me

Pugni chiusi
non ho più speranze
in me c'è la notte più nera
viene l'alba
e un raggio di sole
disegna il tuo viso per me

Oh, mani giunte
tu sei qui con me
e abbraccio la vita
con te, yeah...
(Primo disco dei Ribelli, orfani del Clan di Celentano, che finalmente approdavano ad una casa che credeva in loro. In grande stile la Ricordi preparò il lancio del nuovo gruppo di Demetrio Stratos e Gianni Dall’Aglio. Per l’occasione lo stesso Dall’Aglio, con la collaborazione di Ricky Gianco e Berretta, compose una lenta e rarefatta ballata che toglieva il respiro e che calzava a pennello alla maestosa voce dell’indimenticabile Stratos.) 



L'obiettivo della rivoluzione di Michail Bakunin

L'obiettivo della rivoluzione è l' estirpazione del principio di autorità, comunque esso si manifesti, sia esso religioso, metafisico e dottrinario alla maniera borghese, o perfino rivoluzionario alla maniera giacobina, perché non ci interessa che l'autorità si chiami Chiesa, monarchia, Stato costituzionale, repubblica borghese, oppure dittatura rivoluzionaria.
La rivoluzione ha come scopo la radicale dissoluzione di tutte le organizzazioni, e istituzioni religiose, politiche, economiche attualmente esistenti, in modo tale che non rimanga pietra su pietra, in Europa e nel resto del mondo, del presente ordine di cose fondato sulla proprietà, sullo sfruttamento e sul dominio.
Noi intendiamo la rivoluzione come un rivolgimento radicale, come la sostituzione di tutte senza eccezione le forme della vita europea contemporanea con altre nuove, completamente opposte.
Noi vogliamo distruggere tutti gli Stati e tutte le Chiese, con tutte le loro istituzioni e le loro leggi religiose, politiche, finanziarie, giuridiche, poliziesche, educative, economiche e sociali, cosicché milioni di esseri umani ingannati, tenuti in servitù, torturati, sfruttati, possano respirare in completa libertà.
Ponendo l'esclusione assoluta di ogni principio di autorità e di ragione di Stato, noi miriamo per conseguenza alla abolizione delle classi, dei ceti, dei privilegi e di ogni specie di distinzione» e quindi, ancora una volta, all' abolizione,alla dissoluzione e alla bancarotta morale, politica, burocratica e giuridica dello Stato tutelare, trascendente, centralista, doppione e alter ego della Chiesa.

giovedì 10 gennaio 2019

ACCIARITO PIETRO anarchico

Nato il 27 giugno del 1871, Acciarito è un fabbro immigrato a Roma, costretto a chiudere bottega per mancanza di lavoro. Povero in canna frequenta ambienti socialisti e anarchici, senza per altro essere anarchico o riconosciuto come tale. Sebbene non fosse iscritto a nessun gruppo politico, Acciarito iniziò a divenire noto per le sue idee radicali, derivanti da un manifesto sentimento ostile sviluppato nei confronti delle classi dominanti, idee delle quali non faceva mistero e che anzi proclamava volentieri e a gran voce. Il 22 aprile 1897 tenta di pugnalare Umberto I. Il re, dopo il pranzo di gala in occasione dell’anniversario del proprio matrimonio, decide di presenziare al derby, dove ha messo in palio per il cavallo vincente 24.000 lire, una somma enorme per l’epoca. Giunta la carrozza a S. Giovanni, fra il vicolo della Morana e il cascinale dei Valloni, Pietro Acciarito salta sul predellino e tenta di sferrare un colpo con un pugnale di fabbricazione artigianale forgiato da lui stesso. Il Re, quando vede la mano alzata di Acciarito, si alza deviando il colpo che si conficca sulla spalliera del sedile. Pietro perde l’equilibrio, viene quasi investito dalla carrozza e immediatamente catturato. All’indomani del tentato regicidio il presidente del Senato suggerisce a Di Rudinì la tesi di un immaginario complotto nonostante l’artigiano affermi nei primi interrogatori di non aver avuto mandanti o istigatori, e rivela: “Io l’attentato che ho fatto, prima di tutto non c’è complotto e non sono stato spinto da nessuno, ma lo feci perché ero in miseria. Si buttano lì milioni in Africa e il popolo ha fame perché mancano lì lavori. È questa la questione: è la
micragna”. L'attentato fallito fu impiegato come pretesto per arresti arbitrari di esponenti socialisti, anarchici e repubblicani. Il 28 e 29 maggio 1897 si svolge il processo e nonostante non avesse ne ammazzato o ferito nessuno, è condannato ai lavori forzati a vita e a 7 anni di isolamento. Udita la sentenza esclama: “Oggi a me, domani al governo borghese. Viva l’anarchia! Viva la rivoluzione sociale!”. Uno dei tragici strascichi della tesi del complotto è l’arresto a Roma del falegname Romeo Frezzi che, portato in carcere a S. Michele, muore per le violenze subite nell’interrogatorio. La polizia cerca invano di far passare il caso come suicidio, ma è smascherata dall’Avanti con gran clamore e risonanza in tutto il paese.
Nonostante che tutti i tentativi da parte della polizia e dello Stato di dimostrare la presenza di un complotto fallirono, Acciarito trascorse il resto della sua vita in carcere. Morì nel carcere di Montelupo Fiorentino il 4 dicembre 1947.
Alla sua morte Acciarito fu sottoposto ad autopsia da parte degli stessi eugenetisti, della scuola lombrosiana che avevano esaminato il corpo di Passannante, i quali conclusero che la forma del cranio dell'ex fabbro rivelava la sua "predisposizione all'assassinio".

EL PAN DESPIERTO di Victor Casaus

Una volta mi hanno raccontato un aneddoto
che ormai è già leggenda
secondo il quale
solitamente alloggiava durante i suoi viaggi di lavoro
in casa dei suoceri a Las Villas
e che li si alzava
poco prima che albeggiasse
fra la sorpresa
lo stupore o più semplicemente l’abitudine
degli uomini incaricati di proteggerlo
e che scendeva a piedi per quella vecchia strada
per ritornare poi
sminuzzando pezzi di un pane fumante
fra i sibili della sua asma precoce
e i rumori del mattino che a quest’ora
cominciava a risvegliarsi
Aneddoto  racconto  leggenda
o eco della mia memoria arriva adesso
in questo otto ottobre dell’ottanta
mentre mio figlio cammina accanto a me tornando da scuola
e mi offre questo pezzo di pane
con le sue mani che cominciano
a sfogliare libri e a rompere cristalli
e a appuntire i sogni e le matite
mani che riceveranno la pioggia 
riceveranno la pioggia
riceveranno il sole
chiederanno la parola in assemblee
afferreranno a suo tempo le sue donne
i suoi pani futuri
come questo che mi sta offrendo ora
tredici anni dopo quella data della quale non comincio 
a parlargli
perché mi distraggo
perché mi concentro lungamente
sulla forma del pezzo di pane che mi ha dato
e nel calore che emana la mollica
riempiendo il pomeriggio di fragranza
all’improvviso di aurora
e giù per la strada sibili nel petto che ama e soffre tanto
E eco della memoria  aneddoto  racconto  leggenda
Che guardo e che viene camminandomi accanto
Sminuzzando il pane del suo tempo  


Il crescente ricorso alla malattia

La tesi di fondo è che il crescente ricorso alla malattia quale chiave di lettura dei problemi sociali non rappresenti affatto un passaggio da una visione orientata in senso morale ad una più neutra, ma - semmai - un passaggio ad una strategia alternativa. E' una transizione che riguarda prima di tutto coloro  che si fanno attivi promotori del cambiamento (in veste di psichiatri o di specialisti della medicina), e che è legata al livello in cui si verifica il cambiamento stesso (la psiche e il corpo dell'individuo). Il problema in oggetto, e la persona che dovrebbe andare incontro al cambiamento, rimandano inevitabilmente a questioni morali, con buona pace della retorica della medicina,
Se anche questa retorica ci vuole far credere che la responsabilità è tutta dell'individuo (piuttosto che della società), e che quindi il cambiamento dovrebbe investire l'individuo (e non la società), la questione non cambia. Dopo tutto, si tratta pur sempre di un imperativo morale: l'idea è che, se il problema può essere trattato per via medica, e la persona può essere trasformata di conseguenza, allora sia doveroso procedere in tale senso.
Etichette come "salute" e "malattia", per altro, non hanno soltanto un effetto depoliticizzante. A questo se ne aggiunge anche uno escludente. Non è un caso che il movimento femminile si sia dato l'obbiettivo di influire di più sullo sviluppo dei servizi sanitari. Le donne non si limitano a criticare il potere a cui si sono arrese, ma denunciano l'utilizzano delle differenze biologiche - e di quelle, vere o presunte, di salute - per escluderle da molti aspetti della vita sociale.

giovedì 3 gennaio 2019

Bruno Alpini Anarchico

 Nasce a Rimini il 26 dicembre 1902 da Gaira Caolini. Prima bracciante senza fissa dimora, poi negli anni dell’esilio cameriere e calzolaio. All’età di 21 anni, viene descritto dal potere come un individuo di carattere violento e prepotente, di poca educazione, d’intelligenza ottusa, di nessuna cultura, con poca voglia di lavorare e col soprannome di “Lenin”. Fin da sempre attivo nei gruppi giovanili anarchici, partecipa a tutte le manifestazioni, i comizi e le conferenze di carattere sovversivo nel riminese. Il primo agosto del 1921 viene arrestato assieme ad altri anarchici e socialisti per correità nell’uccisione di un fascista, avvenuta a Rimini il 19 maggio 1921. Viene rimesso in libertà, ma il 25 agosto viene 
spiccato un nuovo mandato di cattura per aver cercato di uccidere a colpi di pistola due fascisti bolognesi di passaggio a Rimini la sera del 6 agosto 1922. Il 25 maggio del 1923 viene colpito da un nuovo mandato di cattura, a questo punto Bruno espatria clandestinamente in Francia, forse a Marsiglia sotto il falso nome di “Giovanni Rossi” riuscendo a far perdere le sue tracce. Cambia spesso identità ciò gli permette per diversi anni di non essere rintracciato dalla polizia fascista. Si sposta continuamente tra Francia, Belgio e Spagna. La sua latitanza clandestina non è senza motivi, organizza e partecipa a forme di autofinanziamento illegali e probabilmente partecipa all’attentato al console italiano a Nancy insieme a Giovanni Bidoli. Sempre assieme al Bidoli e altri avrebbe tentato di assaltare la prefettura di polizia di Barcellona. Nel 1929 viene arrestato con altri in Francia a Colombes, per furto, vagabondaggio, ricettazione e porto d’armi proibito. Della banda vengono tutti condannati tranne un certo Panci, in realtà costui non era altro che Bruno Alpini. Nel 1930 è in Belgio, rientra in Francia nel 1931, e quando si presenta al consolato italiano di Tolosa per il rinnovo del passaporto che presenta chiari segni di falsificazione viene arrestato e condannato a due mesi di carcere. La polizia fascista lo bracca per tutta Europa. Viene segnalato prima a Barcellona, poi in Russia poi a Moncada in Spagna. In realtà Bruno Alpini è a Saint Tropez dove svolge propaganda anarchica. Il 14 aprile del 1934 viene arrestato a Barcellona quale esponente di una banda di malviventi responsabile di aggressioni a banda armata e omicidi; secondo la polizia piuttosto che cadere nelle loro mani si suicida con un colpo alla testa. Ma lo storico Abel Paz racconta che Bruno Alpini in Belgio aveva conosciuto Buenaventura Durruti, il quale poi a Barcellona era solito portargli le scarpe da riparare, e che la sua attività espropriatrice era rivolta soprattutto a procurare mezzi materiali ai compagni in Italia. In realtà Bruno Alpini arrestato si il 14 aprile del 1934 al mattino, ma alle undici di sera viene trovato morto con sei proiettili in testa uno dei quali sparato alla nuca. Un suo grande amico detto “El Cèntim” operaio della CNT, per vendicarne l’omicidio spara al Comisario General de Orden Pùblico, ma durante il tentativo viene ucciso dalla numerosa scorta.     
     

CABROS DE MIERDA di Gonzalo Giustiniano


La Victoria, 1983. Gladys, 32 anni, conosciuta come “la francese” e una giovane donna cilena, bella e attraente, che vive alla giornata in una baraccopoli di Santiago nel Cile di Pinochet. Gladys vive con sua madre e una figlia piccola, entrambe chiamate Gladys. Lei è conosciuta da tutto il vicinato come “La francese” ed è un’attivista politica che prende in casa molti figli di desaparecidos, tra cui Vlady. Le tre Gladys ospitano un giovane e innocente missionario nordamericano chiamato Samuel Thompson giunto nel Terzo Mondo per predicare la parola di Dio e il valore del progresso. Il giovane sacerdote americano si trova catapultato nella dura realtà cilena degli anni della repressione dopo la morte del Presidente Allende e la presa di potere del generale Pinochet. Con la sua videocamera, Samuel riprende le persone mentre lottano per riuscire a sbarcare il lunario tra cucine comuni, bambini senza genitori e le prime proteste di massa. Con immagini reali e inedite che fungono da testimonianza storica e legale, come ad esempio nel caso dell’omicidio del sacerdote Jarlan. La narrazione ruota essenzialmente su due piste: quella personale dell’ingenuo sacerdote travolto dalla sensualità e dalla forza della sua ospite e quella più politica. Gli sgherri di
Pinochet agiscono indisturbati e seminano il terrore in una comunità che li protegge e denuncia i ribelli. Gran parte della storia è vista prima di tutto dagli occhi stralunati del piccolo Vladi che cerca nel gringo capitato per caso nella sua casa l’amore che non può più avere dal padre, sparito per ragioni politiche. Lo sguardo del giovane interprete con i suoi grandi occhiali buca letteralmente lo schermo al pari della fisicità esibita con garbo e ironia da Gladys. Giorno dopo giorno Samuel incontra persone, dà messaggi di fede, fotografa volti e luoghi segnati dal disagio e dalla povertà, si avvicina a Gladys e, attirato dalla sua bellezza, stringono un appassionato legame fisico che non tiene conto della lontananza, delle loro ideologie e dei loro paesi di origine. Samuel finisce per essere anch'esso protagonista del movimento anti-governativo contro la dittatura di Pinochet, che in quegli anni dà una forte e violenta risposta al regime, filma e aiuta Gladys nelle dimostrazioni di protesta, viene arrestato e tenuto prigioniero nei luoghi di tortura e detenzione del regime di Pinochet.
Nel film ci sono molte preziose immagini di repertorio in bianco e nero sgranato sui drammatici avvenimenti di quegli anni che si integrano perfettamente nel contesto della narrazione.
Cabros de Mierda è rigoroso e bilanciato nel raccontare il crudo reale visto dal punto di vista di uno straniero, che diventa parte integrante della comunità. È un’opera sulla forza delle donne, capaci sì di sedurre con uno sguardo e una battuta, ma anche di rischiare la vita per i propri ideali. La visione scorre senza perdere colpi e arriva al suo culmine di drammaticità verso un finale che non nasconde neanche i dettagli più crudi, pur passando per momenti romantici intensi e delicati. Ma Cabros de mierda non è soltanto un film di denuncia, un urlo di rabbia di chi ha vissuto la tragedia sulla propria pelle. Cabros de mierda, al contrario, oltre a mettere in scena uno dei più grandi crimini contro l’umanità, solleva anche importanti questioni riguardanti principalmente la religione, la differenza tra essere praticanti per convenzione ed operare realmente il bene e, soprattutto, l’ipocrisia che si nasconde dietro a certi comportamenti. Particolarmente emblematica, a tal proposito, la scena in cui vediamo un anziano Samuel incontrare uno dei suoi torturatori, convertitosi ormai al Cristianesimo e dedito a preghiere collettive, affermando di essersi pentito e di essere stato perdonato da Dio.
Il progetto è nato mentre osservavo, in una saletta del Museo della Memoria e dei Diritti Civili, le immagini che ho filmato più di 30 anni fa nel Cile della dittatura di Pinochet. All’epoca avevo 27 anni e da quattro non vivevo più in Cile. Mi trovavo in Francia dove lavoravo a un documentario per la televisione francese intitolato Chile 10 years of the Coup D’etat: Pinochet’s Land che voleva denunciare al mondo cosa stava davvero accadendo in Cile. Decisi dunque di tornare per capire meglio cosa stesse succedendo nelle baraccopoli. Ricordo con quanto affetto i sacerdoti Dubois e Jarlan mi hanno accompagnato e orientato in quel viaggio. Il giorno che Jarlan e stato ucciso ero con lui e le mie riprese sono poi servite come prove nel processo istruito dopo la sua morte. Vedendo queste immagini riprese in un Cile cosi diverso, sono arrivato quasi a percepirmi come il personaggio di una storia e ho iniziato a chiedermi se quelle cose fossero realmente accadute e addirittura se io fossi mai stato li. Il cinema mi ha permesso di esplorare la vita ma anche la morte e Cabros de mierda e basato sulla vita di tutti i giorni dei molti, soprattutto donne delle baraccopoli, costretti a vivere in tempi cosi feroci.” (Gonzalo Giustiniano)


Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta

Se il nazionalismo è regressivo, quale alternativa razionale e umanistica può offrire il socialismo etico? In una società libera non c'è posto per gli Stati-nazione sia come nazioni come Stati. Per quanto possa essere forte lo slancio di un popolo verso una identità collettiva, la ragione e l'attenzione al comportamento etico ci obbligano a recuperare l'universalità della città o del villaggio  e una cultura politica direttamente democratica, anche se su un piano più alto rispetto alla polis della Atene di Pericle. L'Identità deve essere sostituita dalla Comunità - grazie ad una familiarità condivisa su scala umana: non gerarchica, libertaria e aperta a tutti a prescindere da genere, tratti etnici, identità sessuale, talenti o inclinazioni personali. Questa vita comunitaria può essere realizzata solo con una nuova politica di municipalismo libertario: la democratizzazione dei municipi in modo che siano auto-gestiti dalle persone che li abitano, oltre alla formazione di una confederazione di questi comuni per costituire un contropotere allo Stato-nazione. 
Il pericolo che le municipalità democratizzate, in una società decentralizzata, sviluppino tratti di campanilismo economico e culturale è molto reale e può essere evitato solo da una forte confederazione di municipi finalizzata alla loro interdipendenza materiale. Una confederazione pienamente democratica in cui i delegati municipali nelle istituzioni confederali siano assoggettati alla ricusazione, alla rotazione e a un efficace  controllo pubblico, costituirebbe un'ampliamento delle libertà locali a livello regionale, consentendo il delicato equilibrio tra i locale e il regionale, in cui la varietà culturale delle municipalità potrebbe prosperare senza rinchiudersi in un localismo esclusivo. In effetti, i benefici culturali saranno condivisi anche all'interno e tra le varie confederazioni, insieme con lo scambio di quei beni e servizi che rappresentano i mezzi materiali di sopravvivenza.