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giovedì 30 ottobre 2014

IL DIRITTO ALLA CITTÀ

Il diritto alla città non può concepirsi come un semplice diritto di visita o di ritorno verso le città industriali. Non può formularsi che come diritto alla vita urbana, trasformata, rinnovata.
Qui all’interno di queste scenografie noi abitiamo. Siamo gli attori mai protagonisti. Siamo gli oggetti di città resi merci, costruite su necessità e organigrammi estranee alla necessità e alle richieste di chi abita la città. Lo spazio metropolitano è ambito estensivo per territorializzazioni e continue deterritorializzazioni, per prassi di sfruttamento e speculazioni stabilite dunque oltre le dinamiche di vita comunitaria. In questa realtà contemporanea il concetto lefebvriano di diritto alla città scopre nuove e più agguerrite rilevanze. Diviene motto o piuttosto si trasforma in azione operativa e funzionale per la rivendicazione del concreto e dell’organico diritto alla vita urbana. Un abitare attivo quindi che per Lefebvre deve rendersi incisivo attraverso l’appropriazione diretta di tempo e spazio, perché l’inalienabile diritto all’uso del territorio della città è relativo alle necessità collettive di partecipazione alla vita quotidiana. Tramite la riattivazione, o meglio la corretta interpretazione, di tale evidente e necessaria istanza si costruisce lo strumento odierno di lotta e opposizione di consistenza contro il potere della globalizzazione neoliberale che sostituisce al valore d’uso il valore economico di mercato che minimizza, quando non elimina, la funzione sociale dello spazio urbano.
Reclamiamo ed esercitiamo il diretto fare uso del territorio urbano attraverso dunque strategie di intromissione che si traducono in effetti di ricreazione dello spazio esistente per definire e concretamente produrre nuove configurazioni di socialità, si costruiscono forme di guerriglia urbana che sin dagli anni ottanta hanno attivato processi di ri-appropriazione e modificazione di architetture e settori ormai inattivi dei nostri quartieri.

Maggio 1968 – due parole

È stato un luogo comune dell’intelligenza di sinistra come di destra quello che nulla potesse far presagire un movimento come quello del maggio ’68. Ma sappiamo che è il contrario. Non solo il movimento si preparava nelle profondità della società col diffondersi in strati e condizioni diverse della estraneità e del rifiuto, vissuti sempre più radicalmente anche se confusamente, il che dava luogo a eruzioni episodiche (violenze senza scopo delle bande di giovani emarginati, scioperi selvaggi e manifestazioni violente di operai, lenta dissoluzione degli organismi rappresentativi ed endemizzarsi del disordine fra una parte degli studenti); ma una minoranza lo sentiva venire, ne esprimeva consapevolmente e con la massima chiarezza le tendenze di fondo e si adoperava a precipitarlo. 
Non sarebbero sufficienti tutte le chiacchiere sulle rivendicazioni parziali per cancellare un solo momento di libertà vissuta. In pochi giorni la certezza delle possibilità di cambiamento globale aveva toccato un punto senza ritorno. Toccata nei suoi fondamenti economici, l’organizzazione gerarchica smetteva di sembrare una fatalità. Il rifiuto dei capi e dei servizi d’ordine, come la lotta contro lo Stato e i suoi poliziotti, era innanzi tutto diventato una realtà suoi luoghi di lavoro, dove padroni e dirigenti di ogni grado erano stati scacciati. Neanche la presenza di apprendisti-dirigenti, uomini dei sindacati e dei partiti, poteva cancellare dalla mente dei rivoluzionari che ciò che si era fatto di più appassionante si era operato senza dirigenti, e dunque contro di loro. Il termine stalinista fu così riconosciuto da tutti come l’insulto peggiore della bestialità politica. L’interruzione del lavoro, in quanto fase essenziale di un movimento che non ignorava affatto il proprio carattere insurrezionale, rimetteva in testa a ciascuno l’evidenza primordiale che il lavoro alienato produce alienazione. Il diritto alla pigrizia si affermava, non solo nelle scritte popolari come non lavorate mai o vivere senza tempi morti, godere senza ostacoli, ma soprattutto nello scatenamento dell’attività ludica. 

Nanotecnologie e controllo del vivente

Da diversi anni il progresso tecnologico cresce fortemente, apportando nuove nocività quali il nucleare, le nanotecnologie e gli organismi geneticamente modificati. Questi minacciano nell‘immediato la vita sulla terra attraverso lo sfruttamento delle “materie prime”, lo stoccaggio di enorme materiale radioattivo, la contaminazione irreversibile con nanotecnologie e la manipolazione genetica. Tutte le tecnologie condividono la volontà di espansione del controllo sul vivente fino a raggiungere una dominazione totale sulla civiltà e sulle sue complessità  attraverso la creazione di una rete infinita di strutture di potere che alienano quotidianamente le nostre relazioni.
La rivoluzione industriale porta in se un innalzamento della specializzazione e della centralizzazione. La tecnologia genetica rappresenta ora un nuovo salto qualitativo nello sviluppo del controllo del vivente. In agricoltura ad esempio i brevetti sulle sementi di alcune grandi multinazionali spingono l‘agricoltura verso una dipendenza assoluta, determinando la distruzione di ogni biodiversità.
Ogni possibilità di un approvigionamento autonomo è reso impossible, fino a definire illegale qualsiasi iniziativa autonomista che tenda a questo.
Non sono solo le multinazionali o gli Stati che ne portano la responsabilità, ma pure tutti coloro che credono alle loro menzogne e sostengono il loro sviluppo e che vi aderiscono.
Un ruolo centrale in questa tendenza distruttrice è da attribuire agli scienziati che avvolti nei loro camici bianchi della «neutralità», nascosti dietro alla nozione di «ricerca fondamentale», lavorano alla legittimanzione della tecnologia genetica. La natura di queste ricerche ci sembra chiara:  eseguire interessi economici attraverso l‘espansione assoluta del controllo sul vivente attraverso la determinata volontà di annientare le comunità libere e decentralizzate attraverso il loro annientamento fisico e culturale.

giovedì 23 ottobre 2014

La guerra contro l’umanità


Il sistema è oggi piú forte di ieri. La ragione ultima di questo rafforzamento si trova, appunto, in quel processo sociale e di piú, antropologico, che possiamo chiamare sussunzione reale (cioè non formale) della vita umana da parte del capitale, processo che progressivamente svuota gli individui e le comunità umane di ogni possibile autonomia, intesa come capacità di determinare le condizioni materiali e immateriali con cui si produce e riproduce la loro esistenza, e determinando cosí una condizione generalizzata di nuova e automatica «servitú volontaria».
Un aspetto specifico di questo processo: quello riconducibile al mutamento profondo, iniziato nell’ultimo quarto del secolo scorso e oggi in pieno svolgimento, delle forme e delle tecniche della «sorveglianza». Con questo termine ci riferiamo a una delle forme attualmente piú insidiose – perché si impone in modo difficilmente percepibile e con il ritmo dell’inevitabilità – dell’apparato tecno-economico-politico di dominio globale, apparato che, per raggiungere la sua potenza attuale, si è servito delle scienze fisico-naturali, piegandole alla sua dinamica (contribuendo cosí alla loro effettiva esautorazione come fonti di creazione sociale) e divenendo, in tal modo, sempre piú capace di regolare non solo tutte le condizioni materiali della nostra vita (spossessando l’esperienza di ogni sapere empirico e pratico; avvilendo il corpo con obesità, malattie cardio-vascolari, tumori; creando un ambiente patogeno permanente, ecc.), ma anche di controllare la nostra ragione (corrompendo sistematicamente l’autonomia delle idee e delle sperimentazioni a vantaggio della pervasiva dinamica economica e della sempre piú capillare regolamentazione statuale), il che ha dato vita alla tecnoscienza e al suo utilizzo, in espansione.
Si tratta in effetti di una vera e propria guerra contro l’umanità, in cui la posta in gioco per il sistema non è piú soltanto quella di mettere in atto un controllo dello spazio pubblico, mirato all’individuazione e alla conseguente punizione di comportamenti devianti, ma anche, ogni giorno di piú, quella di penetrare lo spazio privato attraverso un tracciamento ininterrotto degli atti, dei movimenti, dei desideri di ciascun individuo per prevenire ogni possibile deriva, per fare di ciascun individuo una superficie muta, chiamata incessantemente a sottomettersi a procedure di verifica rispetto a «finalità sociali» preprogrammate. E sono, poi, queste stesse «finalità sociali» preprogrammate a rendere le «innovazioni tecnologiche», che veicolano concretamente tale scenario, sempre e comunque desiderabili, occultandone costantemente l’ambivalenza quali potenziali strumenti di oppressione e controllo globale.

MARQUEE MOON The Television

Ricordo
che l’oscurità era raddoppiata
cercavo di rievocare
una luce accesa…
Ascoltavo
ascoltavo la pioggia 
pensando,
viaggiando verso qualcos’altro…
La vita nel suo alveare
raggrinzisce le mie notti,
il bacio della morte, l’amplesso della vita…
e io sto in piedi là,
sotto al tendone della luna, 
e aspetto…
Esitando…
no, non aspetterò.
Parlai ad un uomo,
giù verso la ferrovia,
e gli chiesi come mai
non era ancora diventato pazzo .
Mi rispose: “guardati attorno ragazzo,
e non essere così allegro…
e per Amore del Paradiso, non essere così triste”…
Beh! Una cadillac
sbucò fuori dal cimitero
venne verso di me
e qualcuno disse: “entra!”
Poi la cadillac
Ritornò nel cimitero ed io,
io me la squagliai di nuovo…

L'economia come furto della nostra vita

L’economia è pronta a regnare su un proletariato planetario i cui frammenti si coagulano in caste tutte ugualmente coinvolte – certamente a gradi molto diversi – nello stesso feticismo dell’interesse economico. Di esse fanno parte i bramini decisionisti (clero privilegiato dell’abbondanza mercantile, delle sue mondanità e delle sue miserie), i borghesi agiati (nutriti dalla rendita o dai profitti del commercio, il cui conto in banca è impinguato o svuotato dalla speculazione borsistica), le masse laboriose (occupate dal lavoro salariato o dalla disoccupazione), e perfino gli ultimi dei paria (esclusi dall’abbondanza del consumo e, proprio per questo, utilissimo esempio negativo per scoraggiare qualunque velleità emancipatoria dalla dittatura economica).
Tutte queste caste, formate dai resti sbriciolati delle antiche classi, hanno in comune di essere ormai radicalmente separate dalla loro propria natura umana e dalla natura in generale, al punto da non riconoscerla nemmeno più e di partecipare al suo avvelenamento in un crescendo di nocività.
La moltiplicazione esponenziale del numero di guardiani – della merce, della sua circolazione e dei suoi indispensabili consumatori – sottolinea del resto la debolezza di un sistema obbligato a un controllo capillare dei gesti e dei comportamenti.
Dalle telecamere disseminate dappertutto ai muscolosi men in black che sorvegliano le entrate del tempio, passando per i controllori travestiti da consumatori e per le liturgie di pagamento sempre più complesse (per limitare le frodi e i furti, del resto preventivamente contabilizzati nel prezzo), si disegna irresistibilmente un’involontaria pubblicità negativa che invita gli esseri ancora vivi a un sabotaggio gioioso e salutare della merce che li soffoca.
Nell’attesa che la gratuità ristabilita renda finalmente ridicola ogni appropriazione illegittima, la privatizzazione generalizzata e redditizia di qualunque manifestazione di vita nel trionfo degli affari ha banalizzato il furto come un momento di business. Essa ha svuotato la morale cristiana di gran parte del suo senso di colpa necessario. Il settimo comandamento si riduce dunque a un articolo del codice penale, inapplicabile ai potenti e temibile per i deboli o per gli affaristi caduti in disgrazia.
Tutti i cittadini possono rendersi conto che lo stesso mondo che persegue senza pietà il minimo errore, il minimo strappo alle regole dell’economia da parte di un povero individuo qualunque, permette contemporaneamente tutti i trucchi a coloro che manipolano la finanza e gestiscono i profitti dell’economia, arricchendosi di passaggio a vantaggio del profitto stesso. Una logica mafiosa, grossolana e senza scrupoli, appoggiata sul controllo di un alto livello di tecnologia industriale, s’impadronisce del pianeta intero, ormai sottomesso a ogni aggressione capace di apportare un qualunque profitto.

giovedì 16 ottobre 2014

Contro la nocività del lavoro riconquista tempo e vita

Il dominio del lavoro sulla vita non è dominio di natura, bensì il prodotto di un modo di organizzazione delle attività umane voluto dagli uomini e volto allo sfruttamento generalizzato e sistematico delle energie fisiche e psichiche di ciascuno di noi. Il lavoro salariato è solo la forma più compiuta di questo dominio, l’arbitrarietà del quale è oggi messa a nudo insieme dallo sviluppo tecnologico-scientifico e dal cambiamento della nostra disponibilità al lavoro. Questo dominio non è però solo illegittimo, come del resto ogni altro dominio. Esso rappresenta un ostacolo all’emancipazione individuale e collettiva, alla ricerca della felicità. Il lavoro salariato è espropriazione di tempo di vita, impoverimento esistenziale, un ostacolo alla libera realizzazione di se stessi, all’espressione spirituale di ogni individuo. Il dominio del lavoro limita e disturba la costruzione di relazioni sociali e interpersonali. È, più semplicemente, una limitazione della qualità di vita. Si tratta allora, ed è insieme pensabile, realizzabile e giusto, rompere ed eliminare questo dominio. Occorre solamente volerlo.
Contro la “nocività del lavoro” riconquista tempo e vita.
La difesa del lavoro è evidentemente una strategia perdente. Di fronte alla sfrenata e malata sete di denaro che anima il capitalismo globale, di fronte ad un meccanismo di accumulazione che non è più in alcuna relazione né con i bisogni reali né tantomento con i limiti di consumo delle società umane, non ci resta altra scelta che ritrovare la dignità di dire no. La dignità del rifiuto. Una prassi di rifiuto del lavoro, se praticata individualmente, può aiutare a riconquistare coscienza, a smettere di funzionare meccanicamente. Ma se pratica collettiva diventa un’arma. E allora bisogna avere chiaro come utilizzarla.

Ci chiudono la villa ma non ci tappano la bocca

ORA PER ORA IL TERRORISMO DELLA POLIZIA NEL NOSTRO QUARTIERE
Ore 10 – Già dal mattino la polizia in assetto di guerra presidia provocatoriamente Piazza S. Rita.
Nella piazza sostano 12 gipponi del II Celere di Padova e due volanti. Gli fanno compagnia 4 camion carichi di carabinieri e due camionette.
A completare l’opera davanti alla Villa del nostro Circolo altri due camion e un gippone di carabinieri. Più tardi i negozianti verranno invitati ad abbassare le saracinesche “nel loro interesse”.
ORE 15 – I compagni che si dirigono verso il comitato di quartiere vengono più volte perquisiti e schedati. La P. S. scioglie i gruppi di 4 o 5 persone.
ORE 15.30 – Ci si concentra tutti in piazza Montanari mentre un gruppo volantina in Corso Sebastopoli.
ORE 16 -. I compagni con le mani alzate, il volto scoperto e completamente disarmati iniziano il giro di Piazza Montanari.
ORE 16.15 – Il serpentone prosegue sul marciapiede di via Tripoli lanciando slogan ironici sulla libertà che noi viviamo. Qui la Polizia carica. È la storia di sempre. Pistole in pugno – lacrimogeni sparati insensatamente su compagni e passanti. Si scappa tutti. Una portinaia viene minacciata armi in pugno, un compagno fermato e portato in Questura perché fotografava. 
Ore 16.30 – Vogliamo parlare a tutti di quello che sta succedendo. Ci si trova tutti al mercato coperto del Redentore, si volantina e si inizia il comizio.
DA QUESTO MOMENTO SINO ALLA FINE DELLA SERATA I CARABINIERI E LA POLIZIA TERRANNO IN STATO D’ASSEDIO IL QUARTIERE.
ORE 17 – UNO DEGLI EPISODI PIU’ GRAVI:
Gipponi e blindati della celere davanti al C. d. Q. Parte una violenta carica che colpisce assurdamente chiunque stazioni nei paraggi. A poco a poco si sposta davanti al parco Rignon e al PAM. Anche qui si colpisce chiunque, senza senso. Anche i CC. Davanti alla Villa caricano. Il caos voluto dalle “ FORZE DELL’ORDINE” è così stato raggiunto.
ORE 17.30 – La manifestazione dei compagni si scioglie in Via Baltimora. Continuano intanto le prodezze della Polizia, in Piazza S. Rita opera 15 fermi – quasi tutti abitanti del quartiere – Portati in Questura verranno più tardi rilasciati senza tante scuse.
Ore 20.30 – IL TG2 COMUNICA A TUTTA L’ITALIA: DISPERSO CORTEO DI “AUTONOMI CHE HANNO SPARATO NUMEROSI COLPI DI PISTOLA. Alla faccia dell’obiettività. 
QUESTI SONO I FATTI CHE ABBIAMO VISSUTO IERI – BEN DIVERSI DALLA FALSITA’ DIFFUSE DA “LA STAMPA”E DALLA TELEVISIONE.

CIRCOLO DEL PROLETARIATO GIOVANILE Cangaçeiros
  (Volantino distribuito a Torino il 13 novembre 1977)

Gli Anarchici e i Consigli Operai

A Torino il 27 ottobre 1906 si stipulava un contratto collettivo di lavoro fra la FIOM e la fabbrica di automobili Itala e si istituiva, a dirimere le eventuali controversie circa l’applicazione del contratto, un organismo aziendale chiamato commissione interna: organismo strettamente aderente alla vita della fabbrica, composto da operai della fabbrica, eletto dalle maestranze della fabbrica. La C. I. si poneva dunque in una posizione autonoma in rapporto alle organizzazioni orizzontali e verticali del sindacato, anche se talvolta assumeva un ruolo ancor più collaborazionista del sindacato stesso. 
Tuttavia proprio la C.I. doveva rappresentare la base organica sulla quale si sarebbe poi elevato il Consiglio di fabbrica.
Infatti nell’immediato dopoguerra ed esattamente nell’agosto 1919, sempre a Torino, nel maggior stabilimento della FIAT, alla FIAT-Centro, si dimette la commissione interna in carica e si apre il problema della sua reintegrazione.
In sede di discussione prevale la proposta di un allargamento di detta commissione realizzabile attraverso l’elezione di un commissario per ogni reparto. Alla FIAT-Centro vengono così eletti ben 42 commissari, pari ai 42 reparti in attività. Questi 42 commissari costituiscono il primo Consiglio di fabbrica.
Il contributo degli anarchici all’elaborazione della teoria dei Consigli si può compendiare in queste due essenziali aggiunte teoriche:
Solo nel corso di un periodo rivoluzionario i Consigli possono avere una efficienza rivoluzionaria, possono costituirsi in mezzi validi per la lotta di classe e non per la collaborazione di classe. In periodo controrivoluzionario i Consigli finiscono per essere fagocitati dall’organizzazione capitalistica, non sempre avversa ad una cogestione morale da parte dei lavoratori. Perciò avanzare dei Consigli in un periodo controrivoluzionario significa lanciare degli inutili diversivi e pregiudicare gravemente la formula stessa dei Consigli di Fabbrica, come parola d’ordine rivoluzionaria;
I consigli risolvono a metà il problema dello Stato: espropriano lo Stato delle sue funzioni sociali, ma non ledono lo Stato nelle sue funzioni antisociali, riducono lo Stato ad un pleonasmo ma non eliminano questo pleonasmo, svuotano l’apparato statale del suo contenuto ma non lo distruggono. Ma poiché non si può vincere lo Stato, ignorandolo, in quanto esso può far sentire in ogni momento la sua presenza mettendo in moto il suo meccanismo di coazione e sanzione, occorre distruggere anche questo meccanismo. I Consigli non possono compiere questa operazione e perciò richiedono l’intervento di una forza politica organizzata, il movimento specifico della classe, che porti a termine tale missione. Solo così si può evitare che il borghese, cacciato dalla porta nelle sue vesti da impresario, rientri dalla finestra travestito da poliziotto.    

giovedì 9 ottobre 2014

L'auspicabile insurrezione sociale di un'umanità cosciente

Una democrazia sponsorizzata dal denaro, dal potere economico, è un trucco perpetrato dai Frankenstein abbronzatissimi che dirigono le mandrie di schiavi votanti verso l'abisso dove tutte le specie vegetali e animali sono votate a una definitiva rovina.
Proprio perché refrettario alla attuale assurdità del mondo, solo il principio del piacere, ritrovato nelle sue più intime radici da un essere umano deciso a superare la sua negazione assoluta, può ancora (com)muovere il mondo. Se non sarà capita dall'intelligenza sensibile di uomini e donne, questa verità sarà tragicamente insegnata ai sopravissuti dalla pedagogia spietata della catastrofi. Nel qual caso, però, niente garantisce che qualcuno sopravvivrà ai sopravissuti che già oggi noi siamo.
Solo l'auspicabile insurrezione sociale di un'umanità cosciente delle sue condizioni reali e dei suoi veri desideri potrà approfittare del crollo dell'ideologia comunista che ha segnato la fine del XX secolo. Questo nuovo soggetto della storia potrà davvero contribuire ad aprire finalmente la strada alla rivoluzione sociale di un'umanità ritrovata oltre l'alienazione che la infesta. Un essere umano emotivo e razionale, intelligente e sensibile, né individualista né collettivista, sta diventando l'orfano finalmente cosciente della lotta di classe perché, ovunque volga lo sguardo, non vede che l'onnipresente caricatura di se stesso dappertutto riproposta, con una sempre nuova corona regale di plastica sulla testa e i piedi costantemente nella merda.
Non si tratta quindi di rifondare nulla, ma di inventare piuttosto, un mondo nuovo per una soggettività ritrovata. Basta con le sinistre alternative! Ci vuole ormai una alternativa radicale alla sinistra.

PARIHAKA di Apirana Taylor

Non abbiamo mai saputo niente
di Parihaka
non ci è mai stato
insegnato in alcun luogo
tranne forse
attorno ai fuochi
della stessa 
Parihaka la notte
quando si raccontano
storie
di soldati
che giunsero
con i fucili
per sradicarci
come alberi
dalla nostra terra.
anche se i Profeti
invocavano pace, pace
non fu mai
insegnato a scuola,
è stato messo tutto a tacere
di come noi ascoltammo i Profeti
Tohu, Te Whiti
che invocavano la pace Rire rire
Paimarire
ma la sola
pace che conoscevano i soldati 
parlò attraverso
le canne 
dei loro fucili
che minacciavano
le nostre donne e i bambini,
non si è mai
insegnato né parlato di
come noi siamo stati
incatenati
portati via nelle caverne
ed imprigionati
ad arare la nostra terra.

(Parihaka è un piccolo insediamento costiero a Taranaki Maori in Nuova Zelanda, che si trova a 55 km a sud ovest di New Plymouth. Immerso in un paesaggio di lahar (colata di fango) vulcanico, questo villaggio senza pretese è un sito di grande importanza storica, culturale e politica.
Gli eventi che hanno avuto luogo dentro e intorno Parihaka tra il 1860-1900 hanno influenzato le dinamiche politiche, culturali e spirituali di tutto il paese.
Nel 1870 Parihaka era diventato il più grande villaggio Maori nel paese. Poi il 5 novembre del 1881, 1500 miliziani armati invasero la terra dei Maori e Parihaka fu teatro di una delle peggiori violazioni dei diritti civili e umani mai commessi in Nuova Zelanda. L'insediamento venne saccheggiato. La maggior parte degli abitanti venne imprigionata in catene. Alcuni furono rinchiusi in caverne.)






Malatesta e Ciancabilla sull’Organizzazione Anarchica


Scriveva Malatesta:
"Un’organizzazione anarchica deve essre fondata, secondo me, sulla piena autonomia, piena indipendenza, e quindi piena responsabilità degli individui e dei gruppi; accordo libero tra quelli che credono utile unisi per cooperare ad uno scopo comune; dovere morale di mantenere gli impegni presi e di non far nulla che contraddica al programma accettato. Su queste basi poi si adottano le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale all’organizzazione. Quindi i gruppi, la federazione di gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi, i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo deve essere fatto liberamente, in modo per dare maggior portata agli sforzi che, isolati, sarebbero impossibili o di poca efficacia."

Ribatteva Ciancabilla:
"Noi siamo l’aristocrazia del proletariato. I cavalieri dell’ideale. La massa dorme, i socialisti s’illudono. Lo sanno Pisacane, Carlo Cafiero, lo stesso Malatesta e tutti coloro che hanno preparato una rivoluzione di massa e che, al primo tentativo, si sono ritrovati in tre gatti di fronte al plotone o alla galera … Siamo nemici di ogni forma di organizzazione perché respingiamo ogni forma di autorità. Noi dobbiamo dare l’assalto allo Stato non per prendere il posto dei borghesi, ma per distruggerlo completamente."

(Estratti da:Errico Malatesta Vita e idee, e da L’AURORA  giornale fondato da Ciancabilla negli Stati Uniti) 

giovedì 2 ottobre 2014

Il TAV

Il TAV, e le infrastrutture in generale, sono uno strumento della riorganizzazione del territorio in favore degli agglomerati urbani, la forma spaziale idonea allo sviluppo capitalista. Dunque è un mezzo al servizio dell’espansione urbana illimitata, ovvero al servizio dell’urbanizzazione generalizzata. È un’esigenza della mondializzazione economica, una richiesta dei mercati globali. Facilita la penetrazione delle multinazionali negli Stati e contribuisce a trasformare in multinazionali le imprese e i monopoli statali. Di conseguenza l’opposizione al TAV è una lotta contro il capitalismo globalizzatore. Ma non solo su scala europea. Il TAV è anche un’ingiunzione dei dirigenti politici ed economici nazionali e rappresentanti delle autonomie: il capitalismo con nomi e cognomi di casa. Per questo motivo l’opposizione al TAV è in primo luogo una lotta contro la mafia politico-imprenditoriale nazionale. È l’espressione più chiara della lotta di classe moderna e bisogna tenerlo bene in mente quando si passa all’azione. Richiamare il Parlamento Europeo, la Commissione europea o i governi francese, spagnolo e italiano a riflettere sul presente e sul futuro delle reti trans-europee, come ha fatto la Dichiarazione di Hendaye nel gennaio del 2010, è completamente privo di senso.
La proliferazione delle infrastrutture è la prova della guerra totale che il capitalismo si è visto obbligato a muovere contro il territorio e la sua popolazione, i cui avamposti sono rappresentati dalle lobby partitiche e dai gruppi di pressione mediatici, finanziari e imprenditoriali. Sono l’espressione più autentica del nemico implacabile, la personificazione dello sviluppo predatore. Non si arrendono né concedono tregua e rappresentano una minaccia permanente. Non hanno radici. Muovendosi come lupi affamati i dirigenti si sono letteralmente dati alla macchia, o meglio, ci hanno mandato le loro macchine movimento terra e i bulldozer, scortate dalle forze dell’ordine, facendo di tutto per annientare territori che non hanno mai conosciuto né apprezzato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. 

PORCILE di Pier Paolo Pasolini


"Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia".

Due lapidi sulla disubbidienza vengono lette prima delle immagini iniziali, sul rumore di un'eruzione lavica.
Due eventi paralleli, l’uno ambientato in un’epoca arcaica, l’altro contemporaneo, si confrontano in montaggio parallelo dandoci un’allegoria del potere. Da una parte, in un luogo desertico, un giovane, prima da solo, poi con altri compagni aggredisce viandanti e soldati e si nutre delle loro carni. Catturato, le autorità del luogo lo condannano a morte: viene abbandonato legato a terre, pasto per le belve. Dall’altra, Julian, figlio di un ricco industriale tedesco dei nostri giorni, vive oppresso da inibizioni che gli vengono imposte dalla cultura dominante. Egli non sa prendere una netta posizione nei confronti dei genitori e della società: non si ribella e non si adegua alle norme. Dedito alla zoorastia, viene sbranato dai maiali del porcile paterno.
In pieno clima sessantottino, Pasolini scrive e dirige un film come Porcile, in cui il realismo della critica al neo-capitalismo post-nazista tedesco, si unisce dialetticamente all’acuta riflessione su un passato che “non passa mai”, su una dimensione solo apparentemente metafisica e confinata nell’oblio della storia, eppure così vicina alla nostra quotidianità.
"Porcile" è l'opera di Pasolini che meglio esprime il suo pensiero e quindi il suo disagio. Nella sua critica alla morale comune, al bigottismo marciante che pervade il mondo, Pasolini distrugge i tempi e le destinazioni rendendo il suo pensiero atemporale e generalista, buono per tutto e tutti. E' la tolleranza che marca le differenze, che sottolinea la non accettazione, è la compassione e i compassionevoli a rendere impossibile qualsiasi reale slancio empatico. Il tema che pervade "Porcile" è l'impossibilità a vivere secondo le proprie coordinate, secondo i propri istinti. L'impossibilità a preservare il me medesimo cannibale dal mondo cannibale.
"Porcile" non fa prigionieri. Condanna tutti, dal primo all'ultimo, dai giovani anti-comunisti che andavano a pisciare sul muro di Berlino in sfregio di chi in quel muro viveva ai genitori che sempre vorrebbero una proiezione di se stessi nella propria prole. Non c'è redenzione, non c'è possibilità di salvezza in questo mondo soggiogato in modo, oramai, antropologico. Non c'è speranza in questo porcile dove tutti mangiano tutto, dove il solo deve essere il tutto.
Una volta messa in corto circuito l'identità borghese per mezzo dei suoi stessi strumenti, Pasolini attacca il vincolo sociale, quel potere assoluto e astratto dagli individui che lo esercitano il quale non consente altro che la piena, incondizionata obbedienza da parte di ogni membro della sua presunta "società". 
Porcile è un film visionario, che strumentalizza l'orrore per giungere alla positività. Superata l'impasse di Edipo, Pasolini giunge a dire che il trasgredire non basta, che anche la trasgressione, se non è gesto cosciente e rivolto agli altri, può essere annullata dal silenzio, può passare inosservata, può esaurirsi nel narcisismo del "gesto". 
Cosa resta, all'uomo sociale, della sua libertà? 
Intanto, la libertà di denunciare l'illibertà, e non semplicemente di rifiutarla. Di metterla in contraddizione attraverso la propria presunta liberalità, di costringerla a rifiutare l'Altro, svelandosi per quello che è: diventare indigeribili all'enorme ventre sociale borghese.
Porcile mostra dunque come l’unica via di fuga lasciata alle nuove generazioni sia quella della violenza, una violenza primitiva e selvaggia che verrà inevitabilmente condannata dalla società, ma che non viene qui condannata dal regista, perché essa rappresenta le forme più autentiche della vita; non a caso al cannibale se ne uniranno altri, formando un vero e proprio nucleo sociale (come a dire che di violenza e di comunità è fatta la storia umana).




Un gesto di libertà

Al pari della folla, della droga e del sentimento amoroso, l’alcool possiede il privilegio di stregare lo spirito più lucido. Grazie ad esso, il muro di cemento dell’isolamento sembra un muro di carta che gli attori sfondano secondo la loro fantasia, perché l’alcool dispone tutto su un piano teatrale intimo. Illusione generosa che uccide tanto più sicuramente.
In un bar noioso, dove la gente si strugge e si avvilisce, un giovane uomo ubriaco spezza il suo bicchiere, afferra una bottiglia e la fracassa contro il muro. Nessuno si muove; deluso nella sua aspettativa, egli si lascia buttar fuori. Eppure il suo gesto era virtualmente in tutte le teste. Lui solo ha concretizzato, lui solo ha varcato la barriera radioattiva dell’isolamento: l’isolamento interno, questa separazione introversa del mondo esterno e dell’io. Nessuno ha risposto a un segno che egli aveva creduto esplicito. Egli è restato solo come resta solo il teppista che incendia una chiesa o assalta un supermercato,  in accordo con se stesso ma votato all’esilio finché gli altri vivranno esiliati dalla propria esistenza. Non è sfuggito al campo magnetico dell’isolamento, ed eccolo bloccato nell’imponderabilità. Tuttavia, dal fondo dell’indifferenza che lo accoglie, egli percepisce meglio le sfumature del suo grido; anche se è torturato da questa rivelazione, egli sa che bisognerà ricominciare su un altro tono, con maggior forza; con maggior coerenza.
Non esisterà che una comune dannazione finché ogni essere isolato rifiuterà di comprendere che un gesto di libertà, per quanto debole e maldestro possa essere, è sempre portatore di una comunicazione autentica, di un messaggio personale appropriato.
La repressione che colpisce il ribelle libertario si abbatte su tutti gli uomini. Il sangue di tutti gli uomini gronda con il sangue dei Durruti assassinati. Dovunque la libertà arretra di un palmo, aumenta di cento volte il peso dell’ordine delle cose. Esclusi dalla partecipazione autentica, i gesti dell’uomo deviano nella fragile illusione di essere insieme o nel suo contrario, il rifiuto brutale e assoluto del sociale. Essi oscillano dall’uno all’altra in un movimento da bilanciere che fa scorrere le ore sul quadrante della morte.