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giovedì 29 agosto 2013

Anarchia e Antispecismo

Lo specismo non va inteso riduttivamente come  visione discriminatoria, poiché esso è  soprattutto una prassi di sfruttamento. Definiamo sfruttamento il controllo (totale o parziale) del ciclo biologico di un altro essere vivente tale che questi perda la propria autonomia e venga così ridotto a risorsa/merce.
Vanno considerate perciò "materialmente" speciste, le società umane che praticano lo sfruttamento della vita non umana in ogni sua forma e, pertanto, tutta la storia della civiltà fondate sulla costruzione di religioni antropocentriche e spiritualiste, le società  fondate sul materialismo capitalista o su quello social statalista, tutta la civiltà e l'ideologia mercantile, in cui l'uomo è posto come signore della natura in una posizione di privilegio ontologico e assiologico. 
Le oppressioni di specie , di genere, di classe e razziali appaiono strutturalmente connesse: la società umana stessa è tenuta insieme e definita da tali rapporti di esclusione e sfruttamento dell'altro e questo altro è regolarmente l'oggetto di una prassi di sfruttamento di cui solo alcuni beneficiano. Si comprende dunque come la lotta contro lo sfruttamento animale miri ad eliminare il tassello fondamentale su cui è costruita tutta la civiltà del dominio.
La cultura anarchica si è appropriata per prima del concetto di specismo, intendendolo non come un termine tecnico da impiegarsi in schermaglie filosofiche bensì come concetto critico che mira ad un cambiamento radicale delle società umane nella loro interezza. Oggi, tale consapevolezza non è più patrimonio esclusivo di alcune frange del movimento anarchico e l'antispecismo ha la possibilità di porsi come progetto politico capace di ispirare una prassi di trasformazione radicale dell'esistente: un movimento che nel momento in cui rivoluziona i rapporti interspecifici non può non trasformare anche i rapporti infraspecifici

- manifesto antispecista -

1 - Gli animali umani e non umani in quanto esseri senzienti, ossia coscienti e sensibili hanno uguali diritti alla vita, alla libertà, al rispetto, al benessere, ed alla non discriminazione nell'ambito delle esigenze della specie di appartenenza.
2 - Nei confronti delle altre specie gli umani, come tutti gli esseri senzienti ai quali venga riconosciuta la potenzialità di "agente morale", sono tenuti a rispettare i suddetti diritti, rinunciando ad ogni ideologia antropocentrica e specista.
3 - Nel quadro di tale rapporto, eventuali alimenti o prodotti che debbano derivare dalle altre specie vanno ottenuti senza causare morte, sofferenze, alterazioni biologiche, o pregiudizio delle esigenze etologiche. Ove possibile, essi vanno comunque sostituiti con sostanze di origine vegetale o inorganica.
4 - Uccidere o far soffrire individui delle altre specie (ad esempio sottoponendoli a lavori coatti, usandoli per attività spettacoli o manifestazioni violente, o allevandoli e custodendoli in modo innaturale), ovvero sperimentare su individui sani e/o nell'interesse di altre specie o altri individui, causare loro danni fisici o psicologici, detenere specie naturalmente danneggiare il loro habitat naturale, o eccedere in legittima difesa, è una violazione dei suddetti diritti, e va considerata un crimine.

WOODSTOCK di Joni Mitchell

Raggiunsi un bambino di Dio; camminava lungo la strada
Gli domandai dove stai andando? Mi rispose
Sto andando alla Yasggur’s Farm , mi unirò a una banda di rock&roll
Campeggerò per i prati e poi cercherò di liberare la mia anima
Noi siamo polvere di stelle, siamo preziosi
E siamo riusciti a tornare al giardino
Allora posso camminare al tuo fianco? Devo andarci anch’io
Fuggo lo smog e sento di essere un piccolo dente di un ingranaggio che gira
Andarci forse e solo l’avvenimento, o forse è l’avvenimento dell’uomo
Noi siamo polvere di stelle, siamo preziosi
E siamo riusciti a tornare al giardino
Per il tempo che fummo a Woodstock, eravamo in mezzo milione
E dovunque era musica e celebrazione
E ho sognato di vedere i bombardieri nel cielo
Trasformarsi in farfalle sopra la nostra nazione
Noi siamo polvere di stelle, carbone vecchio di un bilione di anni,
siamo preziosi, stretti in un patto diabolico,
e siamo riusciti a ritornare al giardino.  

I SITUAZIONISTI AL CINEMA

Tecnicamente ed esteticamente, le pellicole di Debord sono fra le opere più brillanti e innovative della storia del cinema. Ma, effettivamente, non sono tanto “opere d’arte” quanto provocazioni sovversive. Sono secondo alcuni i più importanti film radicali che siano mai stati fatti, non soltanto perché esprimono la più profonda prospettiva radicale del secolo scorso, ma perché non hanno avuto alcuna seria concorrenza cinematografica. Alcuni film hanno rivelato questo o quell’aspetto della società moderna, ma quelli di Debord sono i soli che presentano una critica coerente di tutto il sistema mondiale. Alcuni cineasti radicali hanno fatto riferimento, a parole, allo straniamento brechtiano, cioè ad incitare gli spettatori a pensare ed agire da sé stessi invece di spingerli all’identificazione passiva nell’eroe o nell’intreccio, ma Debord è praticamente il solo che abbia veramente realizzato quest’obiettivo. A parte alcuni lavori di livello nettamente inferiore e che sono stati influenzati da lui, i suoi film sono i soli che abbiano fatto un uso coerente della tattica situazionista del détournement degli elementi culturali esistenti per nuovi obiettivi sovversivi. Il deturnamento è stato spesso imitato, ma nella maggior parte dei casi soltanto in modo confuso e semicosciente, o per uno scopo puramente umoristico. Non si tratta soltanto di giustapporre a caso degli elementi incongrui, ma piuttosto di creare una nuova unità coerente che critica a sua volta il mondo esistente e la sua relazione con questo mondo.
Le opere di Debord non sono né discorsi filosofici da torre d’avorio, né proteste militanti ed impulsive, ma degli esami implacabilmente lucidi delle tendenze e delle contraddizioni più fondamentali della società in cui viviamo. Ciò vuol dire che si deve rileggerle (o nel caso dei film, rivederli) numerose volte, ma ciò vuol dire anche che rimangono pertinenti come prima, mentre innumerevoli mode radicali o intellettuali sono apparse e scomparse. Come ha notato Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo, nei decenni che sono seguiti alla pubblicazione della Società dello spettacolo, lo spettacolo è diventato più pervasivo che mai, al punto di soffocare praticamente ogni coscienza della storia pre-spettacolare e ogni possibilità anti-spettacolare: “il dominio spettacolare è riuscito ad allevare una generazione piegata alle sue leggi.”

giovedì 22 agosto 2013

Sul Fascismo di Errico Malatesta

 A coronamento di una lunga serie di delitti, il fascismo si è infine insediato al governo.  il duce, tanto per distinguersi, ha cominciato col trattare i deputati al parlamento come un padrone insolente tratterebbe dei servi stupidi e pigri.
Il parlamento, quello che doveva essere “il palladio della libertà”, ha dato la sua misura. Questo ci lascia perfettamente indifferenti. Tra un gradasso che vitupera e minaccia, perché si sente al sicuro, ed una accolita di vili che pare si delizi nella sua abiezione, noi non abbiamo da scegliere. Constatiamo soltanto – e non senza vergogna – quale specie di gente è quella che ci domina ed al cui giogo non riusciamo a sottrarci. Ma qual è il significato, quale la portata, quale il risultato probabile di questo nuovo modo di arrivare al potere in nome ed in servizio del re, violando la costituzione che il re aveva giurato di rispettare e di difendere? Noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo una maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux è sempre la vecchia storia del brigante che diventa gendarme!  La borghesia, minacciata dalla marea proletaria che montava, incapace a risolvere i problemi fatti urgenti dalla guerra, impotente a difendersi coi metodi tradizionali della repressione legale, si vedeva perduta ed avrebbe salutato con gioia un qualche militare che si fosse dichiarato dittatore ed avesse affogato nel sangue ogni tentativo di riscossa. Ma in quei momenti, nell’immediato dopoguerra, la cosa era troppo pericolosa, e poteva precipitare la rivoluzione anziché abbatterla. In ogni modo, il generale salvatore non venne fuori, o non ne venne fuori che la parodia. Invece vennero fuori degli avventurieri che, non avendo trovato nei partiti sovversivi campo sufficiente alle loro ambizioni ed ai loro appetiti, pensarono di speculare sulla paura della borghesia offrendole, dietro adeguato compenso, il soccorso di forze irregolari che, se sicure dell’impunità, potevano abbandonarsi a tutti gli eccessi contro i lavoratori senza compromettere direttamente la responsabilità dei presunti beneficiari delle violenze commesse. E la borghesia accetta, sollecita, paga il loro concorso: il governo ufficiale, o almeno una parte degli agenti del governo, pensa a fornir loro le armi, ad aiutarli quando in un attacco stavano per avere la peggio, ad assicurar loro l’impunità ed a disarmare preventivamente coloro che dovevano essere attaccati. 

I lavoratori non seppero opporre la violenza alla violenza perché erano stati educati a credere nella legalità, e perché, anche quando ogni illusione era diventata impossibile e gli incendi e gli assassinii si moltiplicavano sotto lo sguardo benevolo delle autorità, gli uomini in cui avevano fiducia predicarono loro la pazienza, la calma, la bellezza e la saggezza di farsi battere “eroicamente” senza resistere – e perciò furono vinti ed offesi negli averi, nelle persone, nella dignità, negli affetti più sacri.
Forse, quando tutte le istituzioni operaie erano state distrutte, le organizzazioni sbandate, gli uomini più invisi e considerati più pericolosi uccisi o imprigionati o comunque ridotti all’impotenza, la borghesia ed il governo avrebbero voluto mettere un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i padroni di quelli che avevano serviti. Ma era troppo tardi. I fascisti oramai sono i più forti ed intendono farsi pagare ad usura i servizi resi. E la borghesia pagherà, cercando naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato. In conclusione, aumentata miseria, aumentata oppressione.

In quanto a noi, non abbiamo che da continuare la nostra battaglia, sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo.
Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la scegliemmo coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione per abbandonarla. Così sappiano tutti coloro i quali hanno senso di dignità e pietà umana e vogliono consacrarsi alla lotta per il bene di tutti, che essi debbono essere preparati a tutti i disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici. Poiché non mancano mai di quelli che si lasciano abbagliare dalle apparenze della forza ed hanno sempre una specie di ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i quali dicono che “i fascisti ci hanno insegnato come si fa la rivoluzione”.
No, i fascisti non ci hanno insegnato proprio nulla.
Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuol chiamare, col permesso dei superiori ed in servizio dei superiori. Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate ieri, se così conviene al proprio vantaggio, mettersi al servizio dei padroni, assicurarsi l’acquiescenza delle autorità politiche e giudiziarie, far disarmare dai carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro uno, prepararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi ricevendo dal governo armi, mezzi di trasporto ed oggetti di casermaggio, e poi esser chiamato dal re e mettersi sotto la protezione di dio... è tutta roba che noi non potremmo e non vorremmo fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preveduto che avverrebbe il giorno in cui la borghesia si sentisse seriamente minacciata. 

Piuttosto l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai socialisti legalitari, i quali credevano, e ahimè! credono ancora, che si possa abbattere la borghesia mediante i voti della metà più uno degli elettori, e non vollero crederci quando dicemmo loro che se mai raggiungessero la maggioranza in parlamento e volessero – tanto per fare delle ipotesi assurde – attuare il socialismo dal parlamento, ne sarebbero cacciati a calci nel sedere!

SE SEDURRE LA CARNE LA PAROLA, ...di Patrizia Valduga

Se sedurre la carne la parola,
prepara il gesto, produce destini …
È martirio il verso,
è emergenza di sangue che cola
e s’aggruma ai confini
del suo inverso sessuato, controverso.

O datemi qualcuno che mi ascolti,
ché di parole straripo … qualcuno
che mi prenda per mano e dei sepolti
dei fatti polvere e niente al raduno
mi porti … di occhi o paura … di volti …
Non mi restava ormai niente e nessuno,
e come sanguinando intorno intorno
pesantemente in me cadeva il giorno.

Mi dispero perché 
non ho che poche erose scrofolose
parole, a darsi all’ozio intente,
che non sanno far niente.


venerdì 16 agosto 2013

Il mondo nuovo che ci portiamo dentro

Al mondo dei bisogni creato dal capitale è necessario opporre il mondo nuovo che ci portiamo dentro. Questo mondo si fonda sulla praticabilità realizzativa dei nostri più propri desideri. Al giorno d’oggi pensiamo che non sia più valido dire semplicisticamente che sarà un dato modo di produzione a definire concretamente una società anarco-comunista. L ’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Vogliamo essere artisti e non semplici manovali-artigiani. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa, in una parola, in attività artistica. Noi vogliamo realizzare la vita come arte, così non avremo più alcuna necessità di recarci ai musei, al cinema, al teatro, ecc. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.
Una società anarchica è, di per se stessa, comunista, essa sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di potere seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.
E’ logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. Nella visione anarchica rivoluzionaria, il comunismo appare epurato da tutti i suoi più odiosi aspetti religioso-autoritari e viene quindi valorizzato criticamente nei suoi aspetti positivi, in quanto non mutila ne appiattisce la personalità dei singoli che comunitariamente lo mettono in pratica, ma, al contrario, il loro associarsi dà modo di esaltare qualitativamente le singole diversità.
In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.
La vita, nel suo movimento, non ha alcun fine preordinato, siamo noi a riempirla di senso nel momento stesso in cui cerchiamo di viverla compiutamente.

il tempo uguale denaro

Nell'esatto momento in cui la rivoluzione industriale ha richiesto una maggiore sincronizzazione del lavoro, nasce l’esigenza dell’orologio. Il piccolo congegno che regola i nuovi ritmi della vita industriale rappresenta allo stesso tempo uno dei bisogni più urgenti tra quelli indotti dal capitalismo per stimolare il proprio progresso.
Così scopriamo, il senso del tempo nel suo condizionamento tecnologico e con il calcolo del tempo, il mezzo di sfruttamento del lavoro. Con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe , le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi, vengono plasmate le nuove abitudini di lavoro e viene imposta la nuova disciplina del tempo. E allorché viene imposta la nuova “disciplina del tempo”, gli operai iniziano a combattere non contro il tempo, ma intorno ad esso. La prima generazione di operai di fabbrica viene istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione forma le commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione sciopera per lo straordinario come tempo retribuito in modo maggiorato del 50 per cento. Gli operai hanno accettato le categorie dei propri padroni e hanno imparato a lottare all’interno di esse. Hanno appreso la lezione: “il tempo è denaro”


venerdì 9 agosto 2013

ADEGUARSI

L’angoscia della strada, i gesti abusivi. Le ossa sfinite e morbide. Le donne senza volto, rigide, dai capelli spezzati. Un rottamaio, dove tutto è così, dove ad ogni domanda si prescrive un’iniezione diversa.
Dove ogni gesto personale è fuori luogo. 
Non si possono aprire sempre casi diversi. Un terreno dove l’aria si rifiuta di entrare. Silenzio.
Nello specchio tutta la rabbia, le urla, le voci, le parole di questi vuoti a perdere. Morte e distruzione si moltiplicano come la cantilena della buonanotte. Domani sarà uguale, ti ci abituerai.
Il sorriso le si rifletteva sul vetro della scatola che le stavano portando via.
ADEGUARSI. Lei non vedeva persone a cui adeguarsi, ma soprammobili, bambole di pezza, ceramiche e secondini puliti.
È così che si è trovata nel buio della stanza, un calore vaporoso, intorno al letto confusione, scintillante, metallica, meccanica.
Dentro è densa, un freddo contenitore. Malata, immobile, pesante, piombo. Polvere di vetro scivola nelle vene, incapace di parlare o cantare. Il bianco guardiano entra, i polsi le dolgono, è bianco, distaccato e bisognoso. Le dà la medicina della salute, senza sapere e capire che soffriva di un qualcosa di diveso, incomprensibile alla sua maniacale voglia di decodificazione.
Sono condannati ad incontrarsi.
Di suo, non sentiva più nulla, al tatto le sfuggivano i vestiti, le capsule, le ossa, il sangue. La sua personalità che non voleva reprimere e trattenere, era in serio pericolo. Tra quelle mura insonorizzate rischiava di appiattire il suo ENCEFALOGRAMMA.
Qualcosa si frantuma, non si adegua, ha bisogno di un rasoio, non si adegua, è sudata.
Quando si è alzata, ha tagliato i suoi piedi, c’era sangue dappertutto, ma non ha provato niente, aveva bisogno di un rasoio per tagliare l’atmosfera.
Desiderano che si adegui, ma la scatola di vetro è stata rotta.
Tutti kazzi vostri.

(Tratto da: Luna Nera Contro la psichiatria Villa Azzurra Giugno 1992) 

Ned Ludd e il mercato del lavoro

La distruzione della macchina è un modello di lotta che inizia, in quanto fenomeno rilevante, nel XVII secolo e continua fino al 1830 circa.
Vi erano almeno due generi di distruttori di macchine. Al primo appartenevano coloro che non provavano alcuna ostilità specifica nei confronti di esse, ma divenivano distruttori per esercitare pressioni sugli imprenditori o sui mercati capitalisti. I luddisti del Nottinghamshire, del Leicestershire e del Derbyshire si servivano degli attacchi contro le macchine, vecchie o nuove che fossero, come mezzo per costringere gli imprenditori a fare concessioni salariali o di altro genere. Tale tipo di distruzioni rientrava nella tattica tradizionale e ormai affermata dei conflitti di lavoro del periodo del sistema domestico e manifatturiero e dei primi stadi dello sviluppo industriale e minerario. Gli attacchi non erano diretti esclusivamente contro il macchinario, ma anche contro i beni personali dell’imprenditore. Distruggere era semplicemente una tecnica del sindacalismo nel periodo precedente alla rivoluzione industriale e nel corso delle sue prime fasi.
La tecnica distruttiva aveva anche un altro scopo. Occorre tempo per assimilare il costume della solidarietà, ed in una situazione dove sia gli uomini che le donne erano mal pagati e privi di fondi per gli scioperi, il pericolo del crumiraggio era sempre presente. Distruggere le macchine rappresentava il metodo migliore per vincere questa debolezza.
 Al secondo genere di distruttori di macchine appartenevano coloro che intendevano esprimere l’ostilità della classe lavoratrice nei confronti delle nuove macchine introdotte con la rivoluzione industriale, in special modo quelle che facevano risparmiare mano d’opera. Questa pratica non era limitata agli operai ma era condivisa dalla grande massa dei lavoratori.
Distruggere le macchine significava impedire la disoccupazione e mantenere contemporaneamente il tradizionale sistema di vita che comprendeva sia fattori non economici, come la libertà e la dignità personale, sia il salario: l’avvento delle macchine avrebbe mutato i rapporti sociali di produzione.
L’obiettivo dei Luddisti era il controllo del mercato del lavoro e della produzione. In alcuni casi l’ostilità nei confronti della macchina fu chiaramente ostilità nei confronti della macchina nelle mani dei capitalisti.

giovedì 1 agosto 2013

CELEBRAZIONE DELLA DISOBBEDIENZA


La disobbedienza civile o selvaggia è la sola risposta a tutto quanto si configura come potere... gli imbecilli regnano, ma non governano... la stragrande maggioranza di questi cretini non vale il lavoro di un cavatore di pietre, del tacco di cuoio tagliato a mano di un ciabattino o del bullone alla catena di montaggio di un operaio... lo sanno bene... non sono in grado nemmeno di prendere il tram, accendere il fornello del gas o distinguere una lampadina da una pignatta esplosiva... sono dei saprofiti della politica che sanno però imbrogliare i loro elettori e orchestrare connivenze con mafie d’ogni sorta... chi non è con loro è contro di loro e così si fanno complici di assassinii di magistrati onesti, giornalisti non prezzolati, ragazzi che manifestano nelle piazze il loro dissenso... sono il cancro della democrazia dello spettacolo e solo quando saranno estirpati dal corpo comunitario, si conoscerà finalmente la faccia pulita della giustizia sociale. La disobbedienza comporta una filosofia della ribellione e l’odio affilato contro la società organizzata in despoti e servitori... le dittature dell’odio (le democrazie del consenso e i comunismi di facciata) allevano schiere di abatini serventi e riservano loro le briciole dei banchetti del potere... gli uomini della disobbedienza non demordono però dai loro intenti di sovvertimento di questa pianificazione della storia e si prendono il diritto di manifestare il loro dissenso di fronte a qualsiasi accusa di sovversione contro i poteri dello stato... con tutti i rischi che questo comporta, compreso quello di rimetterci la pelle.

L’UOMO CON LA MACCHINA DA PRESA di Dziga Vertov


Un operatore cinematografico coglie i diversi aspetti della vita di una grande città dall’alba fino al momento della piena attività. Egli riprende, con la sua macchina da presa, immagini di eventi quotidiani, quali il risveglio della gente, l’inizio del lavoro, la messa in moto delle macchine nelle fabbriche, il traffico sempre più vorticoso nelle strade e nelle piazze, le pratiche sportive e gli svaghi, la nascita, la morte.
Applicando nel cinema le istanze dell’Avanguardia sovietica degli anni Venti, Dziga Vertov vuole dare uno schiaffo al gusto corrente. Rifiuta alcuni elementi che caratterizzano i film tradizionali (l’intreccio amoroso, la sceneggiatura, la scenografia, le didascalie, gli attori, ecc.), fotografa la realtà ed organizza il materiale raccolto non in modo drammatico-narrativo ma secondo strutture essenzialmente ritmiche. In vari articoli-manifesto, Vertov precisa la sua teoria del Cine-occhio, secondo la quale l’occhio della macchina da presa ha capacità tali da giungere alla essenza dei fatti e da penetrare nella complessità della vita scomponendola con i mezzi tecnici che del cinema sono propri (acceleramenti, rallentamenti, inversioni di movimento, sovrimpressioni, uso di lenti speciali, sdoppiamento dell’immagine, e così via). Non facendo uso di schemi naturalistici, un film come L’uomo con la macchina da presa non coinvolge emotivamente il pubblico, ma lo obbliga ad un continuo impegno intellettuale, nello sforzo di decifrare il significato di quelle immagini che si susseguono talora in modo vorticoso e confuso e lo colpiscono intellettualmente come se fossero proiettili sparati contro di lui.
Vertov non sfugge alle proprie responsabilità politiche con vuoti giochi tecnici. Vertov riflette una concreta realtà culturale e sociale e prende posizione su di essa. Reputa la società sovietica piena di positività, ma non ne ignora gli aspetti negativi. Respingendo la teoria stalinista della mancanza di conflitti nello Stato postrivoluzionario, egli denuncia la sopravvivenza di conflitti privati e pubblici. Già all’inizio del film, all’inquadratura di una donna che dorme nel suo letto, segue quasi immediatamente quella di un uomo che dorme all’aperto su una panchina. Vediamo poi tre inquadrature successive: nella prima la donna si alza dal letto, nella seconda l’operatore cinematografico cambia obiettivo alla camera, nella terza l’uomo si alza velocemente dalla panchina. L’allusione all’esistenza di differenziazioni sociali è evidente pure nella sequenza in cui vediamo alternarsi l’interno di un bar alla moda frequentato da persone eleganti, con quello di un’osteria per proletari; là abbiamo un ambiente luminoso, allegro, raffinato, qui invece abbiamo una penombra fumosa. Anche nello sport esiste discriminazione di censo: alle esibizioni atletiche assiste un pubblico operaio, vestito con semplicità; al concorso ippico assiste un pubblico elegante, fra cui spicca una donna con ombrellino e veletta.
Si mostra la vita così com’è dal punto di vista di tutte le possibilità tecniche dell’occhio armato di macchina da presa. Ciò vale tanto per lo spazio quanto per il tempo. La lotta fra la vista, lo spazio e il tempo comuni e quelli cinematografici è la forza motrice del materiale documentaristico de L’uomo con la macchina da presa.

Costruire una città diversa

La partecipazione in prima persona e l'azione diretta più o meno pacifica con l'apporto di una diversa consapevolezza, capace di modificare e rendere più intense le relazioni tra le persone, guidano l'iniziativa su una scala territoriale forse più limitata, ma più incisiva.
Rimettersi alle istituzioni significa accettare che ogni scelta urbanistica fatta e gestita dal ceto politico in nome della collettività e del bene comune si trasformi ineluttabilmente in un ulteriore impoverimento delle libertà dei singoli. 
Si creano gruppi di individui disponibili a mettersi in gioco, in modo anche molto radicale, su problemi concreti e circoscritti, riguardanti il proprio territorio e la vivibilità quotidiana. Aria, tempo, spazio, piacere, terra, cibo sono sempre più motivo di conflitti e rivendicazioni. La loro mancanza, il loro degrado, l'impossibilità di goderne liberamente stanno rimodellando velocemente i valori, le idee, le paure, le prospettive e con esse i modi e le ragioni stesse del fare politica. Sono queste le persone che possono reagire e resistere, perché impostano la lotta contro la privatizzazione e la mercificazione dello spazio come lotta frontale, non necessariamente violenta, ma certamente coerente con il proprio sentire, auto organizzata e solidaristica, orientata a ottenere risultati tangibili e immediati in situazioni che valorizzino le caratteristiche di ognuno, rendano possibile e migliorino la qualità sociale. Sono le persone che hanno intuito che né il mercato né lo Stato agiscono per l'interesse collettivo tanto meno per quello dei singoli  e che si stanno orientando verso modelli che li ridimensionano o li escludono. Per loro affidarsi al mercato significa rendersi partecipi della trasformazione delle città in centri commerciali o musei a cielo aperto e chi la abita in polli in allevamento da far sopravvivere in una gabbia luccicante. Così, in modo più o meno radicale, contro il mercato praticano l'autoproduzione, la riutilizzazione dei materiali, l'autocostruzione, il baratto e il mutuo appoggio organizzato. Introducono il dono nei rapporti di scambio tra le persone; si associano in gruppi di acquisto, in attesa, magari, di potersi organizzare autonomamente creando orti collettivi in città o nelle sue vicinanze. Così, si oppongono alla speculazione edilizia, alla costruzione di edifici che trasformano la città in uno spazio espositivo per il marketing pubblicitario di banche e multinazionali, a infrastrutture ingombranti e inutili. 
Sono le persone che occupano le case abbandonate per abitarci o condividerne gli spazi con chi vuol frequentarle. Utilizzano le strade, i marciapiedi, le piazze, i muri, i parchi al di là delle convenzioni e dei regolamenti sottraendole anche solo momentaneamente alle automobili, a un’estetica mediocre, a una tristezza uniforme.
I partiti e le istituzioni amministrative non possono rappresentare l'interesse pubblico perché fanno parte del sistema, perché rappresentano essi stessi interessi privati e perché sono strumenti avversi alla formazione di meccanismi di decisione collettivi e alla mobilitazione. Non devono mai affidare la loro volontà a rappresentanti non eletti e non revocabili, né permettere la specializzazione politica: devono escludere i dirigenti. In questo consiste l'autorganizzazione. Non cedere alle prevaricazioni né alla seduzione. Il suo obiettivo irrinunciabile deve essere la liberazione del territorio dagli imperativi del mercato, e ciò significa farla finita con il territorio inteso come territorio dell'economia. Deve stabilire un rapporto di rispetto tra l'uomo e la natura, senza intermediari. In definitiva si tratta di ricostruire il territorio, non di amministrarne la distruzione. Questo compito spetta a coloro che nel territorio vivono, non a coloro che ci investono, e l'unico ambito in cui ciò è possibile è quello offerto dall'autogestione territoriale generalizzata cioè la gestione del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie.