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giovedì 30 maggio 2019

Vivere la propria vita da protagonisti

Una società anarchica è, di per se stessa, comunista, essa sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di poter seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.
E’ logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. Nella visione anarchica rivoluzionaria, il comunismo appare epurato da tutti i suoi più odiosi aspetti religioso-autoritari e viene quindi valorizzato criticamente nei suoi aspetti positivi, in quanto non mutila ne appiattisce la personalità dei singoli che comunitariamente lo mettono in pratica, ma, al contrario, il loro associarsi dà modo di esaltare qualitativamente le singole diversità.
In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.
Al mondo dei bisogni creato dal capitale è necessario opporre il mondo nuovo che ci portiamo dentro. Questo mondo si fonda sulla praticabilità realizzativa dei nostri più propri desideri. Al giorno d’oggi pensiamo che non sia più valido dire semplicisticamente che sarà un dato modo di produzione a definire concretamente una società anarcocomunista. L’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Vogliamo essere artisti e non semplici manovali-artigiani. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa, in una parola, in attività artistica. Noi vogliamo realizzare la vita come arte, così non avremo più alcuna necessità di recarci ai musei, al cinema, al teatro, ecc. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.

BALDELLI GIOVANNI anarchico

Nasce a Milano il 22  maggio 1914, detto Basco, cameriere, muratore, carpentiere, taglialegna, insegnante di lingue. Trasferitosi ben presto con la famiglia a S. Primo di Magreglio (Co), dove il padre dirige un albergo, a 14 anni, nutrito della lettura di Tolstoi e  Rousseau e animato da sentimenti di repulsione nei confronti del fascismo, abbandona la scuola dedicandosi al lavoro dei campi, a Camate. Il timore che la sua insofferenza politica ed esistenziale attiri l'attenzione della polizia induce il padre a inviarlo in Francia, ufficialmente per ragioni di studio. Espatriato nell'ottobre 1929, Baldelli risiede a Parigi, lavorando come cameriere, muratore e carpentiere, fino al novembre 1932, con rientri di breve durata in Italia presso la famiglia nel 1930 e nel 1931. Quando, nel gennaio 1933, si stabilisce a Milano, occupato come carrellista presso il ristorante Biffi in Galleria, è già schedato come repubblicano antifascista. A Parigi, infatti, ha preso contatto con i fuorusciti repubblicani ed è entrato a far parte della società segreta "La Giovane Italia", fondata a Torino dal socialista unitario Alberico Molinari, rientrato in Italia nel 1921 dopo un soggiorno quasi ventennale negli USA. Diventa amico di Louis  Lecoin, uno dei principali esponenti dell'Union Anarchiste; partecipa a iniziative con i comunisti e con i trockijsti. Con il  nome di battaglia di "Basco" costituisce un nucleo operativo incaricato di introdurre in Italia e distribuire materiale antifascista. Arrestato nel marzo 1933 con "altre 26 persone, per complicità nella ricostituzione segreta del partito socialista", trascorre nove mesi in carcere a Roma, ma nel dicembre, grazie anche alle conoscenze del padre, ex ufficiale di artiglieria, è prosciolto dal Tribunale speciale e ritorna a Milano. Nel 1936, dopo aver prestato servizio militare nella Regia Artiglieria, consegue la maturità classica e l'anno seguente la licenza magistrale. Nel 1937 viene sorpreso in Galleria a distribuire volantini anarchici e fermato. Rilasciato è quasi costretto a lasciare l'Italia. Si stabilisce nel Surrey, a un'ottantina di chilometri da Londra, e inizia a insegnare latino e francese alla Frensham High School presso Farnham. Tra la fine del 1937 e l'agosto del 1939  comunque scrive per la pagine italiana di «SIA», "organe de la Solidarité internationale antifasciste". Segretario della LIDU, all'indomani dell'ingresso italiano in guerra nel giugno 1940, Baldelli subisce la sorte di circa 4.000 italiani, fascisti e antifascisti, e viene internato. Imbarcato alla volta del Canada sulla Arandora Star, una nave da crociera senza contrassegno della Croce Rossa e con tanto di filo spinato a bordo, salpata il 30 giugno con un carico di oltre 1.600 persone tra equipaggio, soldati, internati italiani e tedeschi e rifugiati ebrei compresi, nonché prigionieri di guerra tedeschi, Giovanni è fortunatamente in sopracoperta quando la nave, in rotta verso in nord dell'Irlanda, viene silurata da un U-Boot tedesco. Salvato, con pochi altri superstiti, dopo sei ore e mezza di  permanenza in mare da una nave da guerra canadese, viene trasferito in Scozia, dove sbarca il 3 luglio.
Ma già I'11 luglio è nuovamente reimbarcato sulla Dunera alla volta dell'Australia, con altri 2.100 deportati, e internato in un campo di lavoro. Per quattro anni si sposta da un campo all'altro e irriducibilmente ottimista, organizza  conferenze, competizioni sportive, circoli di studio e rappresentazioni teatrali. Liberato nel 1944, rimane un anno  in Australia come taglialegna, rientrando poi in Inghilterra, dove trova impiego come professore di latino in una scuola privata. Nel  frattempo collabora con articoli di ispirazione filosofica alla «Mense  de l'homme» di Lecoin, a «Freedom» e a «Volontà». Nel  1953 pubblica la sua prima raccolta di poesie in italiano, All'ombra del gufo. Accanto all'attività di insegnante, poeta e drammaturgo prosegue quella di militante anarchico. Nel 1958 presiede il Congresso anarchico internazionale, tenuto a Londra sul finire di luglio, e diventa segretario della International Anarchist  Commission, assolvendo tale funzione fino al 1966. Sempre nella seconda metà degli anni '50 scrive per «Volontà», «Seme  anarchico» di Torino, «Il Risveglio anarchico» di Ginevra e anche per «Critica sociale». Allo stesso periodo  appartengono gli inediti Beyond Religion and Irreligion e Man, Woman and death, nei quali Baldelli esamina, attraverso il contributo della filosofia, dell'antropologia e della psicanalisi, le radici profonde del suo essere anarchico. Tra il 1966 e il 1970 collabora a «Umanità  nova», con rubriche come L'angolo dello studioso, poi Elementi della conoscenza. Una sua lettera, a firma "John Gill", giunge nell'aprile del 1969 a sostenere le tesi di coloro che manifestavano perplessità nei confronti delle alleanze con i gruppi extraparlamentari di estrazione marxista. Nel 1971 e nel 1972 appare, nell'edizione americana e in quella inglese, Social-Anarchism, mentre il testo integrale di Not Revolution, but Liberation, di cui Baldelli pubblica diverse parti con il titolo Menzogne rivoluzionarie e ribellione sociale in «Volontà»  rimane inedito. Coerente sviluppo di un percorso politico ed esistenziale centrato sulla libertà e il rifiuto radicale del potere, l'anarchismo di Baldelli "non è un'ideologia di classe, non è per la lotta di classe, non è per nessuna classe in particolare, ma è per l'individuo", non è antidemocratico, ma combatte la democrazia quando non lo è abbastanza e perciò non può allearsi a forze antidemocratiche. Sempre su «Volontà» pubblica in questo periodo singoli capitoli di Perché non sono comunista, tuttora inedito nella  sua versione integrale. Chiusa la collaborazione con «Volontà», nel 1977 dà inizio a quella con «L'Internazionale», che prosegue fino alla sua morte. Muore a Southampton il 3 novembre 1986. 

La povertà modernizzata

La povertà modernizzata non consiste nella iniqua distribuzione della ricchezza, ma nella frustrazione prodotta da quelle istituzioni che create per migliorare la condizione umana, finiscono invece con il peggiorarla, privando l’uomo di quelle capacità di far fronte autonomamente alle difficoltà e alle necessità che gli si presentano nel corso della sua vita. Questo tipo di povertà si manifesta quando l’intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia.
Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà di vivere in maniera autonoma e creativa riducendole a sopravvivere solo perché, e solo se, inserite in relazioni di mercato.
La controproduttività è cosa diversa dalle esternalità negative e indesiderabili. Sono esternalità indesiderabili i danni degli incidenti automobilistici, la degradazione ambientale, il carico fiscale di scuole e ospedali, superiore a quanto la maggior parte delle economie riesce a tollerare, le “città fantasma” che nascono in funzione delle strade e impoveriscono il paesaggio rurale e urbano, la distruzione di arti antiche e mestieri, la produzione e l’accumulo di rifiuti tossici, la creazione di costosi cimiteri per i rifiuti industriali. Le esternalità rappresentano costi che sono “al di fuori” del prezzo pagato dal consumatore per ciò che acquista ma che ricadranno a un certo punto su di lui, sugli altri o sulle generazioni future.
La controproduttività invece è un tipo di delusione, “interno” all’uso stesso della merce acquistata ed è componente inevitabile di tutte le istituzioni moderne. Ogni settore importante dell’economia produce le proprie contraddizioni. Ogni opera ha necessariamente degli effetti contrari a quelli per cui è stata strutturata.
Gli economisti sono incapaci di quantificare le conseguenze interne negative e di misurare la frustrazione intrinseca dei clienti prigionieri di un dato prodotto.

giovedì 23 maggio 2019

Ricordando Carlo Cafiero

Carlo Cafiero è una notevole personalità, uomo dei nostri tempi, non già malgrado ma grazie alle sue contraddizioni: contraddizioni che egli attrasse in sé dalla società circostante, esasperandole e ingigantendole fino alla follia. 
Fu dentro ai maggiori movimenti intellettuali dell'epoca — cristiano, libero pensatore, marxista, anarchico, comunista, e individualista, rivoluzionario e riformatore, violento e non-violento, materialista e idealista — sempre con un filo di coerenza interiore che tiene assieme il blocco della sua umanità. 
Fu il primo marxista italiano ma fu anche il primo critico della dottrina marxista in Italia. Fu anarchico intransigente per tanti anni ma nell'ultima fase della sua attività pubblica, accettò i mezzi legali, la via parlamentare e —  nolente  — la candidatura.  Fu nell'anarchismo della corrente federalista e associativa, fondatore della Federazione Italiana dell'Internazionale, presidente  dei congressi nazionali di  Rimini e di  Chiasso, di quelli internazionali di Saint-Imier e di Berna, ma con le sue teorie dell'azione diretta individuale, dei fatti spontanei, dell'illegalismo e dell'amorfismo  precorse le tendenze individualiste dei decenni successivi. Fu un rigido, un oltranzista, un consequenziario, un estremista e un esclusivo, eppure  quanti lo conobbero restarono colpiti dalla mitezza d'animo e dalla dolcezza nei rapporti umani: «un uomo», disse Kropotkin, «che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, e che ciò nonostante prese il fucile e si mise in marcia per le montagne del beneventano».  
Fu un uomo forte verso l'esterno ma una natura fragile all'interno, quasi femminile. Fu un impulsivo e un eccessivo nelle inimicizie, pronto e aperto alle riconciliazioni: con Marx, con Bakunin, con Costa, con lo stesso Tito Zanardelli che lo aveva ricoperto di grossolane ingiurie. Non avrebbe perdonato ad un compagno una leggerezza o una scorrettezza nocive alla causa e poi idealizzava la teppa come forza rivoluzionaria ignaro di quali istinti fosse deposito. Fu un solitario, un aristocratico nei modi e nei gusti; ed anche nel  linguaggio, violento mai triviale. Eppure non poteva vivere che immerso nel popolo, fra «i sofferenti» come lui diceva in contrapposizione ai «gaudenti».Operai, popolani, plebei furono i suoi compagni di lotta e di sventura. Fu un uomo del suo secolo, pur nella brevità temporale — appena  dodici  anni — della sua azione pubblica. Nato l'anno in cui Proudhon pubblicava La filosofia della miseria, il «manifesto» della questione sociale, fu accolto nelle file dell'Internazionale da Marx nella primavera della Comune di Parigi. Cadde, atterrato definitivamente dalla malattia, un mese prima della morte di Marx, di cui egli era stato il critico e il divulgatore. Mori infine pochi giorni prima che in Italia sorgesse un moderno partito operaio d'ispirazione marxista dal solco della scissione fra socialismo e anarchismo: due termini di cui egli aveva tentato l'ardita sintesi. 
Chi ha seguito le vicende di quest'uomo tragico e fantastico, che ne ha ascoltata la voce, avrà riconosciuto in lui e nella sua vita momenti e tratti della nostra storia d'ieri e di oggi, il segno dei nostri ricorrenti problemi, la traccia di virtù e di difetti nazionali, il riflesso sanguigno delle lotte di classe e di partiti del nostro paese. Ma al di là di tutto questo, al di là della politica e della storia, Cafiero porta in sé, nel suo acuto destino, un frammento dell'umana odissea. I suoi rifiuti successivi — della famiglia, della chiesa, dello stato, della ricchezza e del sesso, del cibo e del vestiario, della stessa vita, della stessa  ragione — altro non sono che tappe della ricerca di un'altra cosa, di una diversa dimensione al di là del reale e dell'umano.

IL NON CINEMA DI GUY DEBORD

Il non-cinema di Debord contiene elementi espressivi elaborati sulla distruzione di ciò che ci minaccia. Le opere cinematografiche di Debord praticano e allargano la critica radicale della civiltà dello spettacolo. L’utopia situazionista disseminata in questi film s’incentra su una poetica del fuoco e sulle tentazioni di appiccarlo a tutti i Palazzi d’Inverno. È l’utopia che guida le passioni e moltiplica i contrasti e i sogni, spezza destini e annuncia nuove epifanie dell’anima. Urla in favore di Sade (1952), Sul passaggio di alcune persone attraverso un’unità di tempo piuttosto breve (1959), Critica della separazione (1961), La società dello spettacolo (1973). Confutazione di tutti i giudizi, tanto ostili che elogiativi, che sono stati finora dati sul film La società dello spettacolo (1975), In girum imus nocte et consumimur igni (1978), Guy Debord, son art et son temps (1994) realizzato con la collaborazione con Brigitte Cornand, sono invettive, bestemmie, provocazioni contro tutto quanto figura la degenerazione delle forme di dominio approntate dall’uomo contro l’uomo. Lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca. Sparate allo schermo, prima di strisciare in quella fabbrica di sogni che mortifica l’intelligenza dei poeti. La magia del cinematografo è altra cosa. La menzogna hollywoodiana è un simulacro spettacolare dove le puttane e le madonne, i mostri e gli eroi, la catastrofe e il lieto fine sono parte del linguaggio sequestrato delle scimmie e i loro fantasmi si manifestano come semidei di celluloide in attesa di assurgere al più alto dei loro compiti, quello dell’istupidimento dell’immaginario collettivo. I codici del cinema dominante sono gli stessi messi in opera nelle galere, nei manicomi o nei parlamenti: la promessa di felicità insomma che “gli ultimi saranno i primi” e le umiliazioni saranno rimesse con i peccati, nei confessionali della storia. Le rivoluzioni non sono mai state attuali, pretendevano di rovesciare il potere con gli stessi mezzi. La rivoluzione, come la volgarità, è contagiosa, specie nei momenti in cui i rivoluzionari di professione hanno già venduto l’entusiasmo dei loro sostenitori al miglior offerente. La delicatezza non fa parte dei comitati centrali di qualsiasi ordine, solo in punto di morte i fanatici del potere si rendono conto della loro inutilità, ma i mostri che hanno partorito sono già ascesi alla gloria dei cleri e dalle segrete delle banche hanno appestato i banchi del sapere, contaminato gli asili pubblici, oliato la lama della ghigliottina economica e senza un filo di nobiltà hanno eretto il dogma del mercato globale. I morti non si contano più. La vendita di armi sì. La Borsa internazionale accomuna i massacri del progresso alle vacanze degli operai. I bambini si possono uccidere, vendere, stuprare, basta un poco di riservatezza. I prezzi sono buoni. Ci sono tanti padri di famiglia, timorati di Dio e dello Stato, che non sanno rinunciare alla tentazione di violare una bambina, specie se nera, ma vanno bene anche asiatiche, russe, bosniache... occorre soltanto un paio di dollari. È la stessa gente che chiede il rigore, la serietà, la coerenza ai parlamentari che crede di eleggere, porta i vessilli nelle parate militari, impalma la politica della rapina pubblica e non trova nemmeno il coraggio di mortificarsi delle proprie tenebre o di spararsi un colpo in bocca. Non ci sono governi buoni né governanti onesti che non siano ladri di bellezza”. I film apolidi di Debord esprimono una denuncia profonda del linguaggio cinematografico e nella critica radicale che portano contro la società dello spettacolo scorge anche la necessità di rifondare la pratica rivoluzionaria e intervenire contro il sistema delle merci.

Una nuova forma di biopotere

Una nuova forma di biopotere tende ad imporsi nelle nostre società occidentali grazie ai progressi tecnoscientifici e Medici.  Questo nuovo biopotere segna così Il passaggio da una medicina Dedita alla guarigione a una medicina focalizzata sull'ottimizzazione. Qualsiasi persona è un malato in Potenza.  Da questa ridefinizione dei confini tra il normale e il patologico nasce la biomedicalizzazione massiccia della società; la retorica del rischio porta un aumento delle esame preventivo e predittivo portando, alla confusione epistemologica e sperimentale dei confini tra terapia e miglioramento. In altri termini è la medicina, il complesso biomedico, a ereditare oggi progressivamente il progetto politico moderno di perfettibilità. Dalla diagnosi preimpianto fino alla medicina rigenerativa, nessuna età della vita sfugge oramai all'ottimizzazione tecnico-scientifica, al punto che la vecchiaia è la morte in quanto tali diventano vere e proprie malattie a cui occorre trovare un rimedio. Dal punto di vista utopico o futurista, l'immaginario contemporaneo della bio perfettibilità porta direttamente all'idea di un completo superamento tecnico-scientifico dell'essere umano, nonostante la sua apparenza di emancipazione,  di liberazione è tuttavia essenziale comprendere che questo immaginario di perfettibilità oggi emergente non è altro che il rovescio di una biologizzazione senza precedenti della società- Il nuovo regime di bioperfettibilità e infatti indissociabile dalla fede nel carattere profondamente biologico o genetico dei problemi sociali,  declassa con ciò radicalmente la volontà politica di agire sulle condizioni della vita sociale a favore del conformismo, dell'adattabilità. Ripiegata sulla vita individuale e la sua gestione, la  socialità si riduce alla logica spoliticizzata della biosocialità o a quella biocapitale che è, quella del biocontrollo in cui ogni individuo attraverso un vasto dispositivo biomedico composto da esperti di ogni sorta è indotto a gestire la sua vita in funzione di un numero sempre crescente di fattori di rischio.
La vita in sé diventa un bene da gestire e massimizzare a seconda del suo potenziale ereditario. 

giovedì 16 maggio 2019

Fascismo democratico o demo-fascismo

Il fascismo, sotto nuove sembianze,  è il destino della Democrazia, la sua verità e il suo futuro, ciò a cui mira. il luogo a cui ci conduce, la sua essenza spostata è posticipata.
La democrazia rappresentativa conduce a un fascismo di nuovo conio e, globalizzandosi  come formula di organizzazione politica, ai giorni nostri si mondializzato anche questo neo-fascismo in quanto conclusione dell'Umanità .
Stabilita questa affinità di fondo tra fascismo e democrazia, niente esclude che il primo possa succedere alla seconda - o, meglio, sovrapporsi - soprattutto se si adopera un concetto ampio, poco limitativo, dello stesso. Nell'elaborazione di questo concetto ampio di fascismo, che ammetterebbe una diversificazione considerevole nelle sue manifestazioni e legittimerebbe l'idea di un fascismo di nuovo conio - con un formato diverso da quello antico, pur identificandosi nelle sue caratteristiche fondamentali che l'hanno generato -. 
L'assenza di resistenza interna (assenza di opposizione degna di nota, di critica, di contestazione; Ovvero docilità della popolazione) e l'espansionismo  verso l'esterno (belligeranza, brama di universalizzazione) costituirebbero le due caratteristiche principali che definiscono il fascismo come fenomeno socio-politico insieme alla volontà di sterminare la Differenza (differenza culturale, psicologica, politica economica...).
Queste tre caratteristiche accomunano le esperienze tedesca italiana di fascismo - i cosiddetti fascismi storici -  ai modelli di formazione dello spazio sociale (norme per il governo delle popolazioni,  modalità di gestione socio-politica) che tendono a caratterizzare i regimi demo-liberali.
Si potrebbe parlare così di un neo-fascismo sovrapposto, in grado maggiore o minore, all'apparato politico della democrazia (elezioni, parlamento, partiti. Etc); un neo fascismo delle e nelle democrazie -  fascismo democratico o demo-fascismo - non so se venturo ho già installato nella nostra società.

THE BALLAD OF THE MAN - Virgin Prunes

Una volta ero ricco ma sto meglio ora con la mente soddisfatta
Vado giù al fiume a vedere le barche che navigano
A vedere le barche che navigano
Lancio pietre nel fiume, e questo mi rende soddisfatto, soddisfatto
Vivo giorno per giorno, prendo ogni giorno come viene
Alcuni sono buoni e alcuni cattivi
Io credo
Io credo in te
Johnny lo Spagnolo è arrivato dalla malavita ieri sera
In cerca di una banda per rapinare una banca
In cerca di soldi facili
Ha detto: "Vuoi unirti alla mia banda?"
Ho risposto: "Ma stai scherzando?"
Johnny lo Spagnolo è stato catturato
È andato in prigione per molto tempo per diventare un bravo ragazzo
Genuina espressione della Dublino punk e del collettivo del Lypton Village, i Virgin Prunes sono stati una delle più originali realtà della new wave. Il loro cabaret allucinato combinava un folklore atavico con suoni d'avanguardia, in bilico tra glam e gothic-rock. I Virgin Prunes erano prima d'ogni altra cosa teatro, un cabaret allucinato e aggressivo che mirava a far risaltare lo squallore metropolitano contrapponendolo a un visionario quanto blasfemo ritorno alla pura naturalità degli istinti.



DISOBBEDIRE

Obbedire quasi sempre vuol dire rinunciare a se stessi, dire sempre sì all’altro da sé e rinunciare sempre a se stessi: non voglio noie, non voglio vedere, capire, ascoltare, sentire; non voglio chiedere perché ho paura di quello che potrei scoprire, delle possibili conseguenze in termini di carriera, ruolo, posizione sociale, mi è comodo seguire l’onda del perbenismo, mi gratifica  la considerazione di chi esercita il potere.
Disobbedire è qualcosa di più che non obbedire, perché l’azione del non obbedire e talvolta spontanea, immediata, di pelle, non presuppone un articolato ragionamento. Disobbedire, infatti significa assumere in toto  paternità di un’azione di non obbedienza e farla diventare un comportamento visibile e consapevole, quindi trasformare un moto spontaneo in una scelta politica.  
Diventa importante capire che essere liberi vuol dire prima di tutto voler essere liberi. Essere liberi dal liberarsi dal desiderio di obbedire, estirpare la tendenza alla docilità, non pensare che sia sufficiente lavorare da soli per emanciparsi dall’obbedienza.
Ma per volere essere liberi è indispensabile capire che non siamo responsabili perché siamo liberi, ma siamo liberi perché siamo responsabili. Se non comprendiamo questo, si continua a giustificare sostanzialmente la sottomissione, si cerca pervicacemente, attraverso la delega a qualcosa o qualcuno, di spiegare, che diventa in questo modo un giustificare, ogni forma di sottomissione. Essere responsabili significa dunque assumersi il compito di interrogare sistematicamente il nostro comportamento, le nostre relazioni, alla luce di una visione che alimenti ogni forma di liberazione possibile.
La radice più profonda del dominio non sta tanto in chi lo esercita ma soprattutto in chi lo subisce per comodità per abitudine, per interesse, per codardia e via dicendo, dunque per irresponsabilità. Disobbedire vuol dire esercitare ogni forma di lotta radicale e di critica alla delega e alle spiegazioni giustificative che troppo spesso mettiamo in campo per assolverci all’imperativo categorico che abbiamo assimilato con l’obbedienza.

giovedì 9 maggio 2019

ANTONELLI VIRGILIO anarchico

Nasce a Livorno il 3 novembre del 1904, è il terzo figlio di una numerosa famiglia fortemente legata alla storia dell'anarchismo livornese. Virginio lavorando come navicellaio e poi come facchino portuale si avvicina in giovane età agli ambienti anarchici nel Primo dopoguerra entrando a far parte del gruppo anarchico "Falange Ribelle" con l'incarico di cassiere e proprio per queste scelte è presto ritenuto dalla polizia: "delinquente precoce e pessimo elemento anche dal lato morale essendo anarchico pericoloso". E' soprannominato "il Bimbo" per la sua giovane età, diffonde con entusiasmo la stampa anarchica (Il Seme, Sempre avanti, L'Avvenire anarchico, Il libertario, Umanità Nova). Negli anni precedenti l'avvento del fascismo, Antonelli oltre a impegnarsi nelle lotte operaie è protagonista degli
scontri che oppongono gli antifascisti allo squadrismo e alle forze dell'ordine. Nel marzo del 1921 viene arrestato assieme ad altri compagni per l'uccisione durante una sparatoria, di un fascista, rimanendo in carcere fino al dicembre del 1922. Più volte minacciato e aggredito dagli squadristi è costretto a girare con due pistole in tasca per l'autodifesa. Chiamato per svolgere il servizio militare nel 1925, sceglie l'insubordinazione, non accettando neppure di prestare il giuramento. Nel 1926 Virgilio viene inviato al confine in quanto considerato: "uno dei peggiori anarchici di questa città, di carattere violento con precedenti penali pessimi". Tra il 1927 ed il 1938 entra ed esce dal confino tra condanne amnistie e arresti. Nel 1939, all'inizio della guerra è arrestato preventivamente e dal giugno del 1940 al marzo del 1941 Antonelli viene rinchiuso nel campo di concentramento di Manfredonia. Rientrato a Livorno è sorvegliato a vista. L'otto settembre del 1943 assieme a due comunisti e un repubblicano, è tra i pochi che approfittano dell'abbandono delle strutture militari per procurarsi delle armi che, il giorno seguente sono utilizzate all'Ardenza per attaccare unità
tedesche. All'interno del primo comitato clandestino di liberazione Antonelli diventa il responsabile per l'organizzazione militare e rappresenta con altri quattro compagni la componente comunista libertaria. Nell'ambito della resistenza armata Antonelli organizza, dirige e prende parte a diverse azioni, tra cui quella in cui assieme all'anarchico Armando Bientinesi trae in salvo un pilota austriaco ustionato; e quella durante la quale riesce a liberare assieme all'anarchico Giovanni Biagini e ai fratelli Romolo ed Egidio, 32 ostaggi rastrellati dalle truppe tedesche. Nel settembre del 1945, Antonelli partecipa come rappresentante del Gruppo Sindacale Libertario di Livorno al Congresso di Carrara che vede la costituzione della FAI. A Livorno partecipa come rappresentate dei lavoratori portuali al Comitato di Gestione che si fa carico della ricostruzione, ma al momento dell'istituzione della Compagnia Lavoratori Portuali tale suo ruolo viene bloccato per motivi politici dai vertici del PCI. Antonelli è tra i principali animatori dell'attività di propaganda contro il regime franchista, facendo sì che ogni settimana sulle navi dirette in Spagna in partenza dal porto di Livorno viaggiasse clandestinamente anche la stampa anarcosindacalista edita dalla CNT in esilio in Francia. Sempre controllato dalle forze dell'ordine nel dicembre del 1969 subisce una perquisizione nel corso della campagna anti-anarchica per le bombe di Milano e Roma. Muore il 23 luglio 1982 dopo lunga malattia.         

OGNI UOMO UCCIDE CIÒ CHE AMA di Oscar Wilde

Eppure ogni uomo uccide ciò che egli ama,
e tutti lo sappiamo:
gli uni uccidono con uno sguardo di odio,
gli altri con delle parole carezzevoli,
il vigliacco con un bacio,
l’eroe con una spada!
Gli uni uccidono il loro amore,
quando sono ancor giovani ;
gli altri, quando sono già vecchi ;
certuni lo strangolano con le mani del Desiderio,
certi altri con le mani dell’Oro;
i migliori si servono d’un coltello,
affinché i cadaveri più presto si gelino.
Si ama eccessivamente o troppo poco;
l’amore si vende o si compra ;
talvolta si compie il delitto con infinite lacrime,
tal’altra senza un sospiro,
perché ognuno di noi uccide ciò che egli ama
eppure non é costretto a morirne.

Non c’è tempo da perdere

Poesia del rifiuto, sciopero generalizzato e modulato nei vari comparti della vita quotidiana, dal lavoro salariato al matrimonio, tanto per cominciare, esplorando un’autocostruzione che svaria dagli affetti all’habitat, dalla decrescita economica (segno di una crescente opposizione al produttivismo generalizzato e globalizzato)  alla società del dono, ancora tutta da inventare. 
Autocostruzione come tentativo concreto di organizzarsi nella critica della vita quotidiana secondo gli schemi rinnovati di un mutuo soccorso qualitativo.
Auto-organizzare le lotte e la diserzione di quanti sono obbligati a vendere la loro forza lavoro in un mondo in cui la carenza crescente di posti di lavoro è diventata l’alter-ego dell’obbligo di lavorare per sopravvivere consumando e osando persino chiamare vita questa schifosa messa in scena.
Gli auto costruttori tendono a costituire un’autonomia nella vita quotidiana, sottraendo al condizionamento zone in cui esso tende ad azzerarsi. 
Ogni singolo atto di resistenza può contribuire, federandosi solidamente, a ricostituire il tessuto lacerato di una società umana non alienata.
La sola dinamica sociale che possa innescare il processo capace di liberarci dal totalitarismo economico passa per l’opera di decondizionamento in grado di produrre una società di individui senza pregiudizi. Ognuno scelga il suo tipo di autocostruzione, ma ciascuno è, individualmente e collettivamente, il solo responsabile delle proprie scelte.
Non c’è tempo da perdere, bisogna incamminarsi senza indugi verso un’autonomia crescente, mettere insieme tutte le diversità senza snaturarle e senza subirle è il compito di ciascuno e di tutti, tranne che di specialisti della rivoluzione che abbiano in testa un persistente pregiudizio sul come questa si debba attuare. 
La Rivoluzione sarà la socializzazione cosciente di questa volontà di vivere o non sarà.

giovedì 2 maggio 2019

L'antiautoritarismo di Benjamin Péret

L'intransigenza di Péret, la sua mirabile ottusità nel perseguire la sovversione dell'esistente contro ogni forma di fideismo politico e religioso, va ampiamente al di là del vago intellettualismo contestatario del gruppo bretoniano. La sua lucidità rivoluzionaria mai venuta a meno, alla pertinacia nel rinfocolare l'odio di classe sia in ambito culturale, sia nella dimensione prettamente politica dell'agire umano, ne fanno un autore che ancora oggi rimane difficilmente recuperabile dai funzionari del sistema culturale. Basta un verso, un passo di uno dei suoi scritti teorici, e salta tutto il castello di omissioni e capziosità accademiche. Solo in pochi hanno saputo o voluto raccogliere il testimone incandescente della sua esigenza di sovversione, del suo bisogno di una riscrittura integrale della mappa del desiderio.
Il feroce antiautoritarismo di Pèret emerge prepotentemente dalla lettura della poesia inclusa in un'opera collettiva che i surrealisti pubblicarono nel 1933 a Bruxelles per omaggiare Violette Nozières, una liceale parigina appena diciottenne che era stata arrestata nell'agosto di quell'anno con l'accusa di aver avvelenato i propri genitori. La ragazza si era difesa parlando ai giudici dei rapporti incestuosi a cui l'avrebbe costretta il padre (che era uno dei macchinisti del treno presidenziale). Per gente come Péret e compagni era l'occasione buona per sputare fuoco e fiamme sulla famiglia borghese.

Chappaqua di Conrad Rooks

“Era il tempo di Huxley e Ginsberg, di Timothy Leary e degli acid test dei Grateful Dead, di Augustus Oswley, di Andy Wahrol e del Greenwich Village, dei sitar e dei fiori nei capelli, un periodo dove le droghe, poiché in grado di modificare le percezioni sensoriali, erano viste come strumento perfetto per estendere la creatività artistica. E cosa c’è di meglio se non il cinema per replicare efficacemente le esperienze visive di un trip lisergico?”
Il protagonista arriva in una città. Si chiama Russel. Viene portato via in macchina da un autista. E’ una continua allucinazione. Entra in una clinica per disintossicarsi. Gli viene fatta una iniezione, poi scappa. Russel va a finire in una bara durante una cerimonia in cui i fedeli entrano in trance. Ma lui si risveglia nella clinica. Parla con uno psicologo. Dice che vuole andare a Chappaqua. Si vede la festa di paese di Chappaqua. Lui è un bambino. Si vedono danze indiane. Belle visioni. Il peyote. Cominciò tutto con quello per Russel. Il peyote gli ha dato fantastiche visioni. Inca e una donna bellissima. Un cervo. Allucinazioni. Allucinazioni di Russel. Le allucinazioni diventano un incubo. Russel diventa Dracula. Si ritorna nella clinica. Russel scappa e va a Parigi. Entra in un bar. Beve. Russel è sempre più ubriaco. Ogni tanto compare William Burroughs. E poi di nuovo musica e danza indiana. Strade dell’India sporche e povere. A Parigi è ubriaco. Entra in un locale jazz. Continua
a bere e a ballare. Si ritrova in clinica dove balla con un’infermiera. Ritorna nel locale jazz. Le immagini continuano ad alternarsi velocemente. Passa dall’India dove impara la meditazione. Si ritrova su un cammello e va a fumare hashish insieme a dei santoni. Assiste ad una danza sfrenata di una bellissima donna. Compare una roulette dove lui gioca con altri giocatori. I giocatori si passano una siringa e si iniettano una droga. Ritorna la donna bellissima che ora fa l’amore con Russel. Tutto questo sempre intervallato dal locale jazz e dalla clinica. Fischio di un treno. Russel cade a terra morto, Santoni indiani, Russel che balla con una donna in un bosco. Infine fugge con un elicottero gridando “Addio!”
Il regista monta le sequenze in maniera anarchica ed irregolare e, per non fornire alcun punto di riferimento allo spettatore, propone dei continui passaggi dal bianco e nero al colore. Lo scopo di Rooks è quello di filmare un viaggio psichedelico dove gli incubi e le allucinazioni del protagonista sono indistinguibili dalla realtà.
Chappaqua di Conrad Rooks è riuscito a diventare manifesto del pensiero beat e splendido documento di un’epoca, al di là degli evidenti meriti tecnici. Il film è semi-autobiografico: Rooks mette in scena con allucinata sincerità la sua vita
interpretando il protagonista Russel Harwick, un ricco ubriacone strafatto che va in una clinica privata per disintossicarsi da alcol e allucinogeni. L’intera pellicola è un susseguirsi di deliri visionari, il viaggio di un tossicomane in crisi di astinenza dentro se stesso, i suoi timori, i suoi sogni e i suoi ricordi, dove lo spazio e il tempo non esistono più e la realtà si piega alle sue emozioni e ai suoi desideri. Harwick/Rooks, e con lui tanti altri, in quei primi anni ’60, vorrebbe solo raggiungere uno stato di serenità mentale, di un equilibrio tra il suo essere e la società che lo circonda e influenza, una sensazione, un luogo ideale che identifica nel paesino di Chappaqua.
Il film è un viaggio anzi una summa di viaggi, anzi un inseguirsi di viaggi nel viaggio. Nello spazio e nel tempo, nella droga e per uscire dalla droga, nella storia e nella Storia, nella realtà e nell’irrealtà. Dalla culla alla bara, da Stonehenge agli Indiani d’America e non, dalle metropoli industriali ai sobborghi del terzo mondo. Nelle religioni e nelle religiosità, nei riti e nei rituali. Ed anche un viaggio nella storia della musica e del cinema.
I mezzi di viaggio sono di volta in volta in un crescendo vorticoso l’alcool, l’LSD e il Peyote.
È molto interessante  come Rooks riesca a far recitare un grande attore come Jean-Louis Barrault al fianco di attori non professionisti (in primis se stesso nella parte di Russel Harwick) come lo scrittore William Burroughs, nella parte del mefistofelico Opium Jones, o altri artisti quali Allen Ginsberg, Ornette Coleman o Ravi Shankar. Questi ultimi due sono protagonisti della colonna sonora che è un elemento costantemente presente in Chappaqua. Le sonorità, forse troppo sofisticate, di Ornette Coleman, non furono ritenute adatte alle immagini e, in fase di montaggio, vennero sostituite da quelle più lisergiche di Shankar. Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia.

La vita prima di tutto

Se il vecchio grido di "morte agli sfruttatori!" non risuona più nei quartieri popolari è perché lascia il posto ad un altro grido, venuto dall'infanzia e da una passione più serena: "la vita prima di tutto!" Lasciate che si propaghi non nelle teste ma nei cuori e non ci sarà più  da preoccuparsi dell'apatia in cui si arenano gli arcaismi della sottomissione  e dell'insubordinazione.
La gioia di appartenere all'incessante rinnovamento della natura è il migliore antidoto agli obblighi quotidiani dello sfruttamento e dello snaturamento. E' il momento dell'innocenza in cui il bambino si rivela a se stesso, prima che l'educazione faccia pagare il piacere di nascere con l'obbligo di lavorare. In ciò sta il segreto che scioglie la catena dei rimorsi, sacrifici, malattie, frustrazioni e aggressività che il libero scambio dei sensi di colpa forgia anello per anello.