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giovedì 25 maggio 2023

GUERRILLA GARDENING

Il Guerrilla Gardening è una pratica di riappropriazione degli spazi urbani le cui origini, nella sua forma organizzata, risalgono agli anni ’70. Consiste nella piantumazione clandestina (ovvero non autorizzata dalle istituzioni) di piante ad uso collettivo, solitamente in aree periferiche abbandonate o semi-abbandonate. Tale pratica, che spesso si collega a visioni come la permacoltura o l’agricoltura naturale, nasce come critica del tessuto urbano e volge a distruggere e riconcepire gli spazi della città, trasformandoli in luoghi d’incontro, laboratori di autoproduzione e spazi di gratuità. Non è solo il come, ma anche il dove viviamo ad essere la base per una società libera, lontana da bisogni imposti da qualcuno che ne trae profitto. Il Guerrilla Gardening verrebbe meno al proprio obiettivo se non agisse per modificare la trappola urbano-industriale che già dalla fine del XIX secolo ha posto le basi per una lenta, ma inesorabile, omologazione delle braccia serve del capitale, nonché ha determinato il passo decisivo per alienare l'uomo dalla natura e, di conseguenza, da se stesso. Lo spazio urbano è da sempre concepito in soli due modi: nell'aspetto abitativo vi è, in particolare nei quartieri-dormitori, la concezione di creare celle private, pressoché identiche tra loro, ben separate e in spazi talmente ridotti che una vita autonoma e autogestita, anche solo in parte, sarebbe difficile da immaginare. Nella seconda opzione, il nucleo urbano risulta essere un'enorme vetrina del mondo, dove ogni oggetto ed esperienza dell'esistente viene mercificata per mantenere in vita il sistema lavorativo, oltre a rendere l'individuo dipendente dal sistema stesso. Tra queste due concezioni di certo non c'è posto per spazi comuni, da gestire in autonomia, dove la natura possa seguire il suo corso spontaneo che per secoli ha garantito la nostra esistenza. Ciò non è possibile tanto per una questione logistica quanto per un evidente conflitto di interessi tra la gratuita abbondanza della natura e la mercificazione d'ogni cosa da parte del sistema capitalistico.


Odiare il carcere

Sentirsi liberi di «scegliere» di poter odiare il carcere, e la struttura sociale che lo produce e lo riproduce, è parte fondamentale della lotta per la libertà. Della lotta per sottrarsi allo spirito del tempo, oggi occupato da ossessioni «forcaiole», dalla sudditanza a un ordine immobile, dalla dipendenza gerarchica. Sono ossessioni utili a far dimenticare i responsabili del malessere dilagante. L’odio verso il carcere ci aiuta a individuare i veri nemici e lottarci contro. La battaglia contro il carcere va intensificata con la convinzione che stavolta non siano i detenuti a soccombere ma il carcere.

Che finisca! Che venga abolito! Chi siamo noi per osare dimenticare? 


Gli Anarchici a Roma all’inizio del novecento

Attraverso le carte raccolte dagli “osservatori” del ministero dell’Interno e la corposa produzione pubblicistica dell’ambiente libertario capitolino (in circa un decennio, 1913-1924, furono stampati una decina di periodici di vario spessore, oltre ad alcuni numeri unici e diversi cahiers di propaganda) è stato possibile ricostruire i contorni di un mondo sovversivo particolare, all’interno del quale l’esperienza anarchica si andò formando in termini policromi e innovativi. Il Programma adottato alla nascita della Federazione socialista-anarchica del Lazio nel 1900 introdusse il gradualismo rivoluzionario quale affinamento dell’insurrezionalismo e superamento dell’attitudine giacobina, dando, così, una prima concretizzazione programmatica alle elaborazioni di Malatesta di fine Ottocento. Pur tra alterne fortune, per tutta l’età liberale la Federazione laziale (rinominata Fascio comunista-anarchico nel 1913) rappresentò “l’anima organizzativa dell’anarchismo italiano”, tentando di dare al movimento nazionale una voce e un profilo organizzativo condivisi. Nel timore che si allocassero concentrazioni operaie troppo pericolosamente vicine ai centri del potere, a Roma non si svilupparono grandi fabbriche, mentre la gran massa della manodopera immigrata dalle campagne fu assorbita solo parzialmente dall’edilizia. Prese vita, quindi, un vasto proletariato, lontano dalla rigida disciplina d’industria e poco sensibile alle mediazioni di tipo politico e sindacale, ma attento alla soddisfazione immediata dei propri bisogni e disponibile alle pratiche dell’azione diretta e dell’autorganizzazione sociale. La proposta anarchica, così, poté permeare e radicarsi. Dall’elezione di Aristide Ceccarelli alla segreteria della da poco risorta Camera del lavoro nel 1901, si aprì un’indagine attiva e complessa dell’ipotesi anarco-sindacalista che prendeva le mosse dalle intuizioni di Luigi Fabbri – presente a Roma in quegli anni – e dall’esperienza dell’anarchisme ouvrier d’oltralpe. Fu così che, nell’Urbe, gli anarchici furono promotori del primo sciopero generale nel 1903 e poté sorgere la prima esperienza di sindacalismo libertario in Italia, la Lega generale del lavoro (1907-1910), quale affermazione dell’autonomia di classe intesa come reazione al tentativo di integrazione nello Stato del movimento operaio, orchestrato da Giolitti e tradotto, a Roma, da Ernesto Nathan. L’anarchismo capitolino colse i tratti costitutivi essenziali del movimento operaio locale, traducendone lo spontaneo spirito di ribellione che vi allignava in un intento volto allo sviluppo dell’azione collettiva ed espropriatrice che, nel biennio rosso, sfociò nel movimento delle occupazioni delle fabbriche, in quello parallelo delle occupazioni delle case e in episodi di aperta ribellione, quali la “battaglia del Colosseo” o lo sciopero insurrezionale in solidarietà con la rivolta di Ancona. A ridosso della marcia su Roma, attraverso l’opera del tipografo Eolo Varagnoli, presero vita i Nuclei libertari di categoria (poi riproposti su scala nazionale dal III congresso dell’UAI), che rappresentarono un iniziale tentativo di autodifesa di fronte alla crescente arroganza della tabe mussoliniana e dai quali sorse il Comitato di difesa proletaria, che arrivò a contare 50.000 iscritti in tutta la regione. D’altra parte, la profonda compenetrazione dell’anarchismo con le culture sovversive capitoline permise il venire alla luce di una larga, se pure minoritaria, compagine individualista, che assunse tratti del tutto peculiari, in una difficile sintesi tra la tradizione garibaldina e le letture stirneriane. Osteria e altri furono interpreti eccentrici di ipotesi eversive spurie, nelle quali si coniugarono le istanze di classe con il combattentismo più disponibile all’azione popolare, fino alla nascita della sezione romana degli Arditi del Popolo. Una storia viva quella  dell’anarchismo romano. Con i suoi luoghi di ritrovo come librerie, circoli di quartiere e osterie: famosa quella “Lucifero”, nel rione Borgo, a due passi dal Vaticano. Storia di una generazione di militanti, che restituisce lo spaccato di un laboratorio anarchico attivo e innovativo, quale parte di un più ampio schieramento di classe, in quel quindicennio speciale, compreso tra il deflagrare della settimana rossa e il consolidamento del regime fascista.


giovedì 18 maggio 2023

PSICHIATRIA - Il primo réseau alternativo

Nel 1975 in Belgio si sviluppa il «settore»: alcuni operatori che lavorano in un quartiere a nord di Bruxelles organizzano, con altri stranieri, un incontro nella loro città sul tema l'«Alternativa al settore». Grazie alla numerosa presenza di più figure sociali venute da ogni parte d'Europa, si insiste sulla necessità di non limitarsi ad una critica alla psichiatria fine a se stessa, ma di allargare il discorso nei riguardi dei processi di emarginazione perpetrati dalla famiglia, dalla scuola, dalla fabbrica, ecc .. Gli psichiatrizzati spingono verso la costituzione di un coordinamento a livello internazionale contro la repressione psichiatrica. Nasce il réseau. Che da «Alternativa al settore» viene ribattezzato «réseau alternativo alla psichiatria». Non ha un programma preciso, non ha intenzione di diventare un partito né un sindacato. Interessante è conoscere il texte constitutif del réseau. In questo si può leggere che il réseau riunisce gli psichiatrizzati ma anche tutti i gruppi decisi a lottare contro l'oppressione che i primi subiscono o hanno subito; tutti i promotori e gli animatori di esperienze collettive, psichiatriche o no, che costituiscono delle alternative al settore o dei tentativi di distruzione del manicomio; tutti quelli, operatori psichiatrici o no, che si rifiutano di inserirsi come agenti di un ordine psichiatrico repressivo ed esigono che i vari problemi non vengano trattati con interventi tecnocratici. Dice il testo: «Crediamo che le lotte per la sanità debbano inserirsi nell'insieme delle lotte che conducono i lavoratori per la difesa della loro salute ed essere in collegamento con tutte le lotte delle forze sociali e politiche per la trasformazione della società». «La pazzia è l'espressione delle contraddizioni sociali contro le quali dobbiamo lottare. Senza una trasformazione della società non ci sarà mai una psichiatria migliore ma sempre una psichiatria oppressiva. Ci rifiutiamo di rinchiudere nella terminologia psichiatrica i problemi dell'alienazione e dell'emarginazione alimentati dal sistema socio-politico. Dobbiamo smettere di essere gli agenti passivi di un sistema che reprime gli emarginati con l'alibi della cura e del reinserimento». Si legge più avanti che l'esistenza stessa degli psichiatri, degli infermieri, degli educatori, ecc. fa parte dei sistemi generali di controllo, di normalizzazione, di repressione. La pazzia pone problemi per i quali occorre cercare le risposte ad un livello completamente diverso da quello in cui invece si situano gli apporti degli specialisti. E' necessario dunque bloccare ogni nuova costruzione di ospedali psichiatrici e di servizi specializzati; iniziare fin d'ora un processo di riconversione degli ospedali psichiatrici esistenti. «Ciò non dovrà essere una liquidazione burocratica del tipo di ciò che è stato fatto in California. Non è questione di ledere uno strato sociale di lavoratori e di gettare la gente in mezzo alla strada. Questo processo di riconversione dovrà essere preso in carico da tutti quelli che vivono la pazzia, da quelli che vivono per la pazzia, da quelli che vivono con la pazzia, con i diversi gruppi sociali interessati a tale riconversione che non necessariamente devono essere dentro lo specifico psichiatrico». Per quel che riguarda l'infanzia, essa è un fronte di lotta essenziale per il réseau. «L'attuale funzione della psichiatria infantile è di trattare medicalmente dei bambini che sono approdati ad essa perché «ritardati» o «inadatti» per la struttura scolastica. Nella nostra lotta la scuola ha un'importanza strategica essenziale». Occorre costruire più gruppi internazionali al fine di analizzare precisamente la situazione della psichiatria infantile e della scuola nei diversi contesti nazionali, locali, ecc.; per riunire le esperienze che, appena si trovano isolate, vengono recuperate immediatamente; per pensare a delle possibilità di contatti concreti, nel quartiere, con i lavoratori, i gruppi politici, i gruppi d'azione, gli insegnanti, ecc.; per elaborare delle forme di lotta e la possibilità di costruire una pratica alternativa; infine per lasciare lo spazio maggiore alla parola dei bambini, che sono i più interessati. Infine, per quanto riguarda gli psichiatrizzati, si può leggere nel texte: «Gli psichiatrizzati e gli internati non sono solo degli emarginati, poiché essi sono lavoratori o disoccupati che hanno subito lo sfruttamento o la represione della società capitalistica. Solo una trasformazione sociale, una lotta di classe, a condizione che essi ne siano partecipi, potrà sopprimere l'istituzione psichiatrica con le sue ramificazioni (manicomio criminale, ospedale psichiatrico, settore, prigione, ecc.). Dobbiamo lottare contro l'ideologia psicoanalitica che recupera i discorsi degli psichiatrizzati e le loro lotte di una nuova forma sottile di repressione e di inquadramento poliziesco: il passaggio dall'ospedale psichiatrico al settore. Dobbiamo sopprimere i rapporti curante-curato in quanto riproducono la dominazione di classe».



FATHER AND SON – Cat Stevens

Padre:

Non è tempo di cambiare

Rilassati, prendila con calma

Sei ancora giovane, questa è la tua colpa

Hai ancora molte cose da conoscere

Trovare una ragazza, sistemarti,

Se vuoi puoi sposarti

Guarda me, sono vecchio,

Ma sono felice


Una volta ero come sei tu ora,

E so che non è facile

Rimanere calmi quando hai trovato

Qualcosa che va

Ma prendi il tuo tempo, pensa a lungo

Perché, pensa a tutto quello che hai avuto.

Poichè domani tu sarai ancora qui

Ma forse non i tuoi sogni.


Figlio:

Come posso tentare di spiegarmi,

Se lui ancora una volta distoglie l’attenzione

È sempre la stessa vecchia storia

Dal momento in cui potevo parlare,

Mi fu ordinato di ascoltare

Ora c'è una strada e so

Che devo andarmene

So che devo andare


Padre:

Non è tempo di cambiare

Siediti, prendila con calma

Sei ancora giovane, questa è la tua colpa

Ci sono ancora molte cose da affrontare

Trovare una ragazza, sistemarti,

Se vuoi puoi sposarti

Guarda me sono vecchio,

Ma sono felice


Figlio:

Tutte le volte che piansi,

Tenendo tutto dentro di me

È dura, ma è anche dura

Ignorare tutto

Se avevano ragione, ero d'accordo,

Ma conoscono loro, non me

Ora c'è una strada e io so

Che devo andarmene

So che devo andare



 

Ito Noe

Ito Noe nasce a Kyushu, Giappone, nel 1895 in una famiglia dell’aristocrazia terriera. Dopo un’educazione di alto livello, soprattutto per una donna dell’epoca, scappa da casa per sottrarsi a un matrimonio forzato e si trasferisce a Tokyo. Qui nel 1913 si unisce a un gruppo di donne che si batte per l’emancipazione femminile, l’associazione Seitosha fondata già negli anni Settanta dell’Ottocento da Hiratsuka Rancho, e in particolare collabora con la rivista del gruppo, “Seito”, per la quale traduce articoli di Emma Goldman. Dopo un breve matrimonio con un suo ex insegnante, Ito inizia nel 1916 un’appassionata relazione con l’anarchico Osugi Sakae e da quel momento diventa un’attiva militante del movimento giapponese. Nel corso degli anni ha un’intensa produzione letteraria, pubblicando oltre ottanta articoli su tematiche sociali, ma anche romanzi autobiografici in cui appare chiara la sua scelta libertaria di forte rottura con la società tradizionale giapponese. Nel 1919, insieme a Osugi, Wada Kyutaro e Kondo Kenji, fonda una rivista di ispirazione anarco-sindacalista, il “Rodo Undo”, il cui obiettivo è di creare un collegamento stabile tra il movimento anarchico e la nascente classe operaia giapponese. Grazie a questo periodico sorgeranno ben presto diverse sezioni locali con lo stesso nome dedite all’attività sindacale. Nel settembre 1923, poco dopo la nascita del suo ultimo figlio, le ricadute politiche di una catastrofe naturale squassano il movimento anarchico giapponese. Un devastante terremoto colpisce infatti la zona di Kanto, provocando centomila morti e due milioni di senza casa. Come spesso accade in questi casi, numerosi incendi scoppiano dopo il terremoto concorrendo ad aggravare le vittime e i danni. Incoraggiati dalle autorità, cominciano a circolare voci incontrollate secondo le quali questi incendi sono stati volutamente appiccati da “gruppi asociali”. Una folla inferocita comincia a braccare gli immigrati coreani e cinesi ritenendoli responsabili della tragedia, mentre la polizia, molto più selettivamente, sequestra e uccide un certo numero di oppositori politici, socialisti e anarchici (tra immigrati e oppositori si parla di alcune migliaia di vittime). Il 16 settembre Ito Noe e Osugi Sakae, insieme a un nipote di quest’ultimo di 6 anni d’età, vengono arrestati a Tokyo, pestati e infine strangolati nelle celle della Kempei-tai, i servizi segreti che rispondono direttamente all’imperatore Hirohito. I loro corpi vengono ritrovati alcuni giorni dopo in un pozzo, dove erano stati gettati per sbarazzarsene. Identificato il colpevole materiale dell’uccisione, l’agente Amakasu Masahiko, segue un processo che ne accerta le responsabilità. Condannato a dieci anni, viene però liberato quattro anni dopo per ordine dell’imperatore stesso, che lo reintegra nelle sue mansioni. Nel 1924, per vendicare la loro morte, l’anarchico Wada Kyutaro compie un attentato contro il generale Fukuda Masataro, responsabile militare del distretto dove sono avvenuti il sequestro e l’omicidio. Nella sua autobiografia Bertrand Russell racconta così il suo incontro con Ito Noe nel 1921: “Era giovane e bella… Dora [la moglie di Russell] le chiese: ‘Ma non hai paura che le autorità ti possano fare qualcosa?’. Lei si portò le mani alla gola e rispose: ‘So bene che lo faranno prima o poi’”.



giovedì 11 maggio 2023

La paura in quanto argomento economico

La paura penetra nel cuore dell’uomo nell’istante in cui si trova impedito di nascere a se stesso. Voglio dire che non abbandona i terrori inerenti all’universo animale se non per cadere nei terrori di una giungla sociale, dove è considerato un crimine comportarsi con la libera generosità di una natura umana. L’economia distilla una paura essenziale nella minaccia che fa pesare sulla sopravvivenza dell’intero pianeta; da un lato si spaccia come garanzia di benessere, dall’altro si richiude come una trappola su ogni tentativo di scegliere una via diversa, che si tratti dell’indipendenza del bambino o dello sviluppo delle energie naturali. La paura in quanto argomento economico, consiste nel chiudere porte e finestre quando il nemico è già in casa. Essa accresce il pericolo con la scusa di proteggersene. Suscitare lo spavento di una terra trasformata in deserto, di una natura sistematicamente assassinata, non è ancora un modo di murarsi, per morirvi, nel circolo vizioso della merce universale? Distruggendo i bastioni della chiusura agraria per ricostruirli più lontano ai limiti della redditività, l’espansione mercantile ha riunito il gregge dei terrori al confine tra un universo moribondo e una natura da rivivificare. uel che è più terribile nella paura di morire, che istupidisce gli uomini fin nelle loro audacie suicide, è che si tratta originariamente di una paura di vivere. Trapassare, solcare la soglia della morte, è talmente insito nella logica delle cose che gli uomini ridotti agli oggetti che producono vi trovano paradossalmente più sicurezza e rassicurazione che nella risoluzione di cominciare a vivere e di prendere per guida i loro stessi godimenti.

La paura di una apocalisse ecologica occulta l’occasione offerta alla natura e alla natura umana.


UOMO DEL MIO TEMPO - Salvatore Quasimodo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

gli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

quando il fratello disse all’altro fratello:

«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.


Alle origini del socialismo libertario messicano

Il primo a dedicarsi alla diffusione del socialismo utopico e dell’anarchismo in Messico fu il greco Plotino C. Rhodakanaty, che qui emigrò nel 1861, venendo dalla Spagna. In quello stesso anno pubblicò, a scopo di propaganda, L’ABC del socialismo di Charles Fourier: Verso il 1865 organizzò a Città del Messico un gruppo di studenti, il Club Socialista de Estudiantes. “In quel gruppo c’erano i futuri leader del socialismo messicano: Francisco Zalacosta, che sarà a capo delle lotte agrarie; Santiago Villanueva, che organizzerà il primo movimento operaio urbano; Hermenegildo Villavivencio, che lavorerà con Villanueva negli anni Sessanta ma morirà prima dei grandi avvenimenti degli anni Settanta e Ottanta”. Il gruppo, successivamente, prese il nome di La Social e diventò un’associazione segreta, aderente alla Prima Internazionale (AIT). Nel 1877, all’inizio del periodo porfirista [la dittatura di Porfirio Diaz], i cittadini di ottantasette comuni degli Stati di Mexico, Guanajuato, Hidalgo, Michoacán e Querétaro inviarono al Congresso nazionale un documento con cui chiedevano che venisse emanata una legge che li proteggesse dalle spoliazioni di terre e dalla distruzione di villaggi ad opera dei latifondisti. Chiedevano anche che fosse posta fine agli assassinii, alle persecuzioni e alle incarcerazioni dei rappresentanti di villaggio. Spiegavano di confidare nella legge per la soluzione dei loro problemi e che si dissociavano dai metodi violenti. Stigmatizzavano addirittura la Comune di Parigi. E tuttavia non ottennero alcuna risposta. Stando così le cose, nel corso di  quello stesso anno Francisco Zalacosta girò in lungo e in largo per i villaggi di Mexico, Puebla, Tlaxcala e Hidalgo, promuovendo la “legge agraria” contro le spoliazioni e gli abusi perpetrati dai latifondisti, nell’indifferenza delle autorità. La sua legge agraria consisteva nell’ “espropriare i latifondisti e i possidenti delle proprietà di cui dispongono grazie all’iniquo privilegio concesso loro da leggi innaturali”. I contatti presi dai rappresentanti di villaggio, in occasione di visite all’Archivio Generale (per avere copia di titoli di possesso comunali) – oltre che tra di loro anche con la stampa operaia, come “El Socialista” e “Hijo del Trabajo”, con il colonnello anti-porfirista Alberto Santa Fe e con membri del gruppo La Social –innescarono altri metodi di lotta, fuori della legalità. Così, poiché il governo porfirista non prestava orecchio alle loro petizioni, alcuni villaggi del Guanajuato e del Querétaro smisero di confidare nella legge e decisero di aderire alla “Rivoluzione Sociale” promossa dal Direttorio Socialista della Confederazione Messicana. Il primo giugno del 1879, a Santa Cruz Barranca (nel Guanajuato) fu proclamato il Piano Socialista dei Rappresentanti dei Villaggi degli Stati di Querétaro e Guanajuato, sottoscritto da 36 villaggi.
Interpellato sul Piano Socialista, il governo del Querétaro negò che nello Stato fosse in atto una sollevazione armata contro le autorità federali o statali, negando l’esistenza di una località chiamata La Barranca. Negò perfino che vi fossero controversie relative al possesso delle terre. Ammise solo l’esistenza di una disputa tra Andrés Fernández, proprietario della tenuta La Muralla, e gli abitanti del villaggio di San Ildefonso, nel distretto di Amealco. Ma la disputa era stata “risolta in modo molto soddisfacente grazie al buon senso del cittadino Prefetto Rafael Velarde e alla generosità dei proprietari fondiari”. Per contro, il giornale anti-porfirista di Città del Messico “El Combate”, oltre a riprodurre il Piano Socialista, faceva salire a milletrecento uomini il numero di rivoltosi della Sierra Gorda. In effetti, una di queste sollevazioni contadine ebbe luogo nel distretto di Cadereyta. Non appena giunse notizia che “una banda di comunisti” scorazzava nella zona, il 5 ottobre 1879 “La Sombra de Arteaga”, organo ufficiale dello Stato, informava che forze federali e milizie di possidenti, un centinaio di uomini ben armati, avevano inseguito e impegnato in combattimento ventisei uomini male armati, che disponevano di quattro fucili, una pistola, quattro baionette, una spada e un machete7. Vennero catturati  nove guerriglieri, di cui quattro feriti. Va segnalato che i rivoltosi erano capeggiati dall’anarcosindacalista Félix Rodriguez, compagno di Plotino Rhodakanaty. Alcuni giorni dopo “La Sombra de Arteaga”scriveva che la pace regnava nello Stato e che “i comunisti erano stati sconfitti” . Le autorità del Querétaro non sapevano nulla delle attività dei ribelli e dei loro rapporti con il Centro Socialista dello Stato del Guanajuato, i cui principali dirigenti erano José Jiménez e Antonio Guevara (rappresentante del villaggio di Buenavista), tutti e due con il grado di autorità e agli interessi delle persone”. Nel corso dell’istruttoria presso il Tribunale distrettuale, l’anziano Antonio Guevara si assunse ogni responsabilità e dichiarò che i suoi coimputati non avevano nulla a che fare con la rivolta; questi, per parte loro, affermarono che non erano “immischiati in faccende rivoluzionarie”. Data l’insufficienza delle prove, il giudice istruttore concesse loro la libertà provvisoria. Alcuni di loro, tuttavia, continuarono a dedicarsi al progetto rivoluzionario perché “stanchi di reclamare il loro diritto indiscutibile alla terra. Ora non possono più neppure seminare un pugno di mais né tagliare un poco di legna, perché i possidenti non glielo permettono e non gli pagano neanche il loro lavoro se non con buoni validi per lo spaccio aziendale”. Un anno dopo un avvenimento venne a rompere la “pace sociale” del Querétaro. La mattina del 19 ottobre 1882 una trentina di rivoltosi, guidati dal colonnello José Jiménez, prese d’assalto la tenuta Tlacote El Bajoe requisendo armi, cavalli, denaro e merci dello spaccio. Negli scontri morì l’amministratore Manuel Guerriero e furono feriti due impiegati, uno dei quali morì giorni dopo. Poi i guerriglieri si diressero a Obrajuelo, dove assaltarono e depredarono l’allevamento El Capote. La repressione fu immediata. Incaricata di dare la caccia agli insorti fu la Gendarmeria rurale che a El Sancillo ne catturò cinque, di cui quattro feriti, recuperando cavalli e beni vari. Vennero inoltre arrestati numerosi braccianti di tenute vicine a Tlacote e altri ancora ad Apasco. Alla fine la maggior parte degli assalitori venne incarcerata. La stampa li trattò da criminali comuni, ma nel contempo incolpò in toto il movimento socialista. Dopo più di un anno e mezzo di ricorsi, respinto anche l’appello alla Suprema Corte di Giustizia, i colonnelli dell’ Esercito del Popolo Antonio Guevara, José Jiménez e Agustín Ramirez vennero condannati a morte per rapina e omicidio. Furono fucilati sull’alameda [viale alberato] della città di Querétaro il 16 giugno 1884 alle 7 della mattina, “con grande concorso di pubblico”. Due anni dopo, però, le autorità si resero conto della rivolta che covava. Nel marzo del 1881 il capo della polizia Rómulo Alonso fece arrestare “per delitto di sedizione” Antonio Guevara, Agustín Rodriguez, José Jiménez e altre otto persone. Li aveva fatti arrestare dopo esser stato informato che nei villaggi di San Antonio de la Punta, San Miguel Carrillo, Santa Maria e San Pablo si stava preparando un piano rivoluzionario.  



giovedì 4 maggio 2023

Frammenti di rivolta

Il potere non è nel Parlamento o in un qualsiasi altro luogo della politica, esso è riassorbito nelle infrastrutture che ci circondano, nelle corporation e nei dispositivi che gestiscono la vita quotidiana, esso è dunque diffuso perché è locale esattamente come locali sono le forme di vita. La manipolazione delle sensibilità che l’Impero managerializza globalmente attraverso l’immenso reticolo di dispositivi comunicativi può essere contrastata ed eventualmente deposta non tanto, banalmente, attraverso l’uso alternativo degli stessi dispositivi, ma facendo consistere localmente un territorio che entra in secessione, inaugurando così una sperimentazione senza fine. Se è vero che la metropoli è di fatto la concentrazione dei dispositivi di controllo e di produzione, ormai indistinguibili tra loro, allora è evidente il perché la tensione insurrezionale si giochi oggi tra rifiuto e secessione, tra distruzione e esodo dalla metropoli, così come d’altra parte l’attività sovversiva del secolo scorso agì nei confronti della fabbrica. La condizione esistenziale che comunemente ci troviamo a vivere non può essere definita attraverso la posizione che si occupa nel mercato, nel consumo o nel lavoro ma può essere approssimata a partire dallo stato di spossessamento che condividiamo a livello della vita stessa, del linguaggio e persino dei sogni: non si può opporre all’economia politica un’altra economia politica, in compenso possiamo opporre all’economia una decisa politica dell’abitare che non è affatto difficile scorgere nelle piazze occupate dell’euro-mediterraneo o in qualche vicino esperimento di condivisione dell’esistenza. Per chi vuole organizzarsi in questo tempo sono quindi almeno due le dimensioni a partire dalle quali questo è possibile: sia localmente, costruendo le condizioni materiali e spirituali della secessione – comuni, basi rosse/nere, buchi neri nella metropoli – sia globalmente, costruendo quelle di una nuova Internazionale nella quale i frammenti dispersi acquisiscano una giusta configurazione strategica. Il comunismo libertario oggi forse non significa altro che l’arte di comporre questi frammenti insurrezionali in un divenire-rivoluzionario.


IL MUCCHIO SELVAGGIO - Sam Peckinpah

Amo gli emarginati. Guarda, a meno che non ti adatti o ti arrenda completamente, finirai col restare solo in questo mondo. Ma arrendendoti, perdi la tua indipendenza di essere umano. Quindi sono con i solitari. Non sono nient’altro che un romantico e ho questa debolezza per i perdenti in generale, una specie di umile affetto per tutti i disadattati e i vagabondi del mondo. Nel West non ci sono eroi. C’è solo gente che ha paura della vita.” (Sam Peckinpah)

Rapinato un ufficio postale, Pike Bishop e la sua banda si accorgono di essere caduti in un tranello messo in piedi da Hurrigan, che ha interesse a liberare la zona dai banditi. Hurrigan ha assoldato un gruppo di ex-galeotti, capeggiati da Dick Thornton, che comincia a sparare contro Pike e i suoi. Riuscito a salvarsi, Pike raggiunge, con cinquanta uomini, la città messicana di Aguaverde, base delle truppe regolari in lotta contro Pancho Villa. Le comanda un ex killer, Mapachi, autoproclamatosi generale. Con lui, Pike si accorda per assaltare, in cambio di diecimila dollari, un treno statunitense carico d'armi. L'impresa ha pieno successo nonostante l'intervento di Thornton e dei sui - che non hanno mai messo di inseguire Pike, ma quando Mapachi si accorge che uno dei banditi, Angelo, si è tenuto una cassa per sé, allo scopo di consegnarla agli indios in rivolta, lo sottopone a terribili torture e, infine, lo uccide sotto gli occhi dei suoi compagni. Per vendicarlo, i suoi  compagni si schierano contro i “regulares” governativi: compiranno una strage, ma ne rimarranno anch'essi vittime. Cinico e impietoso come sempre, Sam Peckinpah realizzò un  film-manifesto  sul tramonto del western e dei suoi miti, facendo del degrado e dello squallore i temi essenziali del racconto. «Il  mucchio selvaggio» è un sanguinoso  affresco in chiave di tragedia, che  culmina  nella carneficina, in  una delle sequenze più frenetiche e cruente dell'ultimo cinema  americano. L'uso del «ralenti» nelle scene delle uccisioni,  combinato con il ricorso ad un montaggio convulso, ci consegna delle immagini di morte strazianti e indimenticabili. Una crudele descrizione di un universo di «perdenti», che proprio nella smitizzazione dei più  consunti  prototipi  western entra di diritto nella leggenda del genere. La questione della violenza nel cinema di Sam Peckinpah. I sintomi, ora morbidi ora acuti, affiorati nella storia dei film precedenti, sono esplosi con la forza di una vera eruzione espressiva; e  dietro le nervature aggrovigliate dell'organismo

de Il mucchio selvaggio pulsa costante la lucida ossessione degli effetti, intollerabili ed eccitanti insieme,  provocati da un  perpetuo e barbaro deflagrare della violenza. La violenza in sé, quella che si va a praticare con un semplice «Why not?» (Perché no?) e che viene addirittura sublimata nelle apocalittiche stragi che aprono e chiudono il film, quella la cui acme disastrosa merita di essere fissata in un  angoscioso ralenti, quella che affascina la spontanea, demoniaca  crudeltà dei bambini, quella che permette il traboccare dell'ultimo impulso di dignità morale dalle zone piti oscure del subconscio, la violenza pubblica (guerra  civile) che si congiunge senza soluzioni di continuità a quella privata dei gunfighters, vittime a loro volta della violenza oggettiva di una crisi sociale in atto che ora li blandisce, ora li respinge. 

Per realizzare la battaglia finale de Il mucchio selvaggio, ci ho messo tre mesi di preparativi, disegnando ogni cosa sino ai minimi particolari; ma una volta arrivato sul set ho cambiato radicalmente, girando in appena nove giorni soltanto perché il lavoro di preparazione era stato tanto  accurato. Tutto è stato organizzato in funzione degli attori e della loro posizione nell'inquadratura; io stesso mi mettevo al posto di ciascun personaggio prima di girare le sequenze definitive, cosicché ho perso nove chili in questi nove giorni! Insieme ad un'eccellente équipe di ventiquattro cascatori professionisti, studiavo la messinscena fisica di ogni inquadratura prima di realizzarla tecnicamente. È molto importante per me che le ultime inquadrature del film, mostrando l'esodo degli abitanti del villaggio, si contrappongano all'esplosione della violenza, perché quello che mi turba nelle guerre è scoprire che il popolo, i poveri, sono sempre le vittime di una violenza che all'origine non li riguardava affatto. E tengo molto anche alle sovrimpressioni finali, che invece mi hanno rimproverato, perché concludendo sulle immagini dei killer che vivono e ridono tranquillamente, io ricordo allo spettatore - che vorrebbe dimenticarlo - che si tratta di gente simile a lui”. (Sam Peckinpah)



Gli anarchici e l’emigrazione italiana in Brasile

L’esodo delle masse lavoratrici europee che nella seconda metà dell’800 emigrarono nelle Americhe portò con sé tutti quegli elementi culturali che contraddistinguevano le popolazioni che ne furono protagoniste, compresa quella serie di apparati filosofici e ideologici sorti dopo la Rivoluzione francese, fra cui spiccavano per importanza e diffusione il socialismo e l’anarchismo. Chi professava in patria queste dottrine era spesso soggetto alla persecuzione delle oligarchie dominanti e “l’esilio” nelle Americhe poteva rappresentare una valida alternativa al carcere. Questo esilio, più o meno volontario, degli attivisti anarchici europei era spesso visto di buon occhio dagli stessi governanti, che potevano considerare l’emigrazione come un’ottima valvola di sfogo per alleggerire la pressione sociale in Europa. Per quanto riguarda gli italiani, l’emigrazione di massa nei primi anni si diresse maggiormente verso l’America Latina, e in modo particolare verso il Brasile. Accadde così che numerosi piccoli intellettuali della penisola, militanti di ideologie ritenute sovversive o in qualche modo foriere di rinnovamento sociale, si ritrovassero nel Paese sudamericano a svolgere la propria propaganda in un contesto completamente nuovo, in cui le oligarchie dominanti erano costituite essenzialmente dalla nobiltà di origine coloniale (ma non solo), mentre gli strati socialmente più bassi della popolazione erano formati dai nativi, spesso ex schiavi neri, a cui si aggiungevano gli emigrati di origine europea. Nella città di São Paulo la propaganda anarchica veniva svolta tramite conferenze, dibattiti, rappresentazioni teatrali di carattere didattico (i testi più frequentemente rappresentati erano i drammi di Pietro Gori, benché anche i militanti locali producessero una discreta quantità di letteratura didascalica), ma soprattutto tramite la redazione di giornali e foglietti di propaganda. Nel periodo che va dal 1892 al 1920 si contano più di venti differenti testate italiane dichiaratamente  anarchiche, alcune delle quali ebbero durata pluriennale, come a “La Birichina”, “La Battaglia” o “La Lotta Proletaria”. Il tentativo di coinvolgere il proletariato in forme di lotta collettiva si scontrava fondamentalmente con due difficoltà, una endogena e l’altra esogena rispetto alla società brasiliana. La prima era costituita dalle caratteristiche premoderne dei rapporti di lavoro nelle fazendas brasiliane (le piantagioni di caffè): la proprietà della terra era fortemente concentrata e i latifondisti, ancora in possesso di una mentalità schiavista (l’economia caffeicola brasiliana si era fondata sul lavoro servile fino alla sua definitiva abolizione, avvenuta solo nel 1888), esercitavano un potere assoluto di stampo feudale nei propri possedimenti. La visione classista della società propugnata dagli anarchici veniva da questi additata come priva di fondamento, una “pianta esotica” portata da pochi agitatori europei in una realtà che non rispondeva a questa lettura. La seconda difficoltà era data dalle aspettative di arricchimento ed emancipazione individuale che gli immigrati in generale avevano, e la scarsa ricettività che un messaggio di rinnovamento sociale da attuare attraverso una lotta collettiva poteva avere presso di loro, per lo meno nei primi anni di emigrazione di massa. Per questo l’opera degli attivisti anarchici fu efficace quando riuscì a inserirsi nelle dinamiche più quotidiane del proletariato, sostituendo con la pratica collettiva dell’azione diretta (scioperi, boicottaggi, danneggiamento dei mezzi di produzione) le pratiche convenzionali con le quali il contadino (divenuto operaio nelle fabbriche di São Paulo) era solito affrontare le avversità dell’esistenza, in particolare le pratiche religiose, la ricerca di sicurezza nel clan familiare e le prospettive individuali di ascesa sociale.



lunedì 1 maggio 2023

Inno del Primo Maggio

Come accadde a gran parte dei canti sociali, proprio la melodia del Va pensiero, così nota e amata, fu scelta da Pietro Gori per comporre il suo Inno del Primo Maggio, un canto ormai praticamente dimenticato, ma che per decenni fu uno fra quelli più conosciuti ed eseguiti, presente non solo nei canzonieri anarchici, ma anche in quelli socialisti e comunisti. Pietro Gori lo scrisse nel 1892, rinchiuso nel carcere di S. Vittore, “... per ingannare la solitudine durante una delle molteplici prigionie preventive da me subite all’avvicinarsi del mese sobillatore degli animi e delle cose...”. Il canto era inserito in un bozzetto drammatico in un atto dal titolo Primo Maggio ed eseguito alla fine del Prologo da un coro. Questo bozzetto fu rappresentato sulle scene delle città toccate da Gori durante un suo viaggio negli Stati Uniti tra il 1895 e il 1896, ottenendo un tale successo che la messa in scena si trasferì anche in Italia. La prima esecuzione conosciuta risale al 1897, a Torino, alla Barriera di Lanzo. Sempre dall’ambiente operistico derivano altri due canti sul primo maggio: Primo maggio di Ernesto Maiocchi sulle musiche dell’Ernani e il Coro del primomaggio di Cesare Airoldi, sempre sull’aria del Va pensiero. L’Inno del Primo Maggio di Pietro Gori non solo conserva l’impianto musicale del Nabucco, ma anche il lessico presenta una chiara influenza dal melodramma: il linguaggio è aulico, ricco di termini retorici e immagini magniloquenti, ma ben connesso all’andamento musicale. Come quando la melodia si apre a sei voci, con una costruzione di grande efficacia, e il testo s’innesta con il grido di “disertate o falangi di schiavi”. Forte, ancora oggi, di una sua energia e capacità di attrazione.

Vieni, o Maggio t’aspettan le genti

ti salutano i liberi cuori

dolce Pasqua dei lavoratori

vieni e splendi alla gloria del sol.

Squilli un inno di alate speranze

al gran verde che il frutto matura

a la vasta ideal fioritura

in cui freme il lucente avvenir.

Disertate o falangi di schiavi

dai cantieri da l’arse officine

via dai campi su da le marine

tregua tregua all’eterno sudor!

Innalziamo le mani incallite

e sian fascio di forze fecondo

noi vogliamo redimere il mondo

dai tiranni de l’ozio e de l’or.

Giovinezze dolori ideali

primavere dal fascino arcano

verde maggio del genere umano

date ai petti il coraggio e la fè.

Date fiori ai ribelli caduti

collo sguardo rivolto all’aurora

al gagliardo che lotta e lavora

al veggente poeta che muor!