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giovedì 29 aprile 2021

Gli ultimi anni di Michail Bakunin

II 1° settembre 1873 si apriva a Ginevra il sesto congresso generale dell'Internazionale: le Federazioni del Belgio, dell'Olanda, dell'Italia, della Spagna, della Francia, dell'Inghilterra, e del Giura svizzero vi erano rappresentate; i socialisti lassalliani di Berlino avevano mandato un telegramma di simpatia firmato da Hasenclever e  Hasselmann. Il congresso si occupò della revisione degli statuti dell'Internazionale; pronunciò la soppressione del Consiglio generale, e fece dell'Internazionale una libera federazione che non aveva più alla sua testa alcuna autorità dirigente: «Le Federazioni e Sezioni che compongono l'Associazione, dicono i nuovi statuti (articolo 3), conservano la loro completa autonomia, cioè il diritto di organizzarsi secondo la loro volontà, di amministrare i loro affari senza alcuna ingerenza esterna, e di decidere essi stessi la via che intendono  seguire per giungere all'emancipazione del lavoro». Bakunin era affaticato da una lunga vita di lotte; la prigione lo aveva fatto invecchiare prima del tempo, la sua salute era seriamente scossa, ed egli aspirava ora al riposo ed alla solitudine. Quando vide l'Internazionale riorganizzata con il trionfo del principio di libera federazione, pensò che era giunto il momento in cui poteva congedarsi dai suoi compagni, ed indirizzò ai membri della Federazione giurassiana una  lettera (pubblicata il 12 ottobre  1873) per pregarli di voler accettare le sue dimissioni da membro della Federazione giurassiana e da membro dell'Internazionale, aggiungendo: «Non mi sento più le forze necessarie per la lotta: non saprei dunque  essere nel campo del proletariato che un ostacolo, non un aiuto. Mi ritiro dunque, cari compagni, pieno di riconoscenza per voi e di simpatia per la vostra grande e santa causa, la causa dell'umanità. Continuerò  a seguire con fraterna ansietà  ogni vostro  passo, e saluterò con gioia ogni vostro nuovo trionfo. Fino alla morte, sarò dei vostri». Non aveva più che neppure tre anni di vita. Il suo amico, il rivoluzionario italiano Carlo  Cafiero, gli diede ospitalità in una villa che aveva acquistato vicino a Locarno. Là, Bakunin visse fino alla metà del 1874,  esclusivamente assorbito, sembrava, da questo nuovo genere di vita, nel quale trovava infine la tranquillità, la sicurezza ed un benessere relativo. Tuttavia, egli non aveva cessato di considerarsi un soldato della Rivoluzione; i suoi amici italiani avevano preparato un movimento insurrezionale, ed egli si recò quindi a Bologna (luglio 1874) per prendervi parte: ma il movimento, mal organizzato, finì male, e Bakunin dovette ritornare in Svizzera, travestito. Bakunin non era più, nel  1875, che l'ombra di se stesso. Nel giugno 1876, nella speranza di trovare qualche sollievo ai suoi  mali, lasciò Lugano per  recarsi a Berna; arrivandovi, il 14 giugno, disse al suo amico il dottor Adolf Vogt: «Vengo qui perché tu mi rimetta in sesto, o per morirci». Spirò il 10  luglio, a mezzogiorno.


BLACK MAN – Stevie Wonder

Il primo uomo a morire

per le bandiere che noi adesso teniamo alta

era un uomo nero; 

il suolo dove adesso noi siamo 

con la bandiera in mano 

era prima di un uomo rosso; 

guida di una nave 

nel primo viaggio di Colombo 

era un uomo marrone 

i treni passano su rotaie 

che fuorno poste dall'uomo giallo. 

Noi giuriamo fedeltà 

tutta la nostra vita 

ai magici colori 

rosso, blu e bianco 

ma a tutti noi deve essere data 

la libertà che difendiamo 

perché quando la giustizia 

non è per tutti gli uomini. 

la storia si ripete, 

è ora che si impari 

che il mondo è stato fatto per tutti gli uomini. 

 L’operazione al cuore fu fatta

per la prima volta con successo da un uomo nero; 

l’uomo amichevole che morì, 

ma che aiutò i pionieri a sopravvivere

 fu un uomo rosso;

i diritti del contadino

 furono portati a nuove vette da un uomo marrone; 

 la luce incandescente 

fu inventata per dare nuove vedute dall'uomo bianco. 

Giuriamo alleanza 

tutta la nostra vita 

ai magici colori

bianco, rosso e blu  

ma a tutti noi deve essere data 

la  libertà che difendiamo 

perché se la giustizia non è per tutti 

la storia si ripete, 

è ora di imparare che il 

mondo è per tutti gli uomini.


La caduta dell'impero della merce

La caduta dell'impero della merce non produrrà niente di più lamentevole della caduta nella disumanità che segna i suoi esordi. Ciò che è alla fine è anche all'inizio. Una rovina ne nasconde un'altra: dietro il crollo del capitalismo monopolistico e di Stato viene meno l'intera civiltà mercantile, secondo un naufragio programmato da lunga data. Le favole arcaiche che profetizzavano la morte degli dei in un annientamento universale si ricongiungono oggi nel pantheon della vita assente con l'Aurora nucleare, il macello della Gran Sera e della Notte mortifera in cui l'amarezza gira in tondo. La fine dell'impero dell'economico non è la fine del mondo, ma la fine del suo dominio totalitario sul mondo. Tutti sanno, tuttavia, che una tirannia defunta continua ad uccidere. Non la gioia di vivere nè l'esuberanza creativa, bensì la paura è la risposta all'evidenza di una mutazione benefica. Una paura così intensa che l'economia moribonda vi scova ancora di che rifornire un mercato, il mercato dell'insicurezza, in cui il consumatore, ricondotto alla sua vera natura di minorato e di vegliardo, medica una muscolosa protezione per percorrere freneticamente i circuiti obbligati dell'edonismo consumabile.

Per la maggior parte delle persone esiste un solo terrore da cui tutti gli altri provengono, ed è quello di perdere l'ultima menzogna che li separa da se stessi, di dover creare la propria vita.

 

giovedì 22 aprile 2021

CHI SONO IO? – Michail Bakunin

Io non sono né un sapiente, né un filosofo, neppure uno scrittore di professione. Ho scritto molto poco nella mia vita e non l'ho mai fatto, per così dire, che a malincuore, e soltanto quando un'appassionata convinzione mi forzava a vincere la mia ripugnanza istintiva  verso qualsiasi  esibizione del mio io in pubblico. Chi sono io dunque, e cos'è che mi spinge ora a pubblicare questo lavoro? Io sono un cercatore appassionato della verità e un nemico non meno accanito delle malefiche funzioni di cui il partito dell'ordine, questo rappresentante ufficiale, privilegiato ed interessato a tutte le turpitudini religiose, metafisiche, politiche,  giuridiche, economiche e sociali, presenti e passate, pretende di servirsi ancora oggi per istupidire ed asservire il mondo. Io sono un  amante fanatico della  libertà, considerandola  come l'unico mezzo   in seno al quale possono svilupparsi e crescere l'intelligenza, la dignità e la felicità degli uomini; non di questa libertà tutta formale,   concessa, misurata e sottoposta a regolamento dallo Stato, menzogna eterna e che  in realtà non rappresenta mai nient'altro all'infuori del privilegio di alcuni fondato sulla schiavitù di tutti; non di   questa libertà individualista, egoista, meschina e fittizia vantata dalla scuola di Rousseau, come da tutte le altre scuole del liberalismo borghese, e che considera quello che essa dice diritto di tutti, rappresentato dallo Stato, come il limite del  diritto di ognuno, ciò che tende necessariamente e sempre alla riduzione a zero del diritto di ognuno. No, io intendo la sola libertà che sia veramente degna di tale nome, la libertà che consiste nel pieno sviluppo di tutte le potenze materiali, intellettuali e morali le quali si trovano allo stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non riconosce altre restrizioni all'infuori di quelle che ci sono tracciate dalle leggi della nostra stessa natura; in guisa che propriamente parlando non vi sono restrizioni, poiché tali leggi non ci sono imposte da qualche  legislatore dal di fuori, il quale si trovi sia accanto, sia al di sopra di noi; esse ci sono immanenti, inerenti e costituiscono la base stessa di tutto il nostro essere, tanto materiale che intellettuale e morale; invece dunque di trovare in esse un limite, noi dobbiamo considerarle come le condizioni reali e come la ragione effettiva della nostra libertà. Io intendo questa libertà di ciascuno, che lungi dall'arrestarsi come di fronte a un limite innanzi alla libertà altrui, vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all'infinito; la libertà illimitata di ognuno per mezzo della libertà di tutti, la libertà per la solidarietà, la libertà nell'uguaglianza; la libertà trionfante sulla forza brutale e sul principio di autorità che non fu mai nient'altro che l'espressione ideale di tale forza; la libertà, che dopo  aver abbattuto tutti gli idoli celesti e terrestri, fonderà e organizzerà un mondo nuovo, quello dell'umanità solidale, sulle rovine di tutte le  Chiese e di tutti gli Stati. Io sono un partigiano convinto dell'uguaglianza economica e sociale, perché so che al di fuori di tale uguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità delle nazioni non  saranno mai nient'altro che menzogne. Ma, pur essendo partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, io penso che l'uguaglianza si debba stabilire nel mondo attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni produttrici liberamente organizzate e federate nelle comuni e attraverso la federazione anch'essa spontanea delle comuni, ma non tramite l'azione suprema e tutelare dello Stato. 


25 APRILE - Dalle belle città (Siamo i ribelli della montagna)


Dalle belle città date al nemico

fuggimmo un dì su per l'aride montagne,

cercando libertà tra rupe e rupe,

contro la schiavitù del suol tradito.

Lasciammo case, scuole ed officine,

mutammo in caserme le vecchie cascine,

armammo le mani di bombe e mitraglia,

temprammo i muscoli ed i cuori in battaglia.


Siamo i ribelli della montagna,

viviam di stenti e di patimenti,

ma quella fede che ci accompagna

sarà la legge dell'avvenir.

Ma quella legge che ci accompagna

sarà la fede dell'avvenir.


Di giustizia è la nostra disciplina,

libertà è l'idea che ci avvicina,

rosso sangue è il color della bandiera,

partigian della folta e ardente schiera. 

Sulle strade dal nemico assediate

lasciammo talvolta le carni straziate.

sentimmo l'ardor per la grande riscossa,

sentimmo l'amor per la patria nostra.


(Di giustizia è la nostra disciplina

Comunismo l'idea che ci avvicina

Rosso sangue il color della bandiera

Partigiana la nostra ardente schiera.


Per le strade dal nemico assediate

Lasciammo assai spesso le carni straziate

Sentimmo l'ardor per la grande riscossa

Sentimmo l'amor per la bandiera rossa.)*


Siamo i ribelli della montagna,

viviam di stenti e di patimenti,

ma quella fede che ci accompagna

sarà la legge dell'avvenir.

Ma quella legge che ci accompagna

sarà la fede dell'avvenir.

*(variazione della seconda strofa più comunista)


Il canto viene creato nel marzo del 1944 sull'Appennino ligure-piemontese, nella zona del Monte Tobbio, dai partigiani del 5° distaccamento della III Brigata Garibaldi "Liguria" dislocati alla cascina Grilla con il comandante Emilio Casalini "Cini". Ad un certo punto avvertiamo la necessità di creare qualcosa che riguardi noi e tutti i giovani dela nostra generazione, esaltandone la Resistenza in aderenza alla realtà della lotta che conduciamo. Sarà la nostra storia e traccerà le dure vicende della vita partigiana e gli ideali che la sostengono. Su questi presupposti Cini prende l'iniziativa e un bel giorno comincia a scrivere delle parole su un foglio di carta biancastra da impaccare; in mancanza di tavolo, utilizza una grossa pietra posta all'ingresso della "caserma", che serviva ai contadini per battervi le castagne, e noi facciamo circolo attorno a lui proponendo e sugerendo vocaboli e argomenti. Dopo alcuni giorni la bozza è stesa. In distaccamento c'è uno studente di musica, ventenne, Lanfranco, al quale viene consegnato il testo delle parole che si porta appresso durante il servizio di sentinella sul monte Pracaban; al ritorno, le note sono vergate su un pezzo di carta da pacchi”. [testimonianza diretta di Carlo De Menech, allora diciottenne commissario politico del distaccamento].

Anarchici antifascisti a Torino

Dopo l’occupazione delle fabbriche a Torino nell’autunno del 1920, l’offensiva fascista diventerà sistematica e coordinata, comandati dal famigerato Pietro Brandimarte i fascisti a Torino assalirono la Camera del Lavoro il 18 dicembre 1922; successivamente protetti e sostenuti dagli ufficiali del regio esercito e dalla polizia, incendiarono e devastarono il circolo dei ferrovieri, il circolo “Calo Marx” e la sede dell’"Ordine Nuovo”. Fra il 18 e 19 dicembre, 22 militanti anarchici, socialisti e comunisti furono uccisi dagli assassini in camicia nera. L’anarchico Pietro Ferrero, legato per i piedi a testa in giù dietro un autocarro, fu trascinato per ore lungo alcuni viali di Torino. Gli assassini abbandonarono poi il suo corpo martoriato nei pressi della Camera del Lavoro. Con l’avvento del fascismo gli anarchici torinesi, costretti alla clandestinità e alla cospirazione, cercarono di ricomporre le fila del Movimento contando solo sulle forze genuinamente anarchiche ancora disponibili alla lotta. Già nell’agosto del 1930 una relazione della Divisione Polizia Politica poteva fare il punto della situazione: secondo la polizia fascista esistevano a Torino tre gruppi anarchici denominati: “ Barriera Nizza, Barriera di Milano, Campidoglio”. Il gruppo “Barriera di Milano” era composto quasi esclusivamente da immigrati toscani, per lo più piombinesi e pisani che, - continua il rapporto – avevano abbandonato “il loro paese nativo allo scopo di sottrarsi ad eventuali misure di polizia, perché noti colà come sovversivi”. Del gruppo facevano parte: Settimo Guerrieri, piombinese (indicato dalla polizia come anarchico da arrestare, irreperibile e come organizzatore di espatri clandestini); Dario Franci, piombinese, anarchico da arrestare, muratore e cultore della lingua esperanto; Arduilio D’Angina, Dante Armanetti, i fratelli Giacomelli, Mario Carpini, i fratelli Vindice e Muzio Tosi, anch’essi piombinesi, anarchici da arrestare. Il gruppo “Barriera di Nizza” era forse il più numeroso, anche se nel rapporto di polizia erano segnalati solo i compagni più esposti, quelli di cui “l’informatore” era venuto a conoscenza. Ne facevano parte: Cesare Sobrito, dal rapporto “elemento molto quotato fra i suoi, perché da diversi anni milita nelle file anarchiche, è in relazione con il noto anarchico Luigi Bertoni di Ginevra ed invia periodicamente corrispondenze sotto lo pseudonimo di Germinal, ai giornali anarchici: Il Risveglio di Ginevra e L’Adunata dei Refrattari di New York”. Emilio Bernasconi, elemento “veramente pericoloso e ritenuto capace di atti inconsulti”. Eugenio Martinelli, “descritto dagli stessi anarchici, come compagno fidato e autorevole”; Michele Candela “incaricato a distribuire sussidi alle famiglie dei detenuti politici”; e Vittorio Levis. La relazione della Divisione Polizia Politica non conteneva nessuna notizia sul gruppo Campidoglio, che evidentemente non aveva nessun infiltrato al suo interno. Il rapporto di polizia prosegue narrando come, per mantenere i contatti tra di loro, gli anarchici dei tre gruppi ricorressero alla compagna Teresa Barattero, venditrice di giornali, con un chiosco posto in corso Dante.   



giovedì 15 aprile 2021

Cafiero tra Engels e Bakunin

Fino alla metà di novembre 1871, i socialisti italiani, occupati a neutralizzare l'influenza mazziniana e a gettare le basi di una futura organizzazione, erano rimasti del tutto estranei alla lotta delle correnti che si svolgeva all'interno dell'Internazionale fra Marx e Bakunin. Quando le risoluzioni marxiane della Conferenza di Londra (La Conferenza di Londra era stata riunita in settembre, in sostituzione di un Congresso generale reso impossibile dalla guerra e dagli avvenimenti parigini), provocarono l'aperta ribellione dei bakuninisti del Giura, che in un congresso a Sonvillier (12 novembre) denunciarono i metodi dittatoriali del Consiglio Generale e l'illegalità della Conferenza, chiedendo l'immediata convocazione di un congresso regolare, l'eco della polemica rimbalzò anche in Italia. Tuttavia va notato che le risoluzioni della Conferenza di Londra, e soprattutto la IX che affermava la necessità della conquista  del potere politico per l'emancipazione  del proletariato, avevano suscitato perplessità e malumore nell'ambiente napoletano, indipendentemente dalla protesta dei giurassiani. Cafiero stesso ne informa Engels: “Qui c'è stata un poco di agitazione per questa benedetta Conferenza... Quella Regola IX la si volle prendere come una  transazione del 3° Considerando dei nostri Statuti. L'idea di un partito politico, sebbene opposto ad ogni altro borghese, scandalizzò e si gridò al tradimento dai borghesi che, entrati nell'Internazionale, s'erano fatti strada sino alla Conferenza”. Pertanto, ad evitare dissidi e “scissure”, Cafiero chiede ad Engels ulteriori istruzioni e delucidazioni, mentre non può fare a meno di esprimere la sua stessa perplessità: “Io poi, che nel Congresso di Roma rimbeccai un mazziniano sull'affare della questione politica ed economica devo confessarvi  che non ne sono stato troppo entusiasmato da quella risoluzione IX che ci accosta indiavolatamente ai mazziniani... trovare  la Conferenza che ci dice implicitamente di  essere andati nel tenerci troppo strettamente legati ai nostri Statuti, è un affare che veramente dispiace”. Bakunin intanto ha deciso di prendere posizione: nelle lettere ai suoi amici vecchi e nuovi, chiarifica i termini del dissenso nei confronti del Consiglio Generale e «inonda» l'Italia  — come confida ad un amico russo — della circolare di Sonvillier. La tattica per l'offensiva che intende sferrare, è scelta con notevole abilità; egli cerca di sfruttare lo stato d'animo di reazione al mazzinianesimo che egli stesso ha contribuito ad alimentare, paragonando il dissidio dei Giurassiani al conflitto che si svolge in seno alla democrazia italiana e ritorcendo contro Marx le stesse accuse che aveva rivolto contro Mazzini: “Mazzini e Marx — scrive infatti — benché molto differenti per altri rapporti sono spinti da un'unica passione: vanità politica che nell'uno è religiosa, nell'altro è scientifica e dottrinaria: il
vanitoso impulso di governare, educare e organizzare le masse secondo le proprie idee
”. E altrove: «La Circolare di Sonvillier è una solenne protesta in nome della libertà, il vero principio dell'Internazionale contro le pretese dogmatiche  e governative del Consiglio Generale di Londra, di cui tutto il compito, secondo lo spirito e la lettera dei nostri Statuti generali, deve limitarsi a quello di un semplice Ufficio Centrale di Statistica e di Corrispondenza ». L'argomento su cui insiste Bakunin è che «l'internazionale non ammette un dogma ortodosso, né teoria ufficiale, né governo centrale. Essa è fondata sull'autonomia, sullo sviluppo spontaneo, sulla libertà delle opinioni, sulla federazione  libera delle associazioni operaie. L'unità dell'Internazionale non è  basata sulla uniformità di una teoria ufficiale o di un dogma, come nella chiesa di  Mazzini». La libertà da ogni imposizione ideologica e dottrinale che era stato il leit-motiv della polemica contro Mazzini, diviene ora il motivo centrale della polemica contro  Marx. E i neo-internazionalisti italiani che si sono appena liberati della soggezione ideologica di Mazzini, non erano certo propensi a sacrificare la conquistata  autonomia di giudizio: impostata la questione in tal senso, non c'era da dubitare del successo di Bakunin. A nulla valgono i tentativi di conciliazione di Cafiero, le acrobazie interpretative che questi compie  nell'illustrare la famosa Risoluzione IX, le sue esortazioni velate ad Engels di non irrigidire e aggravare il contrasto: Engels non ne tiene conto e sconfessa pubblicamente  Bakunin, in un articolo sulla Roma del Popolo (L'occasione di sconfessare  Bakunin era stata offerta ad Engels da un articolo di Mazzini sulla Roma del Popolo (16 novembre 1871) che citava come «documenti dell'Internazionale» alcune dichiarazioni di Bakunin, anteriori alla sua ammissione nell'AIL. Engels nega la responsabilità dell'Internazionale per ogni dichiarazione «individuale» al di fuori dei documenti ufficiali e accusa Bakunin di voler sostituire al programma dell'Internazionale un programma «stretto e settario». La lettera di Engels comparve anche sulla Puebe il 12 dicembre, oltre che sulla Roma del Popolo 21 dicembre). L'articolo fu giudicato «eminentemente impolitico» da Cafiero, che rimproverò Engels di aver tirato «il primo colpo di una battaglia che non si può calcolare come finirà». Bakunin dal canto suo intensificò le sue pressioni affinché senza equivoci di sorta, i gruppi italiani dichiarassero la loro adesione ai dissidenti del Giura, e alla fine del  '71, raggiunse questo obiettivo: il Fascio Operaio di Bologna, intorno al quale ruotavano numerosi nuclei in tutta la Romagna, La Società Emancipazione del proletariato di Torino, La Federazione operaia napoletana, la Sezione Girgentina, il «Gruppo internazionalista» di Milano, facente parte del Circolo Operaio, i centri più importanti del nascente schieramento internazionalista italiano, si erano pronunciati a favore dei dissidenti del Giura per la convocazione anticipata di un Congresso generale. Cafiero stesso interrompe la sua corrispondenza con Engels e la riprenderà dopo parecchi mesi, ma solo per informare Engels della sua conversione all'anarchismo. 




IL GUARDIANO DELLE MACCHINE – Sante Notarnicola

Venni dal Sud

con la mia valigia di cartone

Il padrone

gettò al volo cinquanta lire

al guardiano delle macchine:

“Tieni ragazzo, divertiti!”

Le cinquanta lire rotolarono

sull’asfalto fermandosi

vicino ad un tombino.

Soddisfatto il padrone

entrò nell’Hotel

con la sua puttana.

Guardai la moneta

allungai il piede

spingendola nel buco.

Pioveva. Lunga,

lunga la strada

per la periferia. Quella

sera non presi il tram,

mi mancavano cinquanta lire.

Venni dal Sud 

con la mia valigia di cartone

(S. Vittore 25 marzo 1970)




Nasce una nuova figura nel mondo che sta cambiando

Il mondo sta cambiando, dovremo deciderci ad abbandonare   senza riserve i concetti fondamentali attraverso cui abbiamo finora rappresentato i soggetti del politico: l'uomo e il cittadino coi loro diritti, ma anche il popolo sovrano, il lavoratore, eccetera, e a ricostruire la nostra filosofia politica a partire da una nuova figura. O meglio, una figura la quale sarà la fusione tra rifugiato, fuggiasco, fuggitivo, "traditore", disertore, scopritore e creatore. a prassi del rifugiarsi come pratica non definitoria, pratica dell'imbastardimento, ossia come creazione. Colui che si rifugia non possiede un territorio definito ma abita le frontiere. Fugge, scopre e crea. Ci sono dunque delle analogie tra il rifugiato che trasgredisce il confine e il rivoluzionario che trasgredisce le frontiere attraversandole e meticciandole. 

La trasgressione dei confini esistenti e la contestazione degli stessi possono ispirare una nuova forma di cittadinanza, che permetta la  coabitazione di diversi, che consenta alle singolarità di fare comunità senza rivendicare un'identità, e agli uomini di co-appartenere senza una rappresentabile condizione di appartenenza. 

Così come i mondi, anche i nostri luoghi di enunciazione interiore hanno le proprie geografie. Le transculture non temono nessuna geografia. La ricerca dei continenti inesplorati deve portare tino alla vertigine in cui ribolle la materialità e l'immaterialità della vita, come ci hanno insegnato i surrealisti. Ci deve essere una biologia per scatenare le forze degli esseri, e le relazioni tra loro, senza usare le inservibili pratiche della vecchia politica, così come c'è, nella medicina cinese, una tecnica per guarire parti del corpo, toccando  punti sull'estensione del corpo stesso, lontani dalle parti da curare.


giovedì 8 aprile 2021

Bakunin e la rivoluzione del Febbraio 1848 a Parigi

La rivoluzione di Febbraio scoppiò. Non appena seppi che ci si batteva a Parigi, mi feci prestare, per far fronte ad ogni evenienza, un passaporto da una persona di mia conoscenza e mi misi in viaggio per Parigi. Ma il passaporto non serviva: «La Repubblica è proclamata a Parigi», tali furono le prime parole che abbiamo sentito alla frontiera. A questa notizia, sentii come un brivido; arrivai a piedi a Valenciennes, essendo stata distrutta la ferrovia; ovunque la folla, delle grida d'entusiasmo,  bandiere rosse in tutte le strade, in tutte le piazze e su tutti gli edifici pubblici. Fui costretto a fare un lungo giro, essendo la ferrovia impraticabile in molti punti, ed arrivai a Parigi il 26 febbraio, tre giorni dopo la proclamazione della Repubblica. Già lungo il mio cammino tutto mi entusiasmava. Questa città enorme, il centro della cultura europea, era improvvisamente diventata un Caucaso selvaggio: in ogni strada, quasi ovunque, delle barricate erette come montagne e che giungevano fino ai tetti; su queste barricate, tra i sassi ed i mobili ammucchiati, come dei Georgiani nelle loro gole, operai con divise pittoresche, neri di polvere e armati fino ai denti; dei grossi bottegai con la faccia inebetita dallo spavento, guardavano paurosamente dalle finestre; nelle strade, sui viali, non una sola vettura; scomparsi, tutti i vecchi mascalzoni, tutti gli odiosi damerini con l'occhialetto e la bacchetta e, al loro posto, i miei nobili operai, le masse entusiaste e trionfanti che brandivano le bandiere rosse, cantando canzoni patriottiche, inebriati dalla loro vittoria! Ed in mezzo a questa gioia senza limiti, a questa ebbrezza, tutti erano talmente dolci, umani, compassionevoli, onesti, modesti, educati, amabili e spirituali, che simili cose si possono vedere solo in Francia, anzi solo a Parigi. Successivamente, per più di una settimana, abitai con degli operai la caserma della rue de Tournon, a due passi dal Palazzo del Lussemburgo; questa caserma, prima riservata alla guardia municipale, era diventata allora, come molte altre, una fortezza repubblicana che serviva da accantonamento all'armata di Caussidière. Ero stato invitato a sistemarmi là da un mio amico democratico che comandava un distaccamento di cinquecento operai. Ebbi dunque così l'occasione di vedere gli operai e di studiarli dal mattino alla sera. Mai e da nessuna parte, in alcun'altra classe sociale, ho trovata tanta nobile abnegazione, né tanta onestà veramente commovente, tanta delicatezza di modi e tanta amabile allegria unita ad un simile eroismo, se non in questa gente semplice, senza cultura, che  è sempre valsa e che varrà sempre  mille volte di più dei suoi capi! Questo mese passato a Parigi fu un mese di ebbrezza per l'anima. Non ero io solo l'ebbro, ma lo erano tutti: gli uni per la folle paura, gli altri per la folle estasi, fatta di speranze insensate. Mi alzavo alle cinque o alle quattro del  mattino, mi coricavo alle due, rimanendo in piedi tutto il giorno, andando a tutte le assemblee, riunioni, circoli, cortei, passeggiate o dimostrazioni; in una parola, aspiravo con tutti i miei sensi e con tutti i miei pori l'ebbrezza dell'atmosfera rivoluzionaria. Era una festa  senza inizio e senza fine; vedevo tutti e non vedevo nessuno, in quanto ogni individuo si perdeva nella stessa folla innumerevole ed errante; parlavo a tutti senza ricordarmi né le mie parole né quelle degli altri, poiché l'attenzione era assorbita ad ogni passo da fatti e da oggetti nuovi, da notizie inattese.

 

UNA SOCIETÀ LIBERA

Una società libera dai condizionamenti economici è più che mai una società libera dai condizionamenti politici, quindi emancipata tanto dallo Stato quanto dal mercato. È una  società senza cariche elettive, senza decisori né assessori, senza dirigenti né esperti, che deve funzionare al di fuori della politica professionale e dell'economia divenuta autonoma. Questo significa che deve ricreare al suo interno le condizioni non capitaliste sufficienti a garantire delle modalità di funzionamento democratico orizzontale abbastanza solide da rendere possibile un'esistenza senza capitale né Stato. Per citare L'idea generale di rivoluzione nel XIX secolo di Proudhon, essa deve «trovare una forma di transazione che, riducendo a unità la divergenza degli interessi, identificando il bene particolare e il bene generale, cancellando la diseguaglianza della natura per mezzo dell'educazione, risolva tutte le contraddizioni politiche ed economiche; in cui ogni individuo sia ugualmente e sinonimicamente produttore e consumatore, cittadino e principe, amministratore e amministrato; in cui la sua libertà aumenti sempre, senza che egli debba mai alienare nulla; in cui il suo benessere cresca indefinitamente, senza che egli possa subire, da parte della Società e dei suoi concittadini, alcun pregiudizio, né nella  sua proprietà, né nel suo lavoro, né nel suo reddito, né nei suoi rapporti d'interesse, di opinione o di affetto verso i suoi simili».


LA BANDA DEL MATESE

Si era all’8 aprile del 1878 e tra quei bei ragazzi figurava il fior fiore del  futuro movimento anarchico  italiano:  Florido Matteucci, che nelle carceri di Benevento studia lingue: inglese, spagnolo, tedesco; Errico Malatesta che prepara la relazione sulla spedizione da inviare alla commissione di corrispondenza della Federazione italiana; il russo Sergej Kravanskij, futuro attentatore del generale Mezencov, capo della gendarmeria dello zar (Pietroburgo, 4 agosto 1878), che studia Marx, Comte, Ferrari e in nove mesi di carcere impara perfettamente l'italiano, mentre Carlo Cafiero traduce di slancio e compendia il primo libro del Capitale di Marx basandosi   su un'edizione francese, lavoro che sarà apprezzato dall'autore per l'efficacia divulgativa. Ora lasciamo la parola al corrispondente de "Il Corriere del Mattino" (28 agosto 1878): “Sono ventisei gli imputati, molti giovanissimi, parecchi operai: tutti con precedenti di vita onesta, qualcuno interessantissimo per varietà di casi, per costanza della sua fede, per virtù grande di abnegazione e  di coraggio. Carlo Cafiero ha appena trent'anni. E alto e ben disposto della persona, bello del volto, con modo elegante ed  attraente; parla benissimo anche l'inglese, il francese e il russo. Errico Malatesta è un giovane di  24 anni, piccino, bruno, con due occhi nerissimi, pieni di fuoco: tutto energia, tutto intelligenza, è anch'esso, come il Cafiero, un carattere”. 

Che   avevano mai fatto gli imputati? Figli ideali del Pisacane, espressione della migliore tradizione    meridionale che si oppone al fatalismo e all'ignavia, essi hanno organizzato una spedizione che ha   portato tra il Lazio e il Molise la  parola dell'anarchia e del comunismo. I contadini hanno accolto entusiasti gli “internazionalisti” venuti ad abolire le tasse, il macinato, il servizio militare. E senza spargimento di sangue. Ecco la dichiarazione rilasciata a un segretario comunale: “Noi qui sottoscritti dichiariamo aver occupato il municipio di Letino armata mano in nome della rivoluzione Sociale, oggi  8 aprile  1877.  Carlo  Cafiero, Errico Malatesta, Pietro Cesare Ceccarelli". 

Cafiero sale sul basamento di una croce che sovrasta la piazza e sotto una grande bandiera rossa e nera spiega alla folla i principi dell'anarchia. Viene decretata la fine della monarchia, incendiato l'archivio comunale per distruggere i titoli di proprietà, i registri delle tasse, ipoteche, enfiteusi, ogni foglio di carta bollata che reca l'aborrito simbolo dello Stato, e guastati i contatori apposti ai mulini  per registrare i giri delle macine, cioè le macchine che  facevano da esattori dell'odiata tassa sul macinato. Lo Stato scatena contro di loro un imponente rastrellamento. L'intero massiccio del  Matese è assediato da dodicimila bersaglieri e fanti. Gli internazionalisti, stremati dal freddo e dalla fame, saranno catturati quasi al completo il 12 aprile. Si scatena, sulla stampa e  nei salotti, al parlamento e al governo, l'isterismo antianarchico. Il primo ministro Nicotera vuole  un linciaggio legalizzato e insiste per una procedura sommaria da parte di un tribunale di guerra. In gioventù questo tipico esponente del trasformismo italiano aveva fatto  parte della spedizione di Sapri con Pisacane, di cui aveva adottata la figlia Silvia. L'avvocato napoletano Carlo Gambuzzi, seguace  di  Bakunin,  intervenne  presso Silvia Pisacane, la quale strappò al Nicotera la promessa   di un processo  regolare. Nel 1878, alla corte d'Assise di Benevento la Banda del Matese fu assolta e scarcerata. (La morte dell'unica vittima, un carabiniere, fu attribuita a causa sopravvenuta).


giovedì 1 aprile 2021

Bakunin e l’anarchismo russo parte seconda

Il primo numero di Narodnoe Delo (La causa del popolo) scritto quasi per intero da Bakunin, nonché il suo Stato e   anarchia ebbero un effetto enorme sulla gioventù russa. Stepniak  afferma come «Bakunin ispirò i giovani rivoluzionari ai cui occhi gli scritti di Bakunin erano il simbolo della rivoluzione». Il conte Pahlen, il Ministro della Giustizia dello Zar, deplorò il fatto che «...gli scritti di Bakunin e Lavrov abbiano avuto un effetto rovinoso sui movimenti   sovversivi in Russia...» incitando i giovani a «commettere crimini contro lo stato». Kropotkin ricorda come nel circolo Caikovsky al quale apparteneva «...i nostri giovani ascoltavano la potente voce di  Bakunin, e l'agitazione dell'Internazionale ebbe un effetto avvincente su di noi...» (Memorie di un rivoluzionario). Bakunin influì decisamente sul movimento radicale russo. Sebbene durante la sua vita non sia nata nessuna organizzazione specificatamente  bakuninista, egli «...ispirò uno spirito rivoluzionario in Russia... in Bakunin i populisti russi cercavano — e trovavano — non tanto una  organizzazione, quanto piuttosto una concezione del mondo che ebbe un effetto profondo e duraturo sul movimento rivoluzionario nel suo insieme...». (Si veda il pionieristico Il populismo russo, di Franco Venturi). Il pamphlet di Bakunin dal titolo Alcune parole ai miei giovani fratelli in Russia, che anticipava Ai giovani di Kropotkin, si rivolgeva agli intellettuali dell'alta e media  borghesia incitandoli a vivere con il popolo e lottare insieme per la sua liberazione: «...per cui, miei giovani amici, abbandonate questo mondo che muore, queste università, queste accademie in cui ora siete rinchiusi e permanentemente separati dal popolo. UNITEVI AL POPOLO...». UNITEVI  AL POPOLO! diventò la parola d'ordine del movimento Narodnik (populista). Vi è in effetti una rassomiglianza sorprendente tra le idee di Bakunin e le tendenze libertarie che emersero dal movimento  populista. L'essenza del populismo (come indica il termine stesso) consiste nella fede costante nella capacità creativa e rivoluzionaria della gente "comune". In contrasto con Marx, i populisti sostenevano che la condizione primaria per un cambiamento sociale stava nella volontà dell'uomo e non già nel modo di produzione. Inoltre, il capitalismo non costituiva la precondizione progressiva indispensabile per la transizione al socialismo e lo stato non era la conseguenza bensì la causa dell'ineguaglianza e dell'oppressione «...sostenevano che era possibile evitare i mali del capitalismo, il dispotismo di un'economia centralizzata o di un governo centralizzato, adottando una struttura  federale composta da unità di produttori e consumatori autogestite...». Il potenziale per una tale società esisteva di già nella comune contadina russa Mir, una federazione di comuni autogestite che si basavano sul pensiero del socialista-anarchico francese Proudhon».  



LOLA CORRE di Tom Tykwer

A Berlino, oggi, Lola e Manni sono innamorati e progettano un futuro insieme. Manni ha un lavoro certo non confortante alle dipendenze di un losco commerciante d'auto per il quale trasporta di nascosto ingenti somme di denaro. Ma all'improvviso nella routine di questo 'incarico' si inserisce un imprevisto: nel tentativo si sfuggire ai controllori sulla metropolitana, Manni dimentica sul mezzo la borsa con 100mila marchi che deve consegnare al capo. Un barbone se ne appropria e sparisce. Disperato, Manni telefona a Lola: se non recupera la borsa entro venti minuti, gli scagnozzi del capo lo uccideranno. Lola invita Manni a mantenere la calma, e intanto pensa a come trovare 100mila marchi. Allora si precipita fuori di casa e comincia a correre per le strade di Berlino. Non c'è tempo da perdere. Va dal padre, direttore di banca, per convincerlo a prestarle la somma, ma lo trova impegnato in una animata discussione con l'amante e ne riceve un seccato rifiuto. Intanto Manni, disperato, decide di rapinare un supermercato e quando arriva Lola è troppo tardi per tornare indietro. Lola lo aiuta a compiere la rapina e i due stanno scappando col bottino, quando irrompono le sirene della polizia. Sembra tutto perduto, ma il caso vuole che la borsa riappaia a risolvere la situazione. O almeno questa è una delle soluzioni possibili. Lola ha venti minuti di tempo per trovare 100.000 Franchi e salvare il suo fidanzato Manni, ma ci sono molte variabili in gioco che la condurranno a tre diversi destini, o meglio tre diverse "corse". Siamo quindi in presenza di tre diversi svolgimenti dei fatidici 20 minuti, che determinano soluzioni diversissime in rapporto ad elementi del tutto casuali. Le prime due soluzioni sono tragiche, l’ultima è a lieto fine.

Si tratta infatti di un film che parte dall’assunto che la realtà è il regno delle infinite possibilità dominate dal caso. E che il casuale mutamento di una sia pure insignificante circostanza può portare ad uno svolgimento completamente diverso della vita. Il film è geniale, perché apre un filone nuovo e scuote le rigide sceneggiature che ci mostrano lo svolgimento di storie già compiute in maniera unidirezionale. Come del resto lo è la vita di ogni essere umano che è una sola ed ha un unico svolgimento. Ma che tuttavia avrebbe potuto essere diversa se certe circostanze si fossero verificate diversamente o se si fossero fatte scelte differenti in alcuni momenti. Ma non tutto è affidato al caso. Al contrario molto dipende dalla volontà e dalla determinazione dei due protagonisti, soprattutto di Lola, e, potremmo dire anche qui in termini “filosofici”, dal loro “libero arbitrio”. Innanzitutto se Lola non corre, nessuno svolgimento è possibile se non quello che Manni non può che subire il suo triste destino. E invece la determinazione e la volontà di Lola la portano per due volte nella Banca del padre e la terza volta al Casinò, ove anche il “caso” della vincita dà una mano alla sua forte determinazione. 

Questo film scatenato è opera del tedesco Tom Tykwer, il regista opta per uno stile forsennato, film dal ritmo pazzesco, vorticoso, adrenalinico. Lola corre, la colonna sonora l'accompagna, le lancette dell'orologio scandiscono continuamente i minuti. Siamo dalle parti dei "film-videoclip", quelli pieni di musica, effetti strani (come lo split screen, gli inserti di animazione, i filtri colorati dei flash back), poco tempo per pensare.

Lola corre, ma non solo: combatte, spacca, ruba, spara e soprattutto grida cercando di schivare cani ringhiosi, genitori rabbiosi, poliziotti curiosi, pedoni, ciclisti, automobilisti pericolosi, camion e furgoni. 

Lola Corre è un film dalla trama semplicissima, che riesce però a trasmettere forti emozioni a chi ne sa cogliere la metafora. Una metafora generazionale, oserei dire, che più di dieci anni dopo l’uscita del film, riesce a cogliere “il” problema di questa generazione di giovani e meno giovani che corrono verso Cosa?

Lola corre diventa un film con una tematica, e anche abbastanza forte. Di come ogni singolo gesto o accadimento possa portare a scenari completamente diversi. Il caso, il destino, la forza di volontà, il fare di tutto per riuscire a salvare se stessi e gli altri, c'è un po di tutto dentro questa folle corsa.





“ORSO” per non dimenticare mai

Lorenzo Orsetti detto “Orso”, giovane fiorentino caduto in combattimento contro l’Isis, proprio in Siria, il 18 marzo 2019. Colpito a morte in uno scontro a fuoco, indossava l’uniforme delle Unità di protezione del popolo (Ypg): non semplicemente l’esercito curdo, ma l’esercito socialista, egualitario e secolare del Kurdistan.

“Se state leggendo questo messaggio - scriveva prima di morire Orso - è segno che non sono più a questo mondo. Beh, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, uguaglianza e libertà”. “Sono tempi difficili - proseguiva la lettera - lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza: mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto, e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza e di infonderla nei vostri compagni. E proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. E ricordate sempre che ‘ogni tempesta inizia con una singola goccia’. Cercate di essere voi quella goccia”.

"Mi convincevano gli ideali che la ispirano, vogliono costruire una società più giusta più equa. L'emancipazione della donna, la cooperazione sociale, l'ecologia sociale e, naturalmente, la democrazia. Per questi ideali sarei stato pronto a combattere anche altrove, in altri contesti. Poi è scoppiato il caos a Afrin e ho deciso di venire qui per aiutare la popolazione civile a difendersi",