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giovedì 31 marzo 2022

Giovanni Passannante – Parte prima

Lunedì 14 febbraio 1910 alle ore 10 è deceduto per paralisi bronchiale, nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, Giovanni Passannante. I giornali quotidiani, dal Corriere della Sera all’Avanti!, dall’Avvenire d’Italia alla Vita, fanno seguire la notizia della morte da commenti per quello che fu l’avvenimento per il quale Giovanni Passannante fu condannato a morte. Fu il 17 novembre 1878 che Umberto di Savoia, reduce da un lungo viaggio attraverso l’Italia, era accolto dal popolo pecorilmente devoto in Napoli. La carrozza nella quale, oltre a Umberto, si trovavano la regina Margherita, il principino ed il transfuga Benedetto Cairoli, ministro dell’interno, percorreva quel tratto di strada che, per il largo Carriera Grande, conduce dalla stazione ferroviaria al Palazzo Reale, quando Giovanni Passannante, di Salvia in Basilicata, si lanciò verso la carrozza e tentò di colpire re Umberto con un pugnale che aveva nascosto fra le pieghe di una bandierina. La prontezza di Benedetto Cairoli salvò Umberto I da quel primo attentato. Il Passannante aveva allora 29 anni e faceva di professione il cuoco. Fu condannato a morte ma, graziato dal Re, fu rinchiuso nell’ergastolo dell’Isola d’Elba, presso Portoferraio, ove rimase circa 10 anni, nella Torre, che da lui prese il nome. La segregazione cellulare continua, le infamie che contro di lui si compirono, gli fecero smarrire la ragione ed allora fu tradotto nel manicomio criminale di Montelupo, ove è morto cieco e completamente pazzo. L’attentato di Passannante fu sfruttato dai reazionari di quell’epoca contro la fiorente Internazionale. Nell’atto di un singolo si volle vedere il complotto; e per dare consistenza agli armeggi della polizia, fu fatto passare il Passannante per
anarchico, mentre non era che un repubblicano, e furono fatte scoppiare dalla polizia delle bombe addomesticate, ove più fiorenti erano le Sezioni dell’Internazionale, per poter avere il pretesto di fare degli arresti in massa, in onore e per la gloria della gloriosa stirpe sabauda. A Firenze la sera del 18 novembre, mentre una dimostrazione acclamante ai sovrani passava per via Nazionale, scoppiò una bomba all’Orsini che uccise e ferì diverse persone. Su testimonianza di creature della questura fu imbastito un processo che, malgrado fosse indiziario, e malgrado apparisse agli occhi d’ognuno parto della polizia, portò alla condanna di diversi Internazionalisti, fra i quali il Batacchi e lo Scarlatti a pene gravissime, che raggiunsero l’effetto sperato, cioè quello di sbandare l’Internazionale fiorentina. La figura di Giovanni Passannante, malgrado il giudizio del socialista Adolfo Zerboglio, riluce di luce propria e smentisce tutti coloro che, desiderosi di render servigi a coloro che ci comandano, vollero rimpicciolirla con il dichiarare essere il regicida un deficiente, squilibrato ed abbrutito. La migliore risposta che possiamo dare a questi sicari vecchi ruffianeggianti tutti con i poteri costituiti, è riportare integralmente quanto ebbero a dichiarare gli psichiatri Biffi e Tamburini, incaricati della perizia al processo: «Noi abbiamo esaminato attentamente le qualità psichiche del prevenuto e noi non vi abbiamo trovato nulla di anormale. L’attività produttiva della mente è in lui regolare; le espressioni di cui si serve non sono come comporterebbe la sua condizione sociale; le sue idee sono elevate e rivelano una cultura superiore. Le sue risposte denotano in lui una finezza ed una forza di pensiero non comune. Interrogato s’egli si credeva in diritto di fare violenza ai sentimenti della maggioranza, e di turbarne la tranquillità, ha risposto: La maggioranza che si rassegna è colpevole e la minoranza ha il diritto di resisterle. Alla nostra domanda come mai lui, povero cuoco, aveva la presunzione di volere scrivere degli opuscoli, rispose: Sovente gli ignoranti riescono là ove i sapienti inciampano. I sentimenti affettivi, quello del dovere soprattutto, sono in Giovanni Passannante pronunciatissimi. Lo studio della sua vita anteriore non ci ha rivelato neppure un atto di disonestà. Infine egli ha volontà ferma, parola sicura, tagliente, che riflette fedelmente il suo pensiero. Ha una fisionomia dolce, sorridente qualche volta, ed ha un comportamento energico. Interrogato se egli approvava che per la sua difesa lo si facesse passare per pazzo, rispose: Io non temo punto la morte; non voglio passare per pazzo; sacrifico volentieri la mia vita ai miei principi». (La Rivolta, Pistoia, anno I, n. 8 del 19 febbraio 1910)
 



Due parole sul concetto di autorità

La politica consiste nell’esercizio del potere dello Stato, oppure nel tentativo di influire su questo potere. Quando si parla di filosofia politica, perciò, a rigor di termini si intende la filosofia dello Stato. Se vogliamo sapere qual è il contenuto della filosofia politica e se questa esiste, dobbiamo partire dal concetto di Stato. Lo Stato è un gruppo di persone che possiede ed esercita l’autorità suprema all’interno di un territorio. In senso stretto potremmo dire che uno Stato è un gruppo di persone che esercita l’autorità suprema all’interno di un dato territorio o su una data popolazione. All’interno di una tribù di nomadi può manifestarsi la struttura autoritaria di uno Stato finché i suoi soggetti non vengono a trovarsi sotto l’autorità superiore di uno Stato territoriale1. Lo Stato può comprendere tutte le persone che si trovano sotto la sua autorità, come avviene nello Stato democratico secondo i suoi teorici; può anche consistere esclusivamente di un solo individuo dal quale dipendono tutti gli altri. Ci permettiamo di dubitare che sia mai veramente esistito uno Stato fatto di una sola persona, anche se Luigi XIV la pensava evidentemente così quando diceva «l’état c’est moi». La caratteristica peculiare dello Stato è l’autorità suprema, o ciò che i filosofi politici solevano chiamare «sovranità». Perciò si parla di «sovranità popolare», che è la teoria secondo la quale il popolo è lo Stato, e naturalmente l’uso del termine «sovrano» nel significato di «re» rispecchia il presupposto che l’autorità suprema sia concentrata in una monarchia. L’autorità è il diritto di comandare e, di converso, il diritto di essere obbediti. Essa va distinta dal potere, che è la capacità di imporre l’obbedienza con la forza, o con la minaccia della forza. Quando do il mio portafoglio a un ladro che mi punta contro una pistola, lo faccio perché ciò di cui mi minaccia il ladro è peggiore della perdita di denaro che devo subire. Riconosco che egli ha qualche potere su di me, ma difficilmente gli riconoscerei un 'autorità, cioè che egli ha diritto a pretendere i miei soldi e che io ho il dovere di darglieli. Quando invece lo Stato mi presenta la cartella delle tasse, pago (di solito) ciò che mi chiede, anche se non ne ho voglia e perfino se penso che potrei evitare di pagare. Si tratta dopo tutto dello Stato legittimo e perciò esso ha il diritto di tassarmi. Esso possiede autorità su di me. Naturalmente, di tanto in tanto, mi capita di imbrogliare lo Stato, ma anche in questo caso riconosco la sua autorità. Chi parla mai di «imbrogliare» un ladro? Rivendicare autorità significa rivendicare il diritto di essere obbedito. Avere autorità, allora, che cosa significa? Può voler dire avere questo diritto, oppure veder riconosciuta questa pretesa e vederla accettata da parte di quelli cui è diretta. Il termine «autorità» è ambiguo poiché ha entrambi i significati: quello descrittivo e quello normativo. Anche nel suo significato puramente descrittivo, esso si riferisce a norme e obblighi, naturalmente, ma si limita a descrivere ciò che gli uomini credono di dover fare e non afferma che essi debbano farlo. Ai due significati del termine autorità corrispondono due concetti di Stato. Su un piano descrittivo, lo Stato può essere definito un gruppo di persone a cui viene riconosciuta l’autorità suprema all’interno di un territorio - riconosciuta cioè da coloro nei cui confronti viene affermata questa autorità. Lo studio delle forme, delle caratteristiche, delle istituzioni e del funzionamento degli Stati de facto, come possiamo definirli, costituisce l’ambito delle scienze politiche. Se invece usiamo il termine nel suo significato normativo, lo Stato è costituito da un gruppo di persone che ha  il diritto di esercitare l’autorità suprema all’interno di un territorio. 


I Capelloni

Beatnik, provos, ragazzi dell’Onda verde, capelloni e via di seguito. Intanto, beat è un’etichetta con cui si vuole definire un fenomeno che vuole invece essere multiforme, indefinibile. Perché se una cosa vogliono questi ragazzi dai capelli lunghi, la barba incolta e l’aspetto trasandato, è di non essere definiti, catalogati. La società è così com’è, e loro vogliono far capire alla gente, al di là delle differenziazioni politiche e morali, che può essere concepita anche in un altro modo, quello ad esempio, della donna non necessariamente vergine al matrimonio, della bicicletta come alternativa all’automobile, delle scarpe anche un po’ sporche e non lucide, ed anche della reciproca fiducia, le case aperte senza preoccupazioni, la moglie libera senza timori, il lavoro sereno senza sfiducia. Chiamateli come volete, ma sono giovani che sentono un problema di coscienza, sentono che la società così com’è è ingiusta, che da una parte del mondo non si può tranquillamente gettare bombe e seminare morte e da un’altra parte divertirsi per il sabato grasso. Non si sentono a loro agio nel mondo attuale, perché conformista, beghino, che offre possibilità di un lavoro disumanizzante. E sono giovani che pensano. Pensano ad esempio perché devono fare un lavoro che non gli piace, mentre potrebbero girare il mondo senza l’intralcio delle carte bollate, dei permessi, dei visti, degli stati di cittadinanza mentre si sentono solo persone, e cittadini del mondo. Pensano che non sia necessario andare in giro con la camicia bianca e usare giri di parole per definire un sostantivo che si può trovare su ogni dizionario. Non hanno ideologia, non propongono alternative, si sentono solo disadattati, la loro matrice comune è l’insoddisfazione del modo attuale di vita, che loro concepiscono come non esclusivo. E vogliono far capire che si può concepire la vita partendo anche da altri punti, seguendo altri schemi, magari quello delle chitarre e dei vocaboli osceni. Ma non hanno la pretesa che il loro sistema sia l’unico, a loro basta far capire all’impiegato, all’operaio, al funzionario, al professionista, la necessità di porre in discussione l’attuale sistema, di sconfessarne i dogmi, i miti, come quello del denaro. Sono ragazzi coraggiosi. Perché, se ci pensate bene, ci vuole molto coraggio a dire di no alle allettanti offerte dell’attuale società, al piatto di pastasciutta a mezzogiorno, alla seicento fuori dall’ufficio, alle serate davanti alla TV, alla moglie calda in un letto comodo sì, ma con tanti pregiudizi e falsi pudori. (
Mondo beat N°1)



giovedì 24 marzo 2022

Oreste Lucchesi – dopo Caserio

Il primo luglio, a Livorno, il giornalista Giuseppe Bandi, mentre lasciava in carrozza la propria abitazione in via delle Ville, venne aggredito e pugnalato da un anarchico scalzo, identificato successivamente per Oreste Lucchesi un individuo, subito fuggito in Corsica). Il Bandi moriva poco dopo l'aggressione. Le indagini si appuntarono verso l'ambiente degli anarchici livornesi, anche in relazione al risentimento che questi nutrivano contro il Bandi autore  di una serie di violenti articoli antianarchici pubblicati su H Telegrafo dopo l'uccisione di Sadi Carnot. In uno di questi editoriali il Bandi aveva in particolare scritto di Caserio, come di «uno di quelli che nello sconvolto intelletto armeggiano col caos, e vorrebbero distrutta  e fusa nel caos l'armonia primigenia e susseguente del creato. Non è possibile ragionare... circa le teorie, o per dir meglio, le frenesie del Caserio, e di quanti altri gli furono e gli son fratelli nel delirio, nel furore, nella libidine sciagurata di rovine e di sangue». Rincarò la dose in un altro articolo Sulla bara di Carnot pubblicato su Il Telegrafo  del  27 giugno, prendendosela soprattutto con «i falsi apostoli che passeggiano inviolati e intangibili, con tanto di sigaro in bocca e co' baffi grondanti vino»  i quali avrebbero «tirato su pel capestro» il Caserio. A parte questi attacchi, che furono probabilmente il movente immediato del delitto, il Bandi era malvisto a Livorno e negli ambienti della sinistra, non solo quella rivoluzionaria ma anche quella democratica, perché simboleggiava e quasi incarnava la classe dirigente che, uscita dal Risorgimento     (egli stesso era stato cospiratore mazziniano e più tardi valoroso comandante garibaldino, nonché memorialista della spedizione dei Mille), si era fatta socialmente e politicamente conservatrice. Assertore di un governo autoritario e ostile ai movimenti popolari, il Bandi ripeteva a  livello locale l'evoluzione di Francesco Crispi, di cui  era  ammiratore e fautore. Inoltre egli si era costituito una solida base economica fondando prima, con l'aiuto dell'alta finanza toscana (Cambray Digny e Bastogi), i due giornali La Gazzetta di Livorno e H Telegrafo e divenendone in seguito il proprietario. Il Lucchesi viene arrestato il 14 luglio 1894 a Bastia e accusato di omicidio premeditato. Processato dalla Corte di assise di Firenze nel 1895, insieme ad altri sei compagni di fede, nega di far parte di associazioni sovversive, ma ammette di aver ucciso Bandi, su istigazione dell’anarchico Rosolino Romiti, anch’egli imputato nello stesso procedimento. Il pugnale – racconta Lucchesi – l’ha ricevuto da un altro anarchico, Amerigo Franchi: “Avevo anch’io letto gli articoli del Bandi” dichiara in aula “e mi dispiaceva che un uomo dabbene, un cavaliere, scrivesse così invece di badare ai fatti suoi. Accettai di ucciderlo perché la vita mia non la calcolavo più nulla”. Il 22 maggio 1895 la Corte condanna all’ergastolo Romiti, considerandolo l’istigatore dell’omicidio, e a 30 anni di carcere Lucchesi e Franchi (per favoreggiamento), e manda invece assolti gli altri imputati Antonio Neri, Virgilio Sgherri, Giuseppe Daveggia e Gustavo Lazzeri. Dopo la lettura del verdetto Lucchesi piange, mentre Romiti si mette a gridare: “Viva l’anarchia, viva la Francia, viva Caserio”. Dopo 10 anni di detenzione, Lucchesi muore nel reclusorio di Nisida il 15 ottobre 1904.



Il pensiero politico di Emma Goldman


Emma Goldman dedicò la propria esistenza all’esposizione della filosofia anarchica che considerava l’unica in grado di affrancare l’uomo dalle catene che ne limitavano la libera azione e la libera espressione del pensiero. Molti accadimenti storici, così come molti fatti privati di cui fu all’occorrenza soggetto agente o astante, spinsero Goldman verso le teorie sociali più radicali, fungendo da base per lo sviluppo del suo pensiero politico anarchico e autonomo. Lasciata la Russia nel 1885, sua patria natale, approdò negli Stati Uniti dove, in seguito a un impiego in una fabbrica tessile nella città di Rochester (New York), si scontrò con le condizioni di vita della classe operaia americana caratterizzate da basse paghe, turni di lavoro estenuanti e condizioni di vita precarie. Cominciò così a interrogarsi circa le cause di una siffatta situazione. Goldman aveva difatti creduto che in un paese come gli Stati Uniti, caratterizzati dalla presenza di una Costituzione che sanciva eguaglianza e libertà per tutti i cittadini, non potessero esistere quelle diseguaglianze tra gli individui di cui ebbe evidenza una volta approdata in America. Con l’obiettivo di raggiungere un pieno intendimento delle reali cause e motivi, si avvicinò dapprima alle teorie socialiste, e in seguito all’anarchismo. In seguito allo studio delle teorie anarchiche, Goldman capì che tanto il governo quanto il sistema economico capitalistico erano le vere cause dell’esistenza di diseguaglianze e illibertà all’interno della società statunitense; il loro sovvertimento era quindi fondamentale per la creazione di un nuovo ordine sociale entro il quale eguaglianza e libertà fossero effettivi. Per Goldman infatti non poteva esserci libertà individuale all’interno di un sistema politico accentrato che prevedeva l’abdicazione del diritto di autodeterminazione, né poteva esserci eguaglianza entro un sistema economico capitalistico caratterizzato da accumulazione e profitto per i detentori di capitale e da un sistema di salari per i lavoratori. Il problema dell’effettività dei diritti sanciti dai Padri Fondatori era per Goldman pregnante; per lei, la formalizzazione dei principi fondamentali avvenuta nel 1776 non era stata seguita dall’efficacia degli stessi poiché tanto il sistema di governo quanto le dinamiche di capitalismo ne vincolavano la concretizzazione. Era perciò necessario che ogni individuo agisse in modo da svincolarsi conseguimento e l’attuazione dei principi fondamentali formalmente riconosciuti. Goldman credeva profondamente nelle infinite possibilità e capacità degli esseri umani di provvedere autonomamente alla propria organizzazione, senza il bisogno di assoggettarsi ai dettami di un centro politico o economico. Il cuore del suo pensiero politico fu la sfiducia nelle capacità di un centro ordinatore di contribuire alla concretizzazione dei principi di libertà, eguaglianza, autonomia e autodeterminazione. L’obiettivo principale delle manifestazioni e conferenze, della partecipazione alle lotte operaie, degli sforzi propagandistici, informativi ed educativi che Goldman intraprese lungo l’intero arco della propria vita fu di rendere noto ai cittadini che un’altra via in campo sociale, economico e politico era possibile. Un ordine caratterizzato dalla volontaria cooperazione dei cittadini, entro il quale libertà ed eguaglianza fossero principi non solo formali, ma soprattutto effettivi era per lei molto più di una mera speranza. L’azione e la partecipazione attiva erano per Goldman l’unico mezzo davvero efficace per l’emancipazione dai vincoli che, in ogni ambito, limitavano non solo l’azione, ma anche lo sviluppo e il progresso dell’essere umano. Anche le critiche da lei mosse ai movimenti femministi attivi tra il XIX e il XX secolo, principalmente volti all’acquisizione di diritti civili e politici, come il movimento suffragista guidato da Emmeline Pankhurst, e ai bolscevichi che presero il potere nella Russia post-rivoluzionaria erano dettate dalla sua insofferenza nei confronti di tutti quei percorsi di liberazione non fondati sull’azione attiva. Per Goldman le richieste avanzate dalle esponenti dei movimenti femministi, rivolte all’acquisizione di diritti civili e politici da parte della donna, erano da ritenersi inefficaci proprio perché basate sulla credenza dell’ottenimento dell’emancipazione tramite il sistema politico. Il suo giudizio circa quest’ultimo, che considerava contrario alla libertà e all’eguaglianza, all’autonomia e all’autodeterminazione, influenzò la sua valutazione dei movimenti femministi. I bolscevichi furono invece aspramente criticati da Goldman proprio a causa della costruzione di un sistema burocratico accentrato che non aveva in alcun modo aumentato le libertà dei cittadini russi. Entrambe le critiche erano mosse dall’avversione di Goldman all’utilizzo della leva politica per l’affrancamento degli esseri umani da tutti i vincoli che ne limitavano la libertà e l’eguaglianza. L’obiettivo dell’elaborato è quello di esporre il pensiero politico di Emma Goldman e il contributo che essa diede al movimento anarchico statunitense, attraverso la ricostruzione delle battaglie cui prese parte, degli avvenimenti ai quali assistette e dei quali fu all’occorrenza protagonista, delle critiche mosse al sistema sociale corrente e delle idee da lei maturate in campo politico e socio-economico.


Stephan Schulberg – Living Theatre

Sono entrato nel Living Theatre nell’estate del 1974. Li avevo visti quando ero studente, cinque anni prima, a New York ed ero rimasto impressionato, anche se non avevo cultura teatrale né abitudine al teatro. Ho assistito a due spettacoli, Paradise now e Frankestein. Sentivo che da quegli spettacoli emanavano saperi, intuizioni e sensibilità che facevano bene alla società. Ero rimasto davvero impressionato. Erano diventati un punto di riferimento per me. Allora ero studente, coinvolto nel movimento contro la guerra in Indocina. Proprio alla fine di quella guerra sono entrato nel Living. Io penso che per quelle centinaia di migliaia di persone che hanno assistito a uno spettacolo del Living sia stata un’esperienza importante che ha introdotto, in un modo o nell’altro, la dimensione fantastica nella loro vita. Penso che il messaggio sia quello di una creazione collettiva, di un’arte-teatro come nonviolenza, come strategia dell’immaginazione, della magia e della poesia. Indagare, sperimentare dei modi per aprire questo tesoro della creatività della gente. A me piaceva del Living il fatto che anche quelli che non avevano studiato teatro facevano a volte un teatro favoloso. Mostrava che le potenzialità sono in noi, diventava un’occasione per realizzare la creatività. E ancora il teatro politico. Il teatro, come lo concepiva il Living, era teatro politico e anche la politica è un fatto teatrale. Forse si possono mettere in evidenza gli ideali della libertà, dell’anarchia, della critica di questa società teatralmente. Mostrare che la politica come esiste oggi è una nevrosi, una malattia. La questione della creatività della gente è una questione di potere. Il dominio dell’uomo sull’uomo reprime la creatività della gente, perché i potenti hanno paura della libertà della gente. L’anarchia è anche la realizzazione di tutti i poteri creativi della gente, rendendo la vita più artistica. Vita come arte, arte come vita. Stephan Schulberg, attore e poeta, nasce in Germania in una famiglia ebraica (il padre tedesco, la madre polacca) che riuscirà a sopravvivere al nazismo. Perse le radici, i suoi genitori lo educano a essere un cittadino del mondo, e infatti Stephan cresce in paesi diversi, tra cui Israele e Francia. Torna però spesso in Germania, dove studia con Hannah Arendt. Trasferitosi negli Stati Uniti, entra nel Living Theatre partecipando alle vicende di questa comunità artistica nomade. Sempre con il Living arriverà in Italia, dove si fermerà molti anni imparando a parlare un italiano fluente. Nel maggio 2000 partecipa, insieme a Judith Malina e Hanon Reznikov, al convegno di studi Anarchici ed ebrei, storia di un incontro organizzato dal nostro centro studi a Venezia. Qui interviene sul fecondo rapporto tra cultura ebraica radicale e anarchismo e contribuisce alla performance artistica messa in scena dai membri del Living Theatre presenti al convegno. Gravemente malato, passa gli ultimi anni della sua vita a Colonia, ma neppure la malattia riesce a domarlo, tanto che pur essendo costretto sulla sedia a rotelle non abbandona l’arte marziale del Tai Chi Chuan, che ha praticato per tutta la vita. Muore il 1 agosto 2008.



giovedì 17 marzo 2022

SANTE CASERIO – parte quinta

Il processo si esaurì in una sola giornata, il 3 agosto 1894. La condanna a morte  lasciò Caserio  indifferente. Era pronto. Alla madre diede egli stesso la notizia della sua condanna con questa lettera, in data 3 agosto 1894: 

Cara madre, Vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che la mia condanna è la pena di morte. Non pensate male, mia cara madre, di me. Pensate invece che se ho compiuto questo atto, non è che sia divenuto, come molti vi diranno, un malfattore od un assassino. Voi  conoscete il mio buon cuore, la dolcezza che avevo quando ero presso di voi; ebbene anche oggi è lo stesso cuore, e se ho commesso questo atto è precisamente perché stanco di vivere in un mondo così infame ...

Rifiutò di firmare il  ricorso in Cassazione per il quale esistevano fondati motivi (il Presidente aveva rivolto in apertura d'udienza un inammissibile discorso ai giurati, con parole e giudizi tali da influenzarne le decisioni); rifiutò di firmare la domanda di grazia; rifiutò infine i «conforti» religiosi e, per sottrarsi alle insistenze del cappellano, gli disse di essere ebreo.

Il sedici d'agosto 

nel far della mattina

il boia avea disposto

l'orrenda ghigliottina 

così cominciava la canzone popolare che renderà celebre quella data. L'esecuzione, per mano del boia Deibier, giunto appositamente a Lione, avvenne esattamente alle 4,35, poco prima dell'alba. Molta gente si trovò ad assistere al supplizio: operai che andavano o uscivano dal lavoro, nottambuli, ubriachi, curiosi, circa tremila persone. Caserio affrontò il patibolo con dignità, ma davanti alla ghigliottina ebbe un sussulto di resistenza. Fece un passo indietro e gridò in dialetto «A voeri no» (non voglio): almeno così venne riferito. Ma subito si ricompose e si piegò alla morte. Appena  «giustizia è fatta», come riporta il reso-conto ufficiale, qualche applauso si levò dalla folla fino allora silenziosa 

Spettacolo di gioia 

Francia ha  manifesta 

gridando viva il boia 

che gli troncò la testa. 

Nello stesso momento nella prigione di St. Paul un detenuto grida  a  gran voce «Viva l'anarchia, abbasso Deibier». Il detenuto, un povero ladro, è identificato e messo «au cachot» (ai ferri).




BORN TO BE WILD – Steppenwolf


Fai correre il motore

a testa bassa sull’autostrada

cercando l’avventura

e tutto ciò che capita sulla tua strada

sì cara, fai che succeda

prendi il mondo in un abbraccio d’amore

fai fuoco con le tue pistole contemporaneamente

ed esplodi nello spazio

Mi piacciono il fumo e il lampo

il rombare del metallo pesante

gareggiando col vento

e sentendo che sono sotto

sì cara, fai che succeda

prendi il mondo in un abbraccio d’amore

fai fuoco con le tue pistole contemporaneamente

ed esplodi in cielo

come un vero figlio della natura

siamo nati, nati per essere selvaggi

possiamo scalare così in alto

non voglio morire mai

Nato per essere selvaggio

Nato per essere selvaggio



La vita addomesticata

L’addomesticamento è il processo usato dalla civiltà per indottrinare e controllare la vita secondo la sua logica. Questi meccanismi di subordinazione collaudati nel tempo comprendono: la doma, l’allevamento selezionato, la modificazione genetica, l’addestramento, l’imprigionamento, l’intimidazione, la coercizione, l’estorsione, la speranza, il controllo, la schiavizzazione, il terrorismo, l’assassinio... l’elenco continua e comprende quasi tutte le interazioni sociali del mondo civile. Questi meccanismi e i loro effetti si possono osservare e percepire nell’intera società, e sono imposti attraverso istituzioni, riti e costumi. L’addomesticamento è anche il processo attraverso il quale popolazioni umane precedentemente nomadi passano a un’esistenza sedentaria tramite l’agricoltura e la zootecnia. Questo tipo di addomesticamento comporta un rapporto totalitario sia con la terra che con le piante e gli animali da addomesticare. Se allo stato selvatico tutte le forme di vita condividono le risorse e competono per adoperarle, l’addomesticamento distrugge questo equilibrio. Il paesaggio addomesticato (per esempio i terreni tenuti a pascolo, i campi coltivati e, in minor misura, l’orticoltura e il giardinaggio) esige la fine della libera condivisione delle risorse che esisteva in precedenza: ciò che una volta “era di tutti”, adesso è “mio”. Nel suo romanzo Ishmael, Daniel Quinn spiega questa trasformazione dalla condizione dei Leavers (coloro che accettavano ciò che la terra offriva) a quella dei Takers (coloro che pretendevano dalla terra ciò che volevano). Questa nozione di appropriazione gettò le fondamenta per la gerarchia sociale con la comparsa della proprietà e del potere. Non solo l’addomesticamento trasforma l’ecologia da ordine libero a ordine totalitario, ma schiavizza anche tutte le specie addomesticate. In generale, quanto più un ambiente è controllato, tanto meno è sostenibile. L’addomesticamento degli stessi esseri umani richiede molte contropartite rispetto al modo di vita nomade basato sulla raccolta di ciò che si trova in natura. Merita rilevare che gran parte dei passaggi dal modo di vita nomade all’addomesticamento non sono avvenuti autonomamente, ma sono stati imposti con la lama della spada o la canna del fucile. Se solo 2000 anni fa la maggioranza della popolazione mondiale era costituita da raccoglitori-cacciatori, oggigiorno la cifra è scesa allo 0,01%. La traiettoria dell’addomesticamento è una forza colonizzatrice che ha portato con sé una miriade di patologie per le popolazioni conquistate e per gli stessi iniziatori della pratica. Tra i vari esempi si possono citare il declino della salute per carenze nutritive dovute all’eccessivo ricorso a diete non diversificate, quasi 40-60 malattie trasmesse e integrate nelle popolazioni umane per ogni animale addomesticato (l’influenza, il comune raffreddore, la tubercolosi, eccetera), la comparsa di un surplus che si può usare per nutrire una popolazione sbilanciata e che invariabilmente comporta la proprietà e la fine della condivisione incondizionata


giovedì 10 marzo 2022

SANTE CASERIO – parte quarta

Al processo Caserio fu calmo, dignitoso e persino scherzoso. Ecco alcune battute del suo interrogatorio:

Caserio  — Nel  momento in cui gli ultimi cavalieri della scorta passavano  di faccia a me ho sbottonato la giacca, il pugnale  stava col manico  in alto nella tasca del lato destro all'interno. L'ho afferrato colla mano sinistra e con un solo movimento ho respinto i due giovani che mi stavano dinnanzi e d'un salto, mettendo  la mano sullo sportello  della vettura, ho menato  il colpo gridando: Viva la Rivoluzione! La mia mano aveva toccato l'abito del Presidente, la lama gli si era affondata fino al manico. 

Pres. —  È un dettaglio  che avete dato  anche all'istruttoria. 

Caserio —   Il Presidente mi  guardò in faccia, mentre io abbandonando la vettura gridai ancora: Viva l'anarchia! sicuro che ormai era preso. Non mi agguantarono invece che dopo. 

Pres.  — E  quello sguardo non v'arrestò? L'avete affrontato e sostenuto senz'emozione? 

Caserio —   Senz'ombra d'emozione. 

Pres. — Dove  volevate colpire? 

Caserio —   Al cuore. 

Pres. — La mano  vi tradì, avete detto al giudice nei primi interrogatori? 

Caserio Io ero passato tra i cavalli della berlina e quelli della scorta prendendo a sinistra un po’ obliquamente e cercando di penetrare la massa di gente che si accalcava sul marciapiedi. Ma  dietro di me una voce aveva urlato: "Arrestatelo!" e donne e bambini  mi sbarrarono il passo. Uno sbirro mi mise la  mano  al colletto e mentre mi divincolavo, con molta probabilità di mandarlo ruzzoloni, mi venne addosso una ventina di persone. Ero la loro preda. 

Il Presidente, dopo  di aver riassunto l'agonia di Carnot, gli sforzi che furono tentati per salvarlo, l'affollarsi delle celebrità mediche intorno al suo letto di dolore, soggiunge che il generoso e fervido concorso della bontà e  della scienza non valse che a prolungare di qualche ora "la vita del morente così caro alla Francia", e volgendosi verso Caserio lo investe duramente: «Voi siete anarchico, coltivate idee distruttive della società, siete il nemico di tutti i capi di Stato, sia lo  Stato un'autocrazia  od una repubblica ... ». 

Caserio  —  Sono tutt'uno. 

Pres.  — Voi  avete approvato  l'atto di Henry  con questa sola riserva, che io riferisco sulle vostre stesse parole: "Avrebbe fatto meglio a lanciare la sua bomba, invece che in un caffè, nel covo di qualche grassa famiglia borghese". 

Caserio  —  È vero, la pensavo così. 

Pres.  — Voi avete detto un giorno: "Povero Vaillant, l'hanno  ammazzato,  eppure  egli non ha ammazzato   nessuno". Ed avete  soggiunto:  "Quando la mia volta giungerà  non mi arresterà il pensiero della madre,  della vita, di alcuno, ma  una 

testa alta la colpirò". Non avete anche detto che se foste tornato in Italia avreste colpito il re ed il papa? 

Caserio, sorridendo —  Oh, non in una  volta. Non  hanno l'abitudine d'uscire insieme. 

Pres.  — Non siete l'agente di un complotto anarchico? 

Caserio  —No.  Io sono solo, e solo sono venuto a  compiere il mio atto di giustizia. 

Pres.  — Tuttavia tra gli anarchici è corsa un'intesa  per vendicare la morte  di Ravachol, di Vaillant e di Henry. Il Presidente  Carnot aveva creduto di  non commutar la pena  pronunziata,  contro ai vostri predecessori nefasti, da dodici cittadini giurati in piena libertà di coscienza; e dopo la  morte d'Henry  aveva ricevuto  lettere numerose di minaccia, come ne  avevano del resto ricevute la sua signora  ed i suoi figli. Non  erano state scritte, queste lettere, dai caporioni ai quali 

avete forse obbedito? 

 Caserio  —  Gli anarchici non hanno capi, ed il mio atto io l'ho meditato solo, come io solo l'ho liberamente compiuto. 

Pres.  — Vi è tuttavia un incidente che i giurati ed il pubblico debbono conoscere: all'indomani della morte  di Carnot la fotografia di Ravachol  era  mandata all'Eliseo  con questo recapito: "Alla  Signora vedova Carnot";  dietro era scritto: "Egli  è stato vendicato  bene". Se voi non siete l'agente di coloro che queste lettere di  minaccia hanno  scritto e mandato insieme con la  fotografia di Ravachol, avete il  coraggio di  sconfessarli? 

Caserio —  Io ho il coraggio di non sconfessarli: non ripudio né atti né persone; a me basta di potervi sinceramente confermare  che sono stato solo a preparare il mio colpo ed a farlo.




IL MARCHESE DE SADE – André Breton


Il marchese de Sade ha guadagnato l'interno del vulcano in eruzione

da dove era venuto

con le sue belle mani ancora frangiate

i suoi occhi da ragazza

e quella ragione sul bordo del si-salvi-chi-può che non fu

che di lui

ma dal salone fosforescente di lampade di visceri

non ha smesso di urlare i suoi gli ordini misteriosi

che aprono una breccia nella notte morale

ed è attraverso quella breccia che vedo

le grandi ombre che spezzano la vecchia corteccia sottile

si dissolve

per permettermi di amarti

come il primo uomo amò la prima donna

in tutta libertà

questa libertà

per la quale il fuoco stesso si è fatto uomo

per la quale il marchese de Sade sfidò i secoli con i suoi grandi alberi astratti

di acrobati tragici

aggrappati al filo (di ragno) del desiderio




L’ordine dominante

Nello sforzo di ottenere il controllo totale d’ogni aspetto dell’esistenza, l’ordine dominante ha iniziato ad accelerare lo sviluppo di tecnologie che manipolano la materia su scala nanometrica. Si tratta di milionesimi di millimetro. A questo livello, quello degli atomi e delle molecole, delle proteine, dei composti di carbonio, del DNA e simili, la differenza tra vivente e non vivente può iniziare a farsi confusa e molte proposte riguardanti questa tecnologia si basano su questa confusione. La nanotecnologia crea nuovi prodotti con la manipolazione di molecole, atomi e particelle subatomiche. Mentre la biotecnologia manipola la struttura del DNA per creare nuovi organismi attraverso la ricombinazione dei geni, la nanotecnologia va oltre spezzando la materia in atomi che poi possono essere ricombinati per creare nuovi materiali che sono, nel vero senso della parola, creati atomo per atomo. Al momento si stanno concentrando sull’atomo del carbonio, ma gli scienziati vorrebbero avere sotto controllo ogni singolo elemento della Tavola Periodica, per disporne a piacimento. Questo permetterebbe loro di combinare le caratteristiche (colore, resistenza, punto di fusione, ecc.) in modi sinora sconosciuti. La nanotecnologia crea le più minuscole mostruosità capaci degli orrori più grandi, poiché sono capaci di portare il sistema del controllo sociale direttamente nei nostri corpi. In alcuni luoghi le mostruosità prodotte da queste tecnologie saranno forse provviste di un’etichetta, affinché ci sia sempre la possibilità di scelta. Non possiamo far finta che ci sia uno spazio per un dialogo. Questa è la dimostrazione evidente da parte dei padroni del mondo del fatto che il mantenimento della pace sociale è un atto di guerra contro ogni essere sfruttato e spossessato. Per quelli tra noi che desiderano creare la propria vita secondo i propri modi di vedere, per chi desidera rimanere un individuo umano capace di ogni sorta di azione autonoma, è necessario agire in modo distruttivo contro l’intero sistema del controllo sociale, contro la totalità di questa civilizzazione nella quale le macchine cavalcano le persone e le persone si trasformano lentamente in macchine. Noi dobbiamo riconoscere questi sviluppi per quello che sono, un’altra rapina delle nostre vite, un attacco ad ogni nostra residua capacità d’autodeterminazione.


giovedì 3 marzo 2022

SANTE CASERIO – parte terza

Sabato 23 giugno 1894 Sante Caserio, lavorante panettiere, lavora com’è sua abitudine, fino alle 10 del mattino alla panetteria Viala di Cette. Per un futile screzio col  padrone - provocato ad arte - improvvisamente si licenzia e si fa liquidare. Riscuote 20 franchi; Un'ora e meno dopo acquista per cinque franchi un pugnale da un armaiolo locale che glielo garantisce mentendo, per una autentica lama di Toledo. Alle 13 si ferma, sempre a  Cette, al Café  du Gard, da un'occhiata all’Intransigeant e dice in giro che va a Lione. Ha saputo solo il giorno prima che il Presidente della Repubblica sarà a Lione per inaugurarvi l'Esposizione ed ha deciso di ucciderlo. Ma  Lione è lontana e gli avventori del caffè, oltre a non sospettare i propositi del giovane italiano, non credono neppure al suo viaggio. Alle 15 Caserio è alla stazione e prende il treno per  Moritbasin dove alle 16 trova la coincidenza per Montpellier: e qui arriva alle 16,43. Non avendo treni per Avignone fino alle 23,23 va a trovare  un conoscente, certo Laborie. Parte poi per Avignone ma il treno arriva solo fino a Tarascona. Fa il viaggio con due gendarmi, scambia con loro qualche parola, poi i gendarmi  si addormentano. A Tarascona cambia di classe per poter prendere un treno espresso che arriva ad Avignone alle 2,04 della notte. Nella vettura di prima classe i viaggiatori guardano con diffidenza questo straniero malvestito e impacciato. Ad Avignone  Caserio (che ha passato la notte precedente  al lavoro) si addormenta  per un'ora su una panca all'interno della stazione: Chiede poi il tempo e il prezzo per arrivare a Lione. Il  tempo - poco più di quattro ore – è sufficiente, ma il prezzo- 11 franchi e 30 centesimi - é superiore alle sue possibilità. Ha ora in tasca solo 12 franchi. Se prende il biglietto per Lione, non potrà comprarsi da mangiare. Prende allora un biglietto per Vienne e spende solo 9 franchi e 80 centesimi. Può così comprarsi intanto un panino da due soldi e calmare la fame. Alle 4,12 parte da Avignone. Arriva a Vienne alle 9,45. Compra  Le Lyon républicain e, ritagliato il programma della giornata del Presidente, se ne serve per incartare il pugnale.  A Vienne vede nella mattinata alcune persone conosciute durante il suo precedente soggiorno nella città, nel 1893: fra questi un parrucchiere che gli fa gratis i capelli  e gli offre anche un bicchiere  di vino. Alle 13,30 Caserio esce a piedi da Vienne alla volta di Lione. Sono 27 chilometri. È domenica.  È tempo coperto e ogni  tanto pioviggina. Il viandante incontra mendicanti, gendarmi, contadini. Compra  un pacchetto di tabacco e a metà strada si fa offrire, presso un casolare, due bicchieri d'acqua fresca. Giunto vicino a Lione, gli passa vicino un tram, adornato di bandiere  tricolori e pieno di  gente che va a salutare il  Presidente. Caserio conosce  un solo punto della città - Place de la Guillotière - e là si porta per orientarsi. Tutte le strade
sono illuminate e  il Presidente si trova già alla Camera di Commercio per un pranzo. Questo scenario di luminarie, ricevimenti, cortei, musiche non fa che eccitare reazioni ostili nell'animo  dell'attentatore solitario. Ad un certo punto, nel suo cammino fra la folla, Caserio trova una strada sbarrata: è di lì che deve passare il corteo presidenziale per giungere al Teatro dove si darà lo spettacolo di gala. Ma Caserio si trova dalla parte sbagliata. Sa dai giornali che il Presidente viaggia in carrozza, seduto alla destra, e lui è invece sulla sinistra. Deve  perciò attraversare la strada, già sorvegliata dai  gendarmi. Trova delle difficoltà ma  alla fine le gamin si insinua dietro un carro ed è dall'altra parte. Fra la folla assiepata si conquista un posto di seconda fila. Alle  21,15  la folla comincia ad agitarsi. Passano prima quattro  soldati a cavallo, della guardia repubblicana. Poi altri drappelli. Si sente ad un tratto intonare la Marsigliese.  Il Presidente è vicino. Dietro  l'ultimo  drappello di  cavalleggeri arriva il landeau presidenziale, affiancato da altri due cavalieri. Il Presidente, che ha con sé il sindaco della  città e due generali, saluta. È il momento in cui Caserio scatta, rompe la prima fila, balza sul predellino della carrozza e trafigge Sadi Carnot. Molti vedono solo il giornale e pensano alla presentazione di una supplica.
Non si rendono conto che il Presidente, affondato nella carrozza, é ferito i morte; Caserio potrebbe anche trovare  un momentaneo scampo tra la folla, se non fuggisse avanti alla carrozza gridando «Viva Ia rivoluzione, viva l'anarchia!» E subito  afferrato:dalle guardie e sottrattoalla furia della gente, mentre la camera presidenziale corre verso il Palazzo della Prefettura, e là Sadi Carnot  muore poco dopo la mezzanotte. La sequenza dei fatti, qui ricostruiti seeendo la precisa e veritiera versione data dallo  stesso Caserio in istruttoria e al processo, prova tre cose: che l'attentatore ha agito da solo nel modo più semplice ed  elementare, senza avvalersi dell'aiuto di altri e senza mettere altri a conoscenza del  suo progetto;  che fra il momento in cui si è formato nella mente ell'attentatore il proposito dell'atto da compiere e la materiale  esecuzione di esso sono passate, poco più poco meno, quarantotto ore; che questi due elementi, uniti ad una fortissima determinazione soggettiva formatasi negli anni ed a una notevole resistenza psichica e fisica, hanno consentito a Caserio di realizzare il suo piano che nessuna misura di sorveglianza preventiva avrebbe potato in, quelle condizioni evitare. L'attentato Caserio è un puro atto individuale perché un solo individuo ne è stato l'artefice come un solo individuo ne é stato la vittima). Al processo si tenterà di utilizzare la testimonianza poco attendibile di un confidente per accreditare l'ipotesi di un complotto, di un sorteggio ecc. Ma la lunga camminata fatta da Caserio da Vienne a Lione per mancanza di soldi e col rischio di perdere il tragico appuntamento, sarà la prova che  non esisteva un disegno preordinato da tempo, né  da  parte dell'imputato, né a maggior  ragione, da parte dei supposti complici.



L’AUSTRALIANO – Jerzy Skolimowski

Siamo in un villaggio del Devon, nel sud dell'Inghilterra, su un campo di cricket in cui una squadra di paesani gareggia, con molto fair play, contro gli ospiti d'un asilo psichiatrico. Uno dei ricoverati, Charles Crossley, all'apparenza uomo normale ma con una strana luce negli occhi, narra al supposto Robert Graves venuto in visita che cosa gli  accadde anni fa, quando reduce dall'Australia col potere sovrannaturale acquisito dagli aborigeni di emettere un grido tanto possente da uccidere tutti all'intorno, se ne servì per strappare la giovane Rachel al marito Anthony, un musicista elettronico. Mentre si svolge la partita il racconto procede a ritroso, e contempla le fasi del fatato ricatto, per cui Anthony, credendosi protetto dal suo bel razionalismo, prima cerca di resistere al disagio prodotto dallo sconosciuto che  gli si è installato in casa a rievocare episodi di magia nera, poi tenta di liberarsene benché la moglie lo difenda, infine è costretto dalla paura (ha assistito alla morte di un pastore e del suo gregge, colpiti dall'urlo terribile) ad accettare la compiaciuta resa di Rachel e il ménage a tre. Dopo che Anthony, conquistato dai sortilegi, ha provato a spegnere l'anima dell'intruso, il racconto di Crossley torna a chiudersi sul terreno di gioco, ma    durante un uragano che fa almeno tre morti: se per fulmine o aborigena furia  ciascuno  decida in cuor suo. 

Caldamente applaudito al festival di Cannes (ebbe ex aequocon Ciao maschio di Marco Ferreri il premio speciale della giuria), L'Australiano si raccomanda per il talento con cui racchiude ed esalta molte virtù  audio-visionarie. Skolimowski ritrova lo scrupolo morale che contraddistinse i suoi film degli inizi, non escludendo che tutto il dramma sia un incubo scatenato dal  senso di colpa del marito, il quale suona l'organo in chiesa ma tradisce Rachel con una donna del villaggio, però ora lo colloca come impalpabile sottofondo d'un assoluto metaforico in cui l'angoscia e il fascino dei portenti  percorrono il quotidiano, vibrano nell'inconscio di un artista che insegue nei suoni il trionfo dell'immaginario e nell'universo mentale d'una donna che cede all'attacco di una magica virilità. Sotto un cielo che adombra prodigi fra i costumi della buona società, Skolimowski  ci porta tra fossili insidiosi e fiori fraudolenti, accosta i tè delle cinque ai riti delle tribù, apparenta gli stridori della musica elettronica ai gemiti delle  anime imprigionate nella pietra. Non ci chiede di credere al racconto, ma di serbarci aperti alla meraviglia dell'impossibile nel bel mezzo della civiltà tecnologica. Nel suo sistema di comunicazione fantastica l'urlo di Crossley è anche la nostalgia dell'uomo  naturale, la riconquista di poteri ancestrali. Film modernissimo per il taglio delle scene e per l'eco che vi serpeggia delle polemiche culturali sui rapporti fra la  malattia psichiatrica, l'impero dell'immaginazione e le nevrosi prodotte   dalla repressione sociale. Un film  che certamente non annoia; il clima rarefatto, un arcano respiro, pulsioni segrete, molto  gusto del  fantastico ed eleganti colpi di spillo contro la civiltà del rumore che ci strega ed assedia. 



Questa è la veridica storia della Ⓐ

A cerchiata, e generalmente conosciuta e riconosciuta che ha finito con l’essere considerata un simbolo anarchico tradizionale, con il dare l’impressione di esserci “da sempre”. Così ad esempio, la rivista americana “Fifth Estate” (1997) crede di vedere una A cerchiata sull’elmetto di un miliziano anarchico della rivoluzione spagnola. Addirittura qualcuno la vuol fare risalire a Proudhon . In realtà essa è poco più di una parvenu e dell’iconografia libertaria: la A cerchiata nasce nel 1964 a Parigi e nel1966 a Milano. Due date e due luoghi di nascita? Sì, e vedremo come. È nell’aprile del 1964, infatti, che sul bollettino interno delle Jeunesses Libertaires (cioè dei giovani anarchici francesi: quattro gatti allora, i giovani anarchici in Francia come in Italia come dappertutto) compare la proposta di un segno grafico per l’insieme del movimento anarchico, al di là delle differenti ten-denze e dei diversi gruppi e federazioni. Perché questa proposta? “Due motivazioni principali ci hanno spinto: innanzi tutto facilitare e rendere più efficaci le scritture e i manifesti murali, e poi di assicurare una presenza più ampia del movimento anarchico agli occhi della gente e un carattere comune a tutte le espressioni dell’anarchismo nelle sue pubbliche manifestazioni. Più precisamente, si trattava, secondo noi, di trovare un mezzo pratico che consentisse da un lato di ridurre al minimo il tempo impiegato per firmare i nostri slogan sui muri e dall’altro di scegliere un segno sufficientemente generale da poter essere adottato da tutti gli anarchici. La sigla da noi proposta ci sembra rispondere a questi criteri. Associandola costantemente alle espressioni verbali anarchiche finirà, per un noto automatismo mentale, con l’evocare da sola nella gente l’idea dell’anarchismo”. Il segno grafico proposto è proprio una A maiuscola inscritta in un cerchio Perché? Forse per derivazione dal già diffuso simbolo antimilitarista, in cui la “zampa di gallina” viene sostituita con la lettera iniziale della parola anarchia in tutte le lingue europee. Forse per altre suggestioni. Ad esempio, il segretario della Alliance Ouvrière Anarchiste (una minuscola federazione anarchica di lingua francese), Raymond Beaulaton, mi ha scritto, nel 1984, che fin dal 1956-57, i primi membri dell’AOA usavano nella loro corrispondenza, dopo la firma, una sigla che era dappertutto una A inscritta in un cerchio a sua volta inscritto in un’altra A (per l’appunto AOA), diventata poi una doppia A inscritta in una O e poi semplificata in una A inscritta in una O. Di certo vi
è però che il primo uso “pubblico” della A cerchiata da parte di tale Alliance compare nel giugno 1968 sul loro bollettino ciclostilato “L’Anarchie”. Ma torniamo al 1964. La proposta delle JL non dà , lì per lì, alcun frutto. Nel dicembre dello stesso anno la A cerchiata ricompare nel titolo di un articolo a firma Tomás Ibañez, sul giornale “Action directe” , edito dallo stesso gruppo di giovani anarchici che, sul citato bollettino di otto mesi prima, avevano proposto quel segno identitario. Ma, di nuovo nessuna rispondenza nel movimento anarchico francese (né, tanto meno, internazionale). Bisogna aspettare fino all’inizio del 1966 perché il simbolo della A cerchiata, proposto dal bollettino delle JL, venga ripreso e utilizzato, in modo dapprima “sperimentale” poi regolare, dalla Gioventù Libertaria di Milano, un gruppo di giovani anarchici , che era in fraterni rapporti con i giovani parigini, con cui aveva costituito una effimera ma altisonante Fedération Internationale des Jeunesses Libertaires. È da allora che il segno comincia la sua vita pubblica. Dapprima, per l’appunto, a Milano, dove diventa firma usuale sui volantini e manifesti dei giovani anarchici, e in Italia, per tornare poi in Francia e diffondersi piuttosto rapidamente nel resto del mondo. Marianne Enckell, [responsabile del CIRA di Lausanne] dice di non aver prova di un uso della A cerchiata nel maggio parigino e di aver trovato scarse tracce della sua presenza fuori dall’Italia fino al 1972-73. È, comunque, a mia memoria, dall’inizio degli anni Settanta che la A cerchiata “esplode” con una spontanea appropriazione mimetica da parte dei giovani anarchici, un po’ in tutto il mondo: un successo strepitoso che ha fatto dire a qualcuno che, se il suo inventore avesse brevettato la A cerchiata, sarebbe oggi miliardario! Le cause della rapida e intensa fortuna? Più o meno le motivazioni espresse dalle JJLL Cioè, da un lato, la grande semplicità e immediatezza che fanno della A cerchiata uno dei segni grafici più immediati come la croce, la falce-martello, la svastica… Dall’altro lato un movimento “nuovo”, giovane, in rapido sviluppo, che cercava un segno unificante. Così, in assenza a livello internazionale di un simbolo grafico degli anarchici e in presenza talora, a livello nazionale o locale di una simbologia tradizionale inadeguata, in Italia, ad esempio, era molto utilizzata la fiaccola s’è di fatto imposta la A cerchiata, senza che nessun gruppo o federazione mai si sognasse di decretarne l’applicazione. Questa è la veridica storia della A cerchiata, che è fatta insieme di volontà consapevole e di spontaneità. Un cocktail tipicamente libertario.