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giovedì 30 novembre 2023

Le cinque giornate di Milano – parte prima

A centoventicinque dai fatti del 1898 milanese sembra ancora resista una sorta di rimozione collettiva quasi che quel bagno di sangue sia stato un incidente di percorso o al più opera esclusiva del generale Fiorenzo Bava Beccaris, o meglio, come una nota canzone di protesta dell’epoca lo definì, «il feroce monarchico Bava». In realtà le giornate del maggio milanese segnano il punto di non ritorno di una articolata strategia autoritaria e repressiva inaugurata almeno un decennio prima dalla politica crispina, appoggiata da parte della borghesia e dai grandi latifondisti meridionali. Una politica imperniata sul modello bismarckiano di esecutivo forte teso ad una politica estera di potenza e a una pervicace esclusione dallo Stato liberale delle forze popolari, siano esse socialiste o cattoliche intransigenti. Gli anni Novanta dell’Ottocento sono segnati da un profondo mutamento della società italiana: la prima ondata di industrializzazione (fortemente stimolata dai capitali tedeschi) fa sentire i suoi effetti nei rapporti sociali: alle figure tradizionali del mezzadro e dell’artigiano, si affianca l’operaio ed il bracciante agricolo proletarizzato nelle grandi cascine padane proto- capitaliste. Sono anni cruciali per lo sviluppo del movimento operaio italiano, movimento atipico (insieme a quello spagnolo e del Giura) perché fortemente caratterizzato da istanze libertarie che affondano le radici nel Risorgimento di Pisacane e nella forte matrice antiautoritaria impressa da Bakunin nei lunghi soggiorni italiani, che rimarrà per lungo tempo anche patrimonio della base del partito socialista, malgrado la drammatica separazione sancita nel congresso di Genova del ’92. Anni fervidi, di durissime lotte contadine, di società di mutuo soccorso, di leghe operaie, ma anche di una sempre maggior determinazione da parte dare risposte draconiane alle rivendicazioni popolari. In un crescendo di violenza, fatto di galera, confino, censura, di moti repressi nel sangue come nel caso dei Fasci siciliani o dei moti della Lunigiana del ’94, di leggi speciali costruite per colpire il movimento anarchico ma che serviranno anche a sciogliere  il partito socialista e a imbavagliare la stampa repubblicana, si arriva alla crisi del ’98. Il motivo scatenante è noto. In una fase di grave crisi economica si verifica un aumento del prezzo del pane che colpisce pesantemente gli strati più deboli della società: se un chilo di pane nel ’97 costa 37 centesimi, un anno dopo il suo prezzo è salito a 47 centesimi, cifre che non rendono la giusta dimensione del dramma se non si tiene conto che la paga media giornaliera di un operaio è di 2 lire: un quarto dello stipendio per un chilo di pane. Le cause di questa crescita dei prezzi sono rintracciabili nella politica protezionista perseguita dal governo per favorire i grandi produttori meridionali, i quali non sono capaci di soddisfare la domanda interna sia per le strutture di produzione di tipo feudale sia per il cattivo raccolto dovuto alla siccità. Quando il governo Rudinì si decide a cercare dai grandi produttori internazionali ilgrano, si trova di fronte alla chiusura delle esportazioni russe e alla guerra tra Stati Uniti e Spagna per il controllo di Cuba. La crisi è inevitabile e coinvolge tutta la penisola al grido «pane e lavoro», parole semplici che ricordano le antiche jacquèries contadine e non un movimento insurrezionale organizzato come da subito pare ai circoli militari e reazionari legati alla corona. L’anno si apre con la rivolta di Ancona: città tradizionalmente segnata da una forte influenza repubblicana ed anarchica, grazie anche alla presenza di Errico Malatesta che vi pubblica il quotidiano «L’Agitazione». E non basteranno le truppe inviate per fermare la spinta protestataria, che già a fine gennaio ha conquistato le Romagne e la Liguria per poi irradiarsi alla Sicilia e a macchia di leopardo nel resto della penisola: scontri di piazza sovente luttuosi si verificano a Napoli, Bari, Chieti, Livorno, Parma. Ma l’avvenimento più grave avviene a Pavia il 5 maggio dove, in uno scontro con la forza pubblica, cade lo studente Muzio Mussi, figlio del vicepresidente della Camera e futuro sindaco di Milano, eletto dalle sinistre nel dicembre dello stesso anno a simbolica chiusura dell’epoca del moderatismo cittadino. Naturalmente quando la rivolta prende piede a Milano la situazione diventa esplosiva: la città rappresenta la punta avanzata dello sviluppo capitalista italiano, esiste una classe operaia ben organizzata e politicizzata, qui è nata la prima Camera del Lavoro sul modello delle Bourses du Travail francesi, qui è sorto il primo embrione di partito operaio italiano grazie a figure carismatiche come Costantino Lazzari, qui vi è una tradizione democratica e repubblicana che si ricollega alle cinque giornate del 1848, qui in definitiva è il vero laboratorio politico d’Italia. La rivolta non parte dai contadini giornalieri della Capitanata, bensì dagli operai della Pirelli, la fabbrica modello, esempio illustre di paternalismo padronale.
Per questo stroncare Milano vuol dire dare una lezione a tutta Italia, allontanare lo spettro di una rivoluzione ma anche mettere fuori gioco le forze legalitarie antiliberali: il partito socialista ed il cattolicesimo politico nelle sue accezioni sociali ed intransigenti. In questo contesto il generale Bava Beccaris non può esser visto come un paranoico sanguinario perché ha agito in piena sintonia con Rudinì e con Umberto I: il generale è stato lo strumento consapevole di un progetto reazionario, a cui fanno fede la sua nomina a senatore del regno e la croce di grande ufficiale dell’ordine militare di Savoia concessa  – recita la motivazione ufficiale  –  per il grande servizio reso alle istituzioni ed alla civiltà. D’altronde Bava Beccaris è il prototipo di quella casta militare piemontese forgiata nel tardo risorgimento (ha partecipato alla campagna di Crimea ed alla seconda e terza guerra d’indipendenza), fedele alla corona e all’ordine, come si deduce chiaramente dalla relazione ufficiale che invia al ministro della guerra a moto represso dove il problema viene ricondotto ad una energica operazione militare. Del resto non si può chiedere ad un generale di fare il politico. Ma veniamo alle quattro giornate milanesi.


La poesia di Joyce Mansour

Joyce Patricia Ades – questo il suo nome da “signorina” – era nata a Bowden, in Inghilterra, nel 1928. I suoi genitori risiedevano però abitualmente al Cairo, dove la famiglia Ades faceva parte da diverse generazioni della numerosa colonia britannica. Dopo gli studi secondari svolti in Svizzera e Inghilterra, Joyce rientra quindi in Egitto. Nel 1947, primo tragico matrimonio: suo marito, colpito da un male incurabile, muore dopo appena sei mesi. Nel ‘49, si risposa con Samir Mansour della comunità francese. La nuova coppia comincia allora a spostarsi tra Parigi e Il Cairo, e Joyce s’inizia alla cultura francese assimilandone la lingua. Nel ‘53 pubblica a Parigi la sua prima raccolta di poesie, Cris, attirando da subito l’attenzione dei surrealisti. Sarà l’inizio di una parabola creativa che si esaurirà soltanto nel 1986, allorquando la scrittrice anglo-egiziana muore per un tumore al seno. Per dare un’idea del personaggio, riportiamo qui di seguito una testimonianza di Claude Courtot (membro del gruppo surrealista nel 1964-69): «Avevo fatto la conoscenza di Joyce e di Breton nel 1964. Al caffè La promenade de Venus, lei si sedeva sulla panca in fondo alla sala, sotto il grande specchio, in modo da essere di fronte a Breton chiedeva regolarmente del rum e fumava un sigaro enorme che, per uno strano contrasto, rendeva ancora più femminili i tratti del suo viso di bambola bruna dagli occhi attraenti come pozzi. Rileggo non senza emozione questo breve annuncio apparso su France-soir del 15-16 ottobre 1967: “Cerco SOGNI da collezionare. Scrivere a Joyce Mansour, 1 avenue du Maréchal-Maunory. Parigi 16°.”». L’opera letteraria della Mansour, tuttora pressoché sconosciuta anche in Francia, ridisegna incessantemente una cartografia dell’amore carnale, cercando, allo stesso tempo, di sottrarlo all’utilitarismo e ai buoni sentimenti; il tutto grazie all’espressione di un’energia vitale ricca di humour e di fervido erotismo. Siamo comunque ben distanti dalle manie ostentate da un Dalí, come pure dall’accanimento lirico-ossessivo di un Bataille (si pensi qui al simbolismo uovo-occhio-testicolo di Histoire de l’œil); tuttavia, anche nella poesia della Mansour è quanto mai preminente la lotta tra Eros e Thanatos, benché si risolva spesso in un’aggressiva ed ironica civetteria, la quale, d’altronde, si sposa magnificamente alle ruvidità, per niente volgari, di una scrittura risoluta e personale. Inoltre, fin dagli esordi, i testi della Mansour mantengono scarsi legami di parentela con la scrittura automatica adottata dagli altri membri del gruppo. Secondo Arthur Rimbaud – uno dei numi tutelari del surrealismo –, la “donna poeta”, liberata dalle costrizioni sociali, avrebbe trovato “cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose”. Ebbene, con la poesia di Joyce Mansour, tale premonizione ha trovato certamente una delle sue realizzazioni più belle, imperiose ed emozionanti.








L’Insurrezione che c’è in te

Chi non si è sentito, almeno una volta affondare, nel freddo del cuore, un coltello più freddo, da qualcuno che gli ingiungeva di uscire da sé per venire a congiungersi coi “destini generali”? Una insurrezione è storicamente delimitata. Ma un'insurrezione vissuta, pur nella pochezza della sua irreversibilità insegna in modo indimenticabile quale differenza corra tra una “miniatura” ideologica della dimensione sovra-individuale, e un suo momento di evidenza effettiva. Al tempo stesso, il modo in cui il ricordo dello “scontro” affiora alla commemorazione dice tutto su quella competenza melanconica dell'euforia, in cui, così immancabilmente, consiste il potere dei capi-racket. Ogni eucarestia dell'assenza passa attraverso il cerimoniale dell'evocazione: è così che il ricordo del momento in cui si è distrutto ogni potere, ogni potere dell'altro sulla propria soggettività, si trasforma nel legame che assoggetta la propria presenza gregaria al potere di chi se ne ciba. L'altro sa travestirsi, sa apparire come qualcosa di affine al meglio di te mentre ti ingiunge di rinunciare del tutto a essere te, e di contemplarlo come la garanzia incarnata del tuo futuro sposato alla “storia”.


giovedì 23 novembre 2023

L'esilio – Luigi Fabbri

Nel 1926, con un espatrio clandestino, Fabbri si sottraeva alle persecuzioni del regime fascista e riprendeva all'estero la lotta divenuta per lui impossibile in patria. Trovato inizialmente rifugio in Francia, insieme a un gruppo di compagni (T. Gobbi, U. Fedeli, F. Vezzani, C. Berneri) fondava a Parigi il quindicinale Lotta Umana (1927-29), interrotto per l'espulsione dal paese dei principali redattori. Dopo una breve sosta in Belgio, si trasferiva in Uruguay, dove riprendeva l'attività pubblicistica con la rivista Studi Sociali che dirigeva fino alla morte, avvenuta nel 1935. Tre anni prima, "esule in patria", era scomparso Malatesta, la cui perdita aveva toccato Fabbri nel profondo. Al vecchio maestro egli dedicava significativamente l'ultima opera di notevole impegno, Malatesta - L'uomo e il pensiero. Si tratta di un'accurata ricostruzione, condotta con amore e scrupolo filologico, del pensiero del grande rivoluzionario, di cui costituisce in pratica quella presentazione sistematica che Malatesta, pensatore non sistematico per eccellenza, aveva sempre rifiutato di fare nonostante le sollecitazioni. Nessuno poteva in effetti assolvere questo compito meglio di Fabbri, presentato dallo stesso Malatesta al Congresso Internazionale Anarchico di Amsterdam nel 1907 con queste parole: "Mon fils".

"Il movimento anarchico agli inizi del secolo presenta un uomo nuovo. È Luigi Fabbri, questo giovane anarchico marchigiano, di famiglia medio-borghese (il padre era il farmacista di Fabriano), che dalla sua terra, satura di umori laici e libertari, trae il nutrimento per la sua formazione. Entrato nel movimento da adolescente, passato attraverso le prigioni e il domicilio coatto, a venticinque anni (era nato nel 1877) si afferma come la mente più acuta e la voce politicamente più matura dell'anarchismo italiano. Luigi Fabbri possiede due doti che mancano ad altri anarchici, anche fra i maggiori: una solida base culturale, formata attraverso studi seri e via via aggiornata con un attento interesse per le correnti di pensiero del mondo contemporaneo, e la capacità critica di mettere arditamente in discussione quelle posizioni teoriche o pratiche dell'anarchismo chi egli ritiene errate o superate. Soprattutto la sua devozione verso Malatesta non gli impedisce di assumere fin dall'inizio del secolo una linea autonoma, originale e, in certi casi, antitetica".


Natura

La natura è un’invenzione dei tempi moderni. Per l’indiano della foresta dell’Amazzonia o, più vicino a noi, per il contadino francese dalla III Repubblica, questa parola non ha senso. Perché entrambi rimangono all’interno del cosmo. In origine l’uomo non si distingue dalla natura; fa parte di un universo senza fratture in cui l’ordine delle cose è in continuità con quello del suo spirito: lo stesso soffio animava gli individui, le società, le rocce e le fonti. Per il pagano primitivo non esisteva alcuna natura, c’erano solo gli dei, benevoli o terribili, le cui forze così come i loro misteri – oltrepassavano in modo infinitamente maggiore la debolezza umana. 

Ritorniamo alla natura perché, attraverso la lotta, ci forma alla libertà. Perché in essa prendiamo coscienza del nostro modo di essere uomini, nel mondo come nella società. Fornisce alle nostre idee l’esperienza e ci insegna la loro comune misura con la realtà; impariamo che la libertà è al di fuori dell’uomo, che la coscienza è contatto e presa di possesso, e la ragione soltanto potere di organizzazione. 

Non c’è armonia nella natura. Proprio perché la morte è la morte, non si può parlare di armonia, è lei che trionfa dal punto di vista umano. Pensate a tutti i cataclismi che ci affliggono incessantemente, i tornadi, i terremoti, i vulcani, le inondazioni, lo scatenamento delle forze di fuoco o di acqua, questo enorme disordine, questo immane sperpero, le mille uova di piovra che si schiudono affinché una soltanto giunga all’età adulta, le mille farfalle che prendono il volo e che saranno quasi tutte preda degli uccelli, questa profusione che va verso la morte. Una morte che altrove procura la vita. Ma è armonia questo immenso macello? Eppure questa terra è il nostro unico bene. 

I patiti della natura sono all’avanguardia della sua distruzione nella misura in cui le loro esplorazioni preparano il tracciato dell’autostrada; e che poi per salvare la natura la organizzano. Scrivono libri o tengono conferenze per spingere invitare in mondo intero a condividere la loro solitudine: non c’è niente di meglio che un navigatore solitario per riunire le masse. L’innamorato del deserto fonda una società per la valorizzazione del Sahara. Cousteau, per far conoscere il “mondo del silenzio”, gira un film che fa molto rumore. Il campeggiatore appassionato di spiagge deserte costruisce un villaggio da cartolina. Così la reazione contro l’organizzazione, il sentimento della natura porta all’organizzazione. 



SMART CITY, la città intelligente

La storia del capitalismo e la storia dell’urbanizzazione del mondo, dal momento che esso ha trovato nella città moderna il luogo fondamentale dell’organizzazione dei propri bisogni. In essa si modellano utilitaristicamente le forme di vita e l’esperienza dello spazio-tempo collettivo. A ogni tappa della rivoluzione industriale che si sviluppa da ormai due secoli e mezzo e corrisposta una trasformazione radicale e costante dello spazio urbano. Da una decina di anni, l’aggettivo smart e la quintessenza della quarta rivoluzione industriale che il capitalismo propaganda come una necessita ineluttabile del progresso e della propria stessa sopravvivenza. Un’espressione fondamentale di questa “intelligenza”, riassuntiva di tutte le altre, dovrebbero essere quelle smart cities che hanno conquistato l’immaginario e plasmato il lavoro di urbanisti, politici e manager. La smart city e la visione utopica di una vita urbana resa intellegibile e gestita autonomamente dall’Intelligenza Artificiale e dall’automazione, dall’Internet delle cose e dalle infrastrutture digitali, dal Machine Learning e dai flussi di Big Data.

Nessun progetto di utilizzo della tecnologia e delle macchine potrà portare a una liberazione dell’umanità fino a quando una rivoluzione della vita quotidiana basata sulla sperimentazione di un nuovo sentimento ludico e anti-utilitarista del tempo e dello spazio non avra estirpato il cancro del produttivismo dal mondo. Le citta sperimentali della deriva che i situazionisti volevano cominciare a costruire – visibili in nuce soltanto nel micro-complesso auto costruito da Jorn ad Albisola Marina – avrebbero dovuto servire proprio a questo, a inventare una nuova idea di felicita che scalzasse quella alienante e totalitaria della “società dello spettacolo”. Purtroppo e significativamente, la New Babylon che doveva incarnare quel modello e che Constant continuo a progettare ben oltre la sua uscita dall’Internazionale situazionista – uscita dovuta proprio alla sua eccessiva fiducia post-marxista nei poteri dell’automazione – assomiglia oggi in molti tratti alla smart city della Aiken: un’utopia che il capitalismo e pronto a saccheggiare per i propri interessi. Non si possono cambiare le citta senza cambiare il mondo alle sue radici. Non può esistere una citta intelligente per l’umanità finche l’intelligenza rimane quella del capitalismo. Fino ad allora, nella meno catastrofica delle ipotesi, avremo un aggiornamento del baratto tra la garanzia di non morire di fame e la certezza di morire di una noia aumentata, cibernetica e transumana. 


giovedì 16 novembre 2023

Il biennio rosso e la lotta contro il fascismo – Luigi Fabbri

La guerra aveva avuto l'effetto, tra l'altro, di mettere in movimento enormi masse di uomini, e di creare grandi aspettative e speranze, alimentate dalle stesse promesse dei governi. Con la fine del conflitto le agitazioni economiche e politiche, per anni compresse, risposero con enorme virulenza in ogni paese. Lo scoppio della rivoluzione in Russia aveva acceso d'entusiasmo il proletariato d'occidente e anche in Italia la parola d'ordine divenne "fare come in Russia". In realtà gli avvenimenti russi riproponevano in termini di drammatica attualità il problema tipicamente anarchico della difesa della libertà nella rivoluzione. Nel movimento anarchico, contagiato anch'esso inizialmente dall'entusiasmo per la rivoluzione vittoriosa, subentrarono ben presto le cautele e i distinguo nei confronti del nuovo potere dittatoriale, e infine, quando arrivarono notizie attendibili sulle persecuzioni cui erano oggetto in Russia i rivoluzionari non bolscevichi, si giunse all'aperta condanna. Ancora una volta fu Fabbri a distinguersi particolarmente nell'opera di necessaria chiarificazione del concetto anarchico di rivoluzione e nella polemica coi bolscevichi russi e con i loro epigoni italiani confluiti nei Partito comunista. Destreggiandosi con abilità nella delicata situazione del momento, sorretto dal suo grande equilibrio, Fabbri rimise la discussione sui suoi binari storici, cioè sulle sostanziali differenze fra anarchismo e bolscevismo, e fissò i termini della "querelle" tra le due correnti "discriminando il moto rivoluzionario russo dall'apparato statale sovietico e attaccando i comunisti, senza tuttavia nulla concedere all'anticomunismo preconcetto dell'opinione pubblica borghese". Questa battaglia, condotta principalmente sulle colonne della rinata Volontà e di Umanità Nova quotidiano, trovò una sistemazione organica nel libro Dittatura e rivoluzione, (1921, ma già pronto l'anno precedente), forse l'opera più importante di Fabbri, in assoluto uno dei testi più significativi della letteratura politica anarchica. Notevole anche la polemica a distanza condotta da Fabbri con alcuni dei più prestigiosi dirigenti bolscevichi, tra cui Bucharin, in risposta al quale scrisse l'opuscolo Anarchia e comunismo "scientifico". La spinta rivoluzionaria delle masse stava intanto rifluendo, lasciando spazio alla reazione fascista. Fabbri, il cui impegno durante la fase montante rivoluzionaria si era esplicato soprattutto sul piano dell'organizzazione anarchica, con l'apporto determinante dato alla fondazione e alla vita dell'Unione Anarchica Italiana, colse rapidamente il pericolo rappresentato dal fascismo emergente, e ne seppe analizzare con grande acutezza i caratteri fondamentali. Con l'opuscolo La Controrivoluzione preventiva, (1922), in cui il successo reazionario trovava una spiegazione alla luce soprattutto delle debolezze strutturali e degli errori soggettivi dello schieramento proletario, egli sviluppava un'analisi del fenomeno "tuttora valida e riscontrabile, anche a distanza di quasi cinquant'anni, in sede di storiografia contemporanea". Dalla collaborazione con Malatesta nasce la rivista Pensiero e Volontà (1924-26), momento di riflessione e di sintesi di elevato valore intellettuale ed etico.


UOMINI UOMINI – Roby Crispiano

In me vedete

milioni di volti

bambini sciupati

dagli occhi sbarrati

che cercano invano  

tra mucchi di corpi  

il perché


Puzzo di zolfo 

che viene dall'Est 

voci tremanti 

chiedono a voi 

chiedono amore 

chiedono pace

ma a chi

a chi?


Chiedono a chi non vuole la pace

chiedono a quelli che fanno la guerra 

grido con loro 

al bando  la guerra  

con loro


Uomini uomini vi odio tutti

voi che donate nei cuori di tanti 

l'odore acre dei giorni di morte 

ma perché?


In me vedete

milioni di volti

bambini sciupati

dagli occhi sbarrati

con mani tremanti

che chiedono al cielo

l'amore

la pace


Uomini uomini vi odio tutti

voi che donate nei cuori di tanti 

l'odore acre dei giorni di morte 

ma perché?


In me vedete

milioni di volti

bambini sciupati

dagli occhi sbarrati

con mani tremanti

che chiedono al cielo

l'amore

la pace


Chiedono amore

wow wow


Chiedono pace

wow wow


Nell'era del Cyborg

Il termine cyborg deriva dalla contrazione di cybernetic organism e fu introdotto dagli scienziati M.E. Clynes e N.S. Kline nel 1960 in un articolo dal titolo “Cyborgs and space”. In quell’occasione, nell’ambito delle esplorazioni spaziali, gli autori proponevano di alterare le funzioni corporee in modo che l’uomo potesse adattarsi agli ambienti extraterrestri, piuttosto che procuragli un ambiente terrestre nello spazio. Questa modificazione si sarebbe potuta realizzare attraverso un cosiddetto “organismo-artefatto” che avrebbe espresso l’autoregolazione omeostatica naturale per adattare l’organismo al nuovo ambiente. Si ipotizzava quindi un sistema osmotico impiantato nel corpo per la somministrazione continua e a velocità variabile di sostanze biologicamente attive a diversi organi. Questo sistema, combinato con meccanismi sensori, definirebbe un controllo a ciclo continuo che agirebbe parallelamente a quello autonomo del corpo. Nel caso dei viaggi spaziali le sostanze somministrate regolerebbero l’ossigenazione, la temperatura, la pressione, il bilancio dei fluidi, le funzioni muscolari, cardiovascolari e vestibolari, i processi enzimatici e metabolici e lo stato di veglia, oltre a controbilanciare gli effetti della gravitazione, dei campi magnetici e delle radiazioni e contrastare i problemi percettivi di invarianza sensoriale e di deprivazione dell’azione. Cosi il cyborg è un organismo eterogeneo in parte animale (umano) e in parte artificiale, nello specifico un uomo macchinizzato o all’inverso una macchina umanizzata, senza una vera e propria predominanza dell’uno o dell’altro aspetto. In questo concetto si incontrano/scontrano temi quali il paradigma scientifico, la biologia, la tecnologia, la cibernetica, la comunicazione, l’identità, la sessualità e la (bio)politica. Questa tecno-penetrazione e macchinificazione della carne, che viola la membrana umano-macchina, si inserisce nella realtà attuale dominata dall’ipertecnologia, dal numero, dalla velocità e dall’efficienza. L’uomo, per come lo abbiamo conosciuto finora, non ha più le caratteristiche per mantenere un determinato adattamento. Sarà richiesto di disfarci della pretesa di essere nient’altro che macchine biologiche, affidarci alla tecnologia e diventare macchine, per essere migliori. (Gianluca Toro)


giovedì 9 novembre 2023

Gli anni di Volontà e l'agitazione contro la guerra – Luigi Fabbri

L'esperienza del Pensiero, si esaurì proprio mentre si apriva nel paese un periodo agitato e convulso, caratterizzato da grandi lotte sociali, in parte dirette dai sindacalisti rivoluzionari e dagli anarchici confluiti nell'Unione Sindacale Italiana. Col rientro di Malatesta in Italia, nel 1913 iniziava ad uscire ad Ancona Volontà, che si proponeva di affiancare criticamente le agitazioni popolari indirizzandole verso uno sbocco coscientemente rivoluzionario. Il fallimento dei moti della Settimana Rossa (giugno 1914) che rappresentano il punto più alto di scontro sociale raggiunto fino a quel momento nella storia dell'Italia unita, e la nuova fuga di Malatesta attivamente ricercato dalla polizia, imposero a Fabbri l'assunzione in prima persona della responsabilità del giornale. Nuovi e drammatici problemi si affacciavano. Lo scoppio della guerra europea provocò nel paese una frattura tra interventisti e neutralisti, che divise lo stesso campo sovversivo. La grande maggioranza degli anarchici, con Fabbri in prima fila si schierò decisamente contro la guerra e lottò disperatamente per evitare un coinvolgimento dell'Italia. La guerra, egualmente dichiarata, comportò la sospensione di Volontà e di quasi tutti gli altri organi di stampa libertaria. L'attività antimilitarista rivoluzionaria proseguì tra notevoli difficoltà, clandestinamente, per tutta la durata del conflitto. A Fabbri si deve, tra l'altro, uno dei documenti politicamente più rilevanti di questo sforzo anti-bellico: il manifesto La guerra europea e gli anarchici, apparso a Torino nell'aprile 1916, a firma "Un gruppo di anarchici", in risposta al noto "Manifesto dei Sedici", pubblicato a Parigi da esponenti intellettuali di primo piano dell'anarchismo internazionale (Kropotkin, Cornelissen, Grave, ecc.), che si erano dichiarati favorevoli alla guerra a fianco dell'Intesa. Sempre a Torino, nell'aprile 1917, apparve "edito a cura del circolo operaio", in realtà scritto da Fabbri, il numero unico Eppur si muove!, la prima dichiarazione pubblica dell'anarchismo italiano sulla rivoluzione russa ("finalmente un fascio di luce viva e sfolgorante ha rotto all'improvviso, la fitta e buia nebbia di dolore e di sangue, di menzogna e di morte, che da ormai tre anni avvolge e uccide l'umanità").


FUNERALE DELL’AGITATORE NELLA CASSA DI ZINCO – Bertold Brecht

Qui, in questo zinco

un uomo morto,

o le sue gambe o la sua testa,

o di lui anche qualcosa di meno,

o nulla, perché era

un agitatore.


Fu riconosciuto fondamento del male.

Sotterratelo. E’ meglio

che solo la moglie vada con lui allo scorticatoio.

Chi altri ci vada

è segnato.


Quel che è lì dentro

a tante cose vi ha aizzati:

a saziarvi

e a dormire all’asciutto

e a dar da mangiare ai figliuoli

e a non mollare di una lira

e alla solidarietà con tutti

gli oppressi simili a voi, e

a pensare.


Quel che è lì dentro vi ha detto

che ci vuole un altro sistema nella produzione

e che voi, le masse del lavoro, milioni,

dovete prendere il potere.

Per voi, prima non andrà mai meglio.


E siccome quel che è lì dentro ha parlato così,

l’hanno messo lì dentro e dev’esser sotterrato,

l’agitatore che vi ha aizzati.

E chi parlerà di saziarsi

e chi di voi vorrà dormire all’asciutto

e chi di voi non mollerà di una lira

e chi di voi vorrà dar da mangiare ai figliuoli

e chi pensa e si dice solidale

e tutti coloro che sono oppressi,

quello, da ora fino all’eternità,

dovrà essere chiuso nella cassa di zinco

come questo che è qui,

perché agitatore; e sarà sotterrato.


Ritorno parodistico al passato

Il crimine contro l’umanità è l’atto fondatore di un sistema economico che sfrutta l’uomo e la natura. Il corso millenario e sanguinoso della nostra storia lo conferma. Dopo essere giunta all’apice con il nazismo e lo stalinismo, la barbarie ha recuperato i suoi fronzoli democratici. Ai nostri giorni stagna e rifluisce come una risacca in un passato senza sbocco, ripetendosi in forma parodistica. È questo rimaneggiamento caricaturale che i gestori del presente si sforzano di mettere in scena. Li si vede invitarci beatamente allo spettacolo di un decadimento universale in cui si mescolano gulag sanitario, caccia allo straniero, messa a morte dei vecchi e degli inutili, distruzione delle specie, soffocamento delle coscienze, tempo militarizzato del coprifuoco, fabbrica dell’ignoranza, esortazione al sacrificio, al puritanesimo, alla delazione, alla colpevolezza. L’incompetenza degli sceneggiatori nominati non diminuisce in alcun modo l’attrazione delle folle per la maledizione contemplativa del disastro. Anzi! Milioni di creature ritornano docilmente alla cuccia, dove si riparano fino a diventare l’ombra di se stessi. I gestori del profitto sono arrivati al risultato che solo una reificazione assoluta avrebbe potuto pretendere: hanno fatto di noi degli esseri timorosi della morte al punto di rinunciare alla vita. (Raoul Vanelgem)


giovedì 2 novembre 2023

LUIGI FABBRI - Il periodo di formazione e gli anni del "Pensiero"

Fabbri entrò nel movimento anarchico giovanissimo, a soli diciassette anni, dopo aver attraversato una breve fase repubblicana. Determinante per l'adesione del giovane agli ideali libertari, fu la propaganda di un individualista di Recanati, Virgilio Condulmari, che lo indirizzò nei suoi primi passi con letture e discussioni. Dall'individualismo il giovane approdò ben presto, per evoluzione personale, a concezioni "armoniste" kropotkiniane. A questo punto nel 1897, quando già si era messo in evidenza come ribelle e aveva sperimentato il carcere, avvenne un fatto di importanza decisiva nella sua vita: l'incontro con Malatesta, che nascosto sotto falso nome, dirigeva ad Ancona il periodico L'Agitazione. Si creò immediatamente tra i due rivoluzionari un rapporto di amicizia e di collaborazione che sarebbe durato tutta la vita. In collaborazione con Pietro Gori, nel 1903 Fabbri fondava la rivista Il pensiero, che continuava ad uscire ininterrottamente fino al 1911, affermandosi ben presto come la più importante pubblicazione anarchica italiana dell'età giolittiana, "con un taglio ed uno spessore che non la faceva sfigurare a fronte di altre riviste coeve, come la Critica sociale di Turati, Il Socialismo di Ferri, la Rivista popolare di Colajanni, Il Divenire sociale di Leone" (5). Di notevole livello politico e culturale, Il Pensiero si avvaleva della collaborazione dei maggiori esponenti dell'anarchismo internazionale, oltreché dell'apporto di letterati ed artisti di una certa fama non anarchici, come Giovanni Cena, Rina Faccio (Sibilla Aleramo), Sem Benelli, Filiberto Scarpelli, il sociologo Roberto Michels, e altri. Sulle pagine della rivista, praticamente diretta dal solo Fabbri, a causa dei lunghi viaggi all'estero e delle precarie condizioni di salute di Gori, vennero dibattuti e sviluppati tutti i problemi di maggiore interesse coi quali il movimento libertario si trovava allora a fare i conti (individualismo, organizzazione, sindacalismo, libero pensiero, educazionismo, controllo delle nascite, ecc.). La rivista assolse a un compito fondamentale di chiarificazione e di orientamento, contribuendo potentemente a restituire al pensiero libertario il posto che gli spettava nella cultura politica del tempo.


GLI INGANNATI (Al Makudu’un) - Tewfik Saleh

L'anziano Abu Qais attraversa a piedi il deserto; camminando nella terra arida si avvicina ai resti di una persona, presagio di morte, e rivive nella  memoria  alcuni attimi della sua vita nel villaggio d'origine. Il presente e il passato si confondono in un delirio febbrile. Come molti altri palestinesi, Abu Qais ha lasciato la famiglia per tentare di raggiungere il Kuwait, e cercare lavoro. Sulle rive del fiume Shatt El Arab fa la conoscenza di altri due palestinesi – un giovane promesso sposo e un adolescente costretto dal padre ad abbandonare la scuola per sfamare  la famiglia - che, come lui, stanno cercando un passaggio clandestino, anche pagando una consistente somma di dinari. I tre incontrano un vecchio camionista che accetta, dietro compenso, di portarli in Kuwait, facendo loro superare il confine iracheno a bordo del suo camion-cisterna. Il viaggio si rivela un vero e proprio inferno a causa delle condizioni climatiche e della prova cui i tre uomini sono, per due volte, sottoposti: per aggirare altrettanti posti di frontiera devono infatti nascondersi per pochi minuti nella cisterna, dove la temperatura raggiunge un livello insostenibile. Il primo controllo viene superato. La  seconda volta, però, l'autista è trattenuto troppo a lungo negli uffici doganali. La sua lotta contro il tempo per salvare i tre uomini è  inutile. I cadaveri vengono abbandonati in un cumulo di immondizie. Al-
Makudu'un
è un  capolavoro di cinema apolide e senza tempo che, con uno stile crudo e visionario, un realismo privato di ogni riferimento didascalico e una narrazione anti-convenzionale, racconta  la disperazione e la tragedia di un popolo, quello palestinese, senza terra e doppiamente abbandonato: tradito dalle istituzioni politiche arabe e invaso, massacrato dai sionisti, come  ricorda la voce fuori campo, alla quale spesso è dato il compito di descrivere i fatti politico-sociali preesistenti, con un tono che si mantiene espressamente  anti-realistico. La scelta di girare un'opera dove l'aspetto militante scaturisce da un discorso filmico quasi sperimentale ha reso possibile il perdurare della straordinaria modernità di 
Al-Makudu'un. L'inizio, in tal senso, è esemplare. Poche inquadrature sono sufficienti per rendere evidente il dolore della perdita, della mancanza di un territorio, che obbliga all'erranza individui che simboleggiano un'intera popolazione. 



Due parole sulla tecnologia - Marco Camenisch

Abbiamo bisogno di un mix di pessimismo e di ottimismo. Le questioni sono aperte. Questa civiltà fa schifo, questo è il pessimismo che dobbiamo cercare di tramandare, la consapevolezza che la civiltà è letale. Ma la questione è aperta. Ci sono degli scritti di Jarach che mi sono piaciuti, in cui dice che noi come anarchici non dobbiamo essere troppo duri e puri… La storia non ha ancora dimostrato quale tipo di organizzazione sia quella giusta per raggiungere l’obiettivo di una rivoluzione, quindi anche noi come anarchici a un certo punto dobbiamo sospendere il giudizio, su cosa intendiamo per autoritario o antiautoritario, su come organizzarci insieme alle persone normali, oppure tra di noi, oppure con i comunisti. Jarach dice che la questione dell’organizzazione non è ancora stata risolta, nella storia non ci sono risposte, sono tutte da verificare, non si sa cosa funziona meglio in una data situazione. Perché l’errore che commettiamo spesso è che facciamo confusione e agiamo, pensiamo e predichiamo come se la rivoluzione fosse già avvenuta. Siamo in una certa situazione con determinate condizioni e dobbiamo agire in modo molto contraddittorio e non possiamo agire se diciamo: “no, ho ragione io”. Quindi penso che dobbiamo essere molto cauti nel fare affermazioni, nel dire le cose sono così e così, dobbiamo verificare le cose, verificarle da noi e insieme ad altre persone. E poi chiederci: cosa posso fare? Jarach, e credo anche tu John, dite che anche l’anarchismo è un’ideologia moderna e perciò dobbiamo metterla in discussione, anche in collegamento con le lotte che ci sono attorno a noi. Non possiamo pretendere che gli indiani siano dei perfetti primitivisti o degli anarchici, infatti non lo sono. E noi lo siamo? No, neanche noi lo siamo! Sono io che devo sapere come cambiare, e poi chiedere alle persone che mi stanno vicino di cambiare in modo da rispettare l’autodeterminazione. Per me forse è una scorciatoia ma quando rifletto sull’anarchismo, il primitivismo è lì, è al suo interno, è logico, ovvio. Così come è logico che se hai il concetto di anarchia (apposta non ho detto (anarchismo) la critica della civiltà è basilare, fondamentale, perché la civiltà non ha nulla di anarchico, lo dimostra l’intera storia e a maggior ragione l’attualità, per cui spesso nelle discussioni posso soltanto dire che le cose sono semplici: se pensi alla rivoluzione, una vera rivoluzione, l’analisi primitivista anarchica è in un certo senso ovvia. Se non possiedi questi strumenti per capire come vanno le cose, penso che non avrai l’opportunità di andare alle fondamenta, di andare davvero alla radice delle cose. Senza andare alla radice non è possibile cambiare per davvero le cose, perché altrimenti ci si fermerà sempre a un certo limite… ci penserà la prossima generazione… ma magari la prossima generazione vorrà Facebook, no? O forse invece non lo vorrà, dirà che è un’alienazione, che è controproducente e così via. Ma cosa dirai alle giovani generazioni ormai abituate a Facebook, devi dire loro che hai le stesse critiche di base che devi avere contro le automobili, che però usi pure tu…