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giovedì 28 marzo 2019

ALFIERI Odoardo anarchico

ALFIERI Odoardo detto “Mignola” (piccolo di statura) nasce a Parma il 23 dicembre 1854. Dapprima repubblicano con un profondo sentimento di classe anticlericale, svolge la propria attività in campo sindacale nelle organizzazioni mazziniane. Nei primi anni ottanta diviene presidente della Società di mutuo soccorso fra i lavoratori fornai e pastai di Parma e promuove tra l’altro alcune delle prime agitazioni in Italia contro il lavoro notturno. Nel 1883 guida con successo le lotte per il riconoscimento del cottimo, e nel giugno del 1885 ottiene l’istituzione del lavoro diurno, inizialmente condivisa anche dal Comitato dei negozianti fornai. Poco dopo però si verifica la rottura fra negozianti e operai per il tentativo di Alfieri di far adottare un sistema di turni per dare lavoro ai disoccupati in alcuni giorni della settimana. Lo sciopero che ne consegue assume un carattere particolarmente aspro, e la mattina del 5 settembre Alfieri ed altri operai vengono tratti in arresto come istigatori dello sciopero stesso e per “minacce a vie di fatto contro altri loro compagni che volevano recarsi al lavoro”. Per questo verrà condannato a sei mesi di carcere. In quegli anni è anche presidente della Società operaia “Fratellanza e Umanità” e dirigente politico della Federazione repubblicana - socialista di Parma. A partire dal 1891 abbraccia definitivamente il pensiero libertario diventando uno tra i più apprezzati  e stimati rappresentanti del movimento anarchico in città particolarmente radicato nella zona dell’Oltretorrente.
Durante l’ultimo decennio del secolo diviene l’oratore più passionale e rivoluzionario tra i lavoratori del parmense. Sono gli anni in cui mantiene rapporti epistolari con Gori e Molinari e costituisce a Parma il Circolo di studi sociali. Collabora con numerosi giornali anarchici e democratici editi a Parma: “Il Miserabile”, “Il Presente”, La Difesa” e in particolare “Il Nuovo Verbo”, il primo giornale anarchico di Parma. Collabora inoltre con i giornali di Reggio Emilia “Lo Scamiciato”, “Rinascita”, “L’Intransigente” e con “L’Avvenire anarchico” di Pisa. In quegli anni subisce numerose condanne per la sua attività politica. In seguito all’introduzione delle leggi speciali, il 10 settembre del 1894 viene denunciato per l’assegnazione al domicilio coatto. L’apposita commissione provinciale propone una condanna di tre anni e lo destina a Poto Ercole. Ma prima della sentenza definitiva abbandona la famiglia e si rifugia a Fiume in territorio austriaco. Nuovamente arrestato nel 1897 con altri 14 anarchici esuli viene  estradato in Italia e dopo aver girato varie località finisce di scontare la sua pena a Ventotene nel 1900. Nel 1899 collabora al numero unico “I Morti”, uscito ad Ancona redatto collettivamente dagli anarchici italiani che in quell’anno si trovavano al domicilio coatto. Criticato dai moralisti perché ama due donne e giudicato “mattoide” dai riformisti Alfieri vive sempre con dignità e orgoglio la propria idealità libertaria. Nel 1906 si trasferisce nella vicina Reggio Emilia dove gestisce un chiosco di bibite. Nell’ottobre del 1910 presiede a Reggio un pubblico comizio in memoria di Francisco Ferrer. Prende parte alla manifestazione unitaria che si tiene il 14 giugno 1914 contro gli eccidi della Settimana Rossa. Contrario all’intervento in guerra nel 1915 (suo figlio morirà al fronte), partecipa alle manifestazioni che accompagnano la mobilitazione contro l’entrata in guerra dell’Italia. Con l’avvento del fascismo, nonostante l’età, continua a essere considerato “pericoloso” e sorvegliato dalla Questura. Muore di vaiolo il 29 marzo del 1928 nel lazzaretto di Villa Ospizio a Reggio Emilia.   

L’utopia Capitalista

Il capitale concentrato su scala mondiale è dotato ormai di cervelli collettivi, identificati negli apparati statali e nei vertici tecno-burocratici – è in grado di dispiegare una propria strategia globale, fondata sulla cogestione e sul coinvolgimento dei dominati. La miseria e la brutalità evidenti, riservate alle parti del mondo non ancora toccare dal progresso tecnologico e ai ghetti interni dei “diversi”, sono esibite spettacolarmente come minaccia e ricatto, ma escluse all’interno del blocco capitalista avanzato. Rinunciando al colonialismo e alla guerra tra Stati nazionali, il capitale stende a tutti la partecipazione, giungendo a sussumere l’interiorità stessa del popolo senza confine dei suoi schiavi.
Tutta la vita dei proletari, compreso il tempo libero del lavoro, che in precedenza veniva semplicemente ignorato, diventa oggetto dello sfruttamento. Dal momento in cui il capitale riesce a imporre compiutamente la socializzazione del credito – vendite a rate, mutui, cambiali ecc. -, la compravendita della forza lavoro conquista tutto lo spazio e tutto il tempo della sopravvivenza dei proletari: il salario serve per pagare la sopravvivenza dell’anno passato, acquistata a credito. Il proletario si trasforma in medium dell’estrazione del plus valore nelle ore passate sul luogo del lavoro, mentre, per tutto il resto del tempo, le sue qualità, i suoi bisogni e desideri si trasformano in materia estrattiva. Il linguaggio della persuasione occulta diventa la coazione che trasforma tutti i bisogni umani in bisogni dell’apparato produttivo, capovolgendo la legge della domanda e dell’offerta. L’universo produttivo determina ogni momento della sopravvivenza del lavoratore-consumatore, agganciandolo alla catena merce-desiderio-sublimazione in ruoli e obblighi sociali. Nello stesso tempo, la scienza – accumulazione dei significati dell’esperienza di tutti – organizza lo spettacolo del regno delle macchine come regno dell’unica libertà possibile.

Malatesta e la libertà

La libertà è il solo mezzo per arrivare, mediante l'esperienza, al vero ed al meglio: e non vi è libertà se non vi è libertà dell'errore.
Libertà dell'errore, vale a dire libertà come concetto laico di verità e quindi come possibilità, per tutti, di dare seguito alle proprie idee purché non limitino la realizzabilità di quelle altrui. Questa libertà, scopo e mezzo di ogni progresso umano, deve essere infatti per noi e per i nostri amici, come per i nostri avversari e nemici. Gli anarchici, cioè, amano correre i rischi della libertà. Noi siamo per la libertà non solo quando ci giova, ma anche quando ci nuoce. E solo così vi può essere libertà. Essa si definisce come possibilità di pensare e propagare il proprio pensiero, libertà di lavorare e di organizzare la propria vita nel modo che piace; non libertà s'intende di sopprimere la libertà e di sfruttare il lavoro degli altri. Per conseguenza gli anarchici intendono conquistare la libertà per tutti, la libertà effettiva, s'intende, la quale suppone i mezzi per essere liberi, i mezzi per poter vivere senza essere obbligati di mettersi alla dipendenza di uno sfruttatore, individuale o collettivo.  

giovedì 21 marzo 2019

Il processo di Pescara - rivolta nel carcere il 31 luglio 1973

Il processo di Pescara, celebrato dal 18 settembre al 31 ottobre 1973 contro 50 detenuti colpevoli, secondo l’accusa, di aver dato luogo a una violenta protesta contro lo stato dell’attuale sistema penitenziario, si è trasformato ben presto in una denuncia delle responsabilità avute dalle autorità governative per il mancato accoglimento delle richieste dei detenuti. L’avvocato difensore discute la linea politica adottata dalla difesa, la quale è riuscita a far ridurre i 110 anni complessivi richiesti dal pubblico ministero a 9 anni per il solo reato di danneggiamento e a conseguire l’assoluzione per il reato di resistenza aggravata.
Non è facile spiegare in poche parole la qualità politica del comportamento dei detenuti di Pescara. C'è tutta una letteratura che ''spiega" il livello di coscienza degli operai di una fabbrica. del proletariato in un quartiere, del popolo intero in una città. Specie quando si tratta di letteratura agiografica i comportamenti vengono caricati di molti significati che ne deformano la vera natura, e il livello di coscienza viene descritto come aderente ad un disegno politico che è in realtà estraneo ed esterno ma che viene presentato come prodotlo spontaneo di questi stessi comportamenti e di questa stessa coscienza. Per i detenuti in rivolta, per le "canaglie" che osano lottare per diritti inalienabili e per difendere interessi materiali di natura elementare quanto essenziale, la letteratura agiografica cerca di “spiegare" ancora una volta tutto, ma fa un buco nell’acqua e dimostra così i suoi limiti generali che emergono sia quando I'analisi riguarda la società dentro le carceri. sia quando riguarda la società fuori dalle carceri.
Il  proletariato fuori dalle carceri, in fabbrica, in quartiere, in campagna è composto di uomini in libertà provvisoria, e se in carcere ì'aliquota che vi entra è bensì alta ma non altissima ciò dipende solo dal fatto che c'è troppo bisogno di questa classe di "delinquenti" per alimentare la produzione capitalistica. Per le classi popolari, il carcere ha la stessa natura dell’infortunio sul lavoro, della malattia, della disoccupazione, ha la natura insomma dei fenomeni sociali dipendenti in maniera specifica dal modo di produzione di una società governata dalla borghesia. Ci si ribella più facilmente quando si ha lavoro, casa e salute: ma ci si ribella anche quando la propria integrità sociale e gravemente lesa o quando è del tutto annullata. Ciò che non muta mai è la natura di classe di chi si ribella. anche se mutano le condizioni della lotta e lo stimolo iniziale.
"Solitamente noi detenuti veniamo considerati dall'attuale società come delle rarità, degli spauracchi, sotto gli appellativi di ladri, rapinatori, delinquenti e tutto ciò ci è stato confermato dall'articolo comparso sul quotidiano «Il Tempo». Ebbene signori, le nostre dimostrazioni pacifiche e non pacifiche all'interno delle carceri, vogliono far capire che noi siamo uomini uguali a tutti gli altri, con gli stessi diritti e doveri. Anche noi come tutti voi, abbiamo le nostre aspirazioni, i nostri ideali, una nostra coscienza e un nostro orgoglio. (…) Prima o poi, siamo sicuri che il proletariato giungerà a processare tutti i padroni, anche se sono duri a morire e capaci di commettere le azioni più nefaste per raggiungere e conservare il potere ed esercitare la propria dittatura. Siamo sicuri che così ci sarà una giustizia veramente popolare e non di classe, come quella che finora ci è stata data dagli attuali ma sorpassati codici, alla cui autorità noi non crediamo. (…) Ma abbiamo scoperto che la nostra unità ci dà la forza di combattere contro la giustizia borghese, e chiediamo e chiederemo sempre ciò che ci è stato sempre negato e, nel nostro caso specifico, l'abolizione della recidiva, l'abolizione della carcerazione preventiva, l'abolizione della chiamata di correo e l'abolizione dei reati d'opinione. Chiediamo inoltre la riforma carceraria e la riforma del codice, il diritto ai rapporti eterosessuali,
amnistia e indulto per tutti, facoltà di organizzazione e diritto di lavoro giustamente retribuito, nonché il diritto allo studio”.
(Dichiarazione letta nell'aula del tribunale di Pescara, il 21 settembre 1973, dal compagno Flavia Zoin, a nome dei carcerati processati per la rivolta.)

HIGGS BOSON BLUES di Nick Cave

Alberi in fiamme costeggiano la strada
Non riesco a ricordare assolutamente nulla
Ma sto guidando la mia auto giù verso Ginevra
Sono rimasto seduto nel mio cortile interrato
C'era molto caldo
E di sopra le ragazze passavano
Con le loro rose in fiore
Hai mai sentito parlare dell'Higgs Boson Blues?
Sto andando a Ginevra, tesoro
Dovrebbero insegnartelo
A chi importa? A chi importa cosa ci porterà il futuro?
Lunghe strade nere, ed io guido e guido
Sino ad arrivare ad un bivio
La notte era bollente e nera
Ho visto Robert Johnson con una chitarra da 10 dollari
fissata sulla schiena, in cerca di una melodia
Ecco che arriva Lucifero
Con la sua legge canonica ed un centinaio di bambini neri
che scappano dalla sua mascella genocida
Ha davvero un incavo da omicida
Robert Johnson ed il diavolo
Non capivo chi stava fregando chi
Guidando la mia auto, alberi in fiamme andavano a fuoco
Sedendo e cantando l'Higgs Boson Blues
Sono stanco, cerco un posto dove lasciarmi cadere
Tutti gli orologi si sono fermati
a Memphis, adesso
Al Lorraine Motel, è caldo, è caldo
E' per questo che la chiamano la "Zona Calda"!
Prendo una camera con vista
E sento un uomo predicare in un linguaggio completamente nuovo
Faccio sanguinare le brande di questa topaia
Mentre le donne delle pulizie singhiozzano nei loro stracci
Ed un fattorino saltella e ballonzola
E uno sparo risuona come un ritmo spirituale
Tutti sanguinano all'Higgs Boson Blues
E se dovessi morire stanotte
Seppellitemi con le mie scarpe preferite giallo vernice
Con un gatto mummificato ed un cappello a forma di cono
Che il califfato ha imposto agli Ebrei
Riesci a sentire il battito del mio cuore?
Riesci a sentire il battito del mio cuore?
Hannah Montana mette in scena la savana africana
E mentre la finta stagione delle pioggia inizia
maledice la coda al cesso dello zoo
e si sposta in Amazzonia
dove piange con i delfini
I Mau Mau mangiano i nani
Ed i nani mangiano le scimmie
E le scimmie hanno un regalo
che stanno per mandarti indietro
Ecco che arriva il missionario
con il suo vaiolo e la sua influenza
Li sta salvando, i selvaggi
con il suo Higgs Boson Blues
Sto guidando verso Ginevra
Sto guidando verso Ginevra
Oh, lascia che questo dannato giorno finisca
I giorni di pioggia mi rendono sempre triste
Miley Cyrus fluttua in una piscina a Toluca Lake
E tu sei la ragazza migliore che abbia mai avuto
Non riesco a ricordare assolutamente nulla

L'ultimo discorso del Sub Comandante Marcos - parte quinta

Marcos, il personaggio, non era più necessario. 
La nuova tappa nella lotta zapatista era già pronta. Successe allora quello che successe e molte e molti di voi, compagni e compagne della Sexta, lo conoscete direttamente. Poi potrete dire che quello del personaggio fu qualcosa di ozioso. Però una revisione onesta di quei giorni dirà quante e quanti si girarono a guardarci, con piacere o dispiacere, per le ridicolaggini di un pupazzo. Così che il cambio del comando non avviene per malattia o morte, né per sgombero interno, purga o depurazione. Avviene logicamente in base ai cambi interni che ha avuto e che ha l'EZLN. 
Se mi permettete un consiglio: dovreste avere un po' di senso dell'umorismo, non solo per la salute mentale e fisica, ma anche perché senza il senso dell'umorismo non riuscite a comprendere lo zapatismo. E quello che non capisce, giudica; e quello che giudica, condanna. In realtà questa è stata la parte più semplice del personaggio. Per alimentare dicerie bastò solamente dirle. 
I principali collaboratori involontari della diceria della malattia e della morte sono stati gli “esperti in zapatologia” che nella presuntuosa Jovel e nella caotica Città del Messico si presumono come vicini allo zapatismo e suoi profondi conoscitori, oltre, è chiaro, ai poliziotti che anche si fanno pagare come giornalisti, i giornalisti che si fanno pagare come poliziotti, ed i e le giornaliste che solo si fanno pagare, e male, come giornalisti. 
Grazie a tutte e tutti loro. Grazie per la loro discrezione. Hanno fatto esattamente come supponevamo che avrebbero fatto. L'unico lato negativo di tutto questo, è che ad esso dubito che qualcuno confidi loro un  segreto.
É una nostra convinzione ed una nostra pratica che per ribellarsi e lottare non sono necessari né  leader né capi né messia né salvatori. Per lottare si ha solo bisogno di un po di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione.
Tutto il resto, o serve al collettivo o non serve.
Coloro che amarono e odiarono il SupMarcos adesso sanno che hanno odiato e amato un ologramma. I loro amori ed odi sono stati, cioè, inutili, sterili, vuoti. Non ci sarà allora una casa-museo o targhe di metallo dove nacqui e sono cresciuto. Né ci sarà chi viva dell'essere stato il subcomandante Marcos. Né si erediterà il suo nome né il suo incarico. Non ci saranno viaggi all inclusive per dare conferenze all'estero. Non ci saranno trasferimenti né cure mediche in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né ereditieri. Non ci saranno funerali, né onori, né statue, né musei, né premi, né niente di ciò che il sistema fa per promuovere il culto all'individuo e per disprezzare il collettivo.
Il personaggio fu creato e adesso i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggono. 

giovedì 14 marzo 2019

Le rivolte e le lotte nelle carceri italiane nel biennio 1971-72 (Capitolo VI)

9 giugno: NICOSIA (Enna). I detenuti scendono in lotta: chiedono tra l’altro il rientro nelle carceri di Napoli di venti detenuti minorenni trasferiti dopo la rivolta di Poggioreale.
9 giugno: CATANIA. Tutti i detenuti della sezione minori si barricano nelle loro celle impedendo agli agenti di avvicinarsi. Si temevano trasferimenti punitivi. La parola d’ordine è: “No ai trasferimenti, sì all’amnistia e alla libertà”. La polizia circonda il carcere e carica i numerosi proletari e parenti raccolti attorno alle mura.
9 giugno: SULMONA. Molti detenuti fanno lo sciopero della fame in solidarietà coi compagni di Poggioreale, per l’amnistia e la riforma dei codici.
11-14 giugno: TORINO. Un centinaio di detenuti dopo l’ora d’aria non rientrano in cella e si riuniscono in un cortile (malgrado piova), rientrano solo con l’assicurazione che una delegazione sarà ricevuta dalla direzione. Obiettivi: amnistia generale, riforma dei codici, più libertà all’interno (più ore d’aria, colloqui, abolizione della censura, dei letti di contenzione, delle celle d’isolamento, paga sindacale per i lavoranti). Qualche giorno dopo alcuni compagni sono pestati a sangue dalle guardie e trasferiti. Dopo la denuncia, venti secondini riceveranno un avviso di reato per “abuso di potere”!
13 giugno: SALERNO. Sciopero della fame in solidarietà coi compagni di Poggioreale.
8 luglio: FIRENZE, LE MURATE. Verso le ventitré e trenta le guardie con a capo il direttore ed alcuni sottufficiali trascinano fuori dalle celle alcuni detenuti e li pestano a sangue nelle celle di punizione, senza alcuna ragione. Dopo cinque giorni di isolamento, i compagni vengono trasferiti e denunciati per “rivolta”.
8 luglio: LUCERA (Foggia). I detenuti organizzano una protesta per il caldo e la segregazione in cui sono tenuti.
10 luglio: ROMA-REBIBBIA. Nuova protesta di centocinquanta detenuti del carcere “modello” di Rebibbia. Il giorno dopo quarantacinque detenuti sono massacrati di botte nei sotterranei alla presenza dei due vicedirettori del carcere. I detenuti da pestare sono scelti in base alla lista nera dello stesso direttore del carcere, che verrà incriminato, il 28 luglio, insieme ai due vicedirettori e a diverse guardie per violenza privata, lesioni, abuso di potere..
19 luglio: PIACENZA. I detenuti protestano contro l’attuale sistema carcerario. Vengono domati a raffiche di mitra.
5 agosto: SULMONA. Protesta dei detenuti contro la censura sui programmi radio, T.V., giornali, eccetera.
5 agosto: VOLTERRA. I detenuti per sette ore si rifiutano di entrare nelle celle e chiedono di parlare con un magistrato.
6 agosto: VICENZA, CARCERE DI SAN BIAGIO. Protesta contro le condizioni igieniche disastrose di questo carcere, costruito nel 1300, umido, sporco, senza luce.
8 agosto: VOLTERRA. Per la seconda volta in pochi giorni i detenuti del Mastio di Volterra si rifiutano di rientrare in cella e chiedono di parlare con il magistrato. Richieste: maggior tempo di “aria”, fine della censura, cibo mangiabile, che nessuno venga punito per la protesta.
15 agosto: SASSARI. I detenuti si rifiutano di rientrare in cella e impongono la presenza di un magistrato, al quale motivano le parole d’ordine collettive della lotta: amnistia, riforma dei codici, migliori condizioni di vita. Nei giorni seguenti dura repressione, con trasferimenti all’Asinara e cinquanta denunce contro i detenuti.
15 agosto: CITTANOVA (Reggio Calabria). Protesta contro le “bocche di lupo” ed i vetri opachi alle finestre.
21 agosto: TRIESTE. Due detenuti di diciassette anni muoiono bruciati vivi durante la rivolta del carcere. La rivolta è scoppiata per protestare contro l’uso continuo del letto di contenzione. I detenuti si barricano, danno fuoco a qualche suppellettile. La direzione risponde con centinaia di poliziotti e carabinieri armati. La zona della rivolta viene (come dicono loro) “circoscritta”, cioè posta in stato d’assedio, mentre le fiamme fanno il loro lavoro, gli assedianti si guardano bene dall’aprire vie di scampo. Due detenuti così bruciano vivi: ragazzi di diciassette anni, Giorgio Brosolo e Ivano Gelaini, quest’ultimo trasferito qui per rappresaglia dalle Nuove di
Torino. Il giorno dopo la rivolta, il dottor Alessandro Brenci, sostituto procuratore della repubblica di Trieste, annuncia che emetterà ordine di cattura per “concorso in omicidio” contro i detenuti scampati al rogo umano. Così giustizia verrà fatta, e si dimostrerà che nelle carceri italiane se non si viene assassinati si ha comunque buone probabilità di restare dentro per sempre.
26 agosto: MASSA. I detenuti si mobilitano e danno una severa lezione ai due fascisti appena arrestati, dopo il tentato omicidio nei confronti di un compagno di Massa di Lotta Continua. Questa è una ennesima dimostrazione di come cresce l’organizzazione e la coscienza antifascista dei detenuti.

PERCHÈ NON HO SALIVA di Anne Waldman

perché non ho saliva
perché non ho robaccia
perché non ho la polvere
perché non ho quello che c’è
nell’aria
perché io sono aria
lasciate che vi tenti col mio magico
potere:
sono una donna che grida
sono una donna di discorso
sono una donna di atmosfera
sono una donna sotto vuoto spinto
sono una donna di carne
sono una donna flessibile
sono una donna con i tacchi alti
sono una donna di stile alto
sono una donna automobile
sono una donna mobile
sono una donna elastica
sono una donna collana
sono una donna sciarpa di seta
sono una donna nonsoniente
sono una donna so-tutto
sono una donna a giornata
sono una donna bambola
sono una donna sole
sono una donna tardo pomeriggio
sono una donna orologio
sono una donna vento
sono una donna bianca
SONO UNA DONNA LUCE D’ARGENTO
SONO UNA DONNA LUCE D’AMBRA
SONO UNA DONNA LUCE DI SMERALDO
sono una donna conchiglia abalone
sono la donna abbandonata
sono la donna confusa, la babelica
donna
la donna aborigena, la donna latitante
la donna assente
la donna trasparente
la donna assenzio
la donna assorbita, la donna
tiranneggiata
la donna contemporanea, la donna
beffarda
l’artista in sogno dentro la sua casa
sono la donna gadget
sono la donna druido
sono la donna Ibo
sono la donna Yoruba
sono la donna vibrato
sono la donna ondeggiante
sono la donna sventrata
sono la donna con le ferite
sono la donna con le tibie
sono la donna che erode
sono la donna sospesa
sono la donna seducente
sono la donna architetto
sono la donna trota
sono la donna tungsteno
sono la donna con le chiavi
sono la donna con la colla
sono una donna che parla in fretta
acqua che pulisce
fiori che puliscono
acqua che pulisce al mio
passaggio

(tratta da: Donna che parla veloce. Anne Waldman (1945), poetessa, saggista, docente universitaria e attivista politica, nel 1974 ha fondato, insieme ad Allen Ginsberg, la Jack Kerouac School of Disembodied Poetics presso il Naropa Institute di Boulder, Colorado, dove tuttora insegna.)

L'ultimo discorso del sub comandante Marcos - parte quarta

Cominciò allora la costruzione del personaggio chiamato “Marcos”.
Il caso è che il Sup Marcos passò da essere il portavoce ad essere un distrattore. Se per intraprendere il cammino della guerra, cioè della morte, ci avevamo messo 10 anni; per intraprendere quello della vita ci occupò più tempo e necessitò di maggiori sforzi, per non parlare di sangue. Perché, anche non lo crediate, è più facile morire che vivere. Avevamo bisogno di tempo per essere e per incontrare chi sapesse guardarci per quello che siamo. Avevamo bisogno di tempo per incontrare chi non ci guardasse dall'alto, né dal basso, ma di fronte, che ci guardasse con lo sguardo di compagno. Vi dicevo che cominciò allora la costruzione del personaggio. Marcos un giorno aveva gli occhi azzurri, un altro li aveva verdi, o marroni, o miele, o neri, dipendendo da chi facesse l'intervista e facesse la foto. Così fu una riserva di una squadra di calcio professionista, impiegato in un negozio, autista, filosofo, cineasta, e i differenti eccetera che potete incontrare nei mezzi di comunicazione commerciali di quei tempi e nelle diverse geografie. C'era un Marcos per ogni occasione, cioè per ogni intervista. E non fu facile, credetemi, non c'era allora wikipedia. Se mi permettete definire Marcos il personaggio, allora direi senza dubbio che fu un pupazzo. Diciamo che, perché mi intendiate, Marcos era un Mezzo di comunicazione Non Libero. 
Nella costruzione e nella gestione del personaggio commettemmo alcuni errori. Durante il primo anno finimmo il repertorio dei “Marcos” possibili. Così che all'inizio del 1995 eravamo in difficoltà ed il processo dei villaggi stava dando i suoi primi passi. Così che nel 1995 non sapevamo come fare. Però allora è quando Zedillo, con il PAN alla mano, “scopre” Marcos con lo stesso metodo scientifico con cui incontra ossa, cioè per delazione esoterica. La storia del tampiqueño ci dette fiato, anche se la frode successiva della Paca de Lozano ci fece temere che la stampa commerciale mettesse in discussione pure la “scoperta” di Marcos e scoprisse che era una ulteriore frode. Fortunatamente non fu così. Così come questa, i mezzi di comunicazione continuarono a  credere ad altre cose simili. Più tardi il
tampiqueño arrivò a queste terre. Insieme con el Subcomandante Insurgente Moisés, parlammo con lui. Gli offrimmo allora una conferenza stampa congiunta, così avrebbe potuto liberarsi dalla persecuzione visto che sarebbe stato evidente che non erano Marcos e lui la stessa persona. Non volle. Venne a vivere qua. Uscì alcune volte, e la sua faccia si può incontrare nelle fotografie di ricordo dei suoi genitori. Se volete potete intervistarlo. Adesso vive in una comunità, Non diremo nient'altro così che lui, se così lo desiderasse, possa un giorno raccontare la sua storia che visse dal 9 febbraio del 1995. Da parte nostra ci interessa solamente ringraziarlo per averci passato dei dati che ogni tanto usiamo per alimentare la “certezza” che il Sup Marcos non è chi è in realtà, cioè un pupazza o un ologramma, ma un professore universitario, originario del attualmente doloroso Tamaulipas. Nel frattempo continuavamo a cercare, cercandovi a voi, a coloro che adesso sono qui e a quelli che non sono qui però ci sono. Lanciammo una iniziativa dietro l'altra per incontrare l'altro, l'altra, l'altro compagno. Differenti iniziative, cercando di incontrare lo sguardo e l'udito di cui avevamo bisogno, che meritavamo. Nel frattempo continuava il miglioramento dei villaggi ed il cambio di cui si è parlato molto o poco, però che si può constatare direttamente, senza intermediari. Nella ricerca dell'altro, una volta dietro l'altra abbiamo fracassato. Chi incontravamo o voleva dirigere o voleva che lo dirigessimo. C'era chi si avvicinava e lo faceva con il tentativo di usarci, o per guardare indietro, sia con la nostalgia antropologica che con quella militante. Così per alcuni eravamo comunisti, per altri trotskisti, per altri anarchici, per altri maoisti, per altri millenaristi, e così avanti, vi lascio i vari “isti” perché poniate quello che vi pare.
Fu così fino alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, la più audace e la più zapatista delle iniziative che abbiamo lanciato fino ad ora. Con la Sexta alla fine abbiamo incontrato chi ci guarda di fronte e ci saluta e abbraccia, e così si saluta ed abbraccia.
Con la Sexta alla fine abbiamo incontrato voi.
Alla fine, qualcuno che capiva che non stavamo cercando né pastori che ci guidassero, né greggi da condurre alla terra promessa. Né padroni né schiavi. Né capi, né masse senza testa. Però mancava di vedere se era possibile che riuscivate a guardare e a sentire ciò che essendo siamo. Internamente, i passi avanti dei villaggi erano stati impressionanti. Così arrivò il corso “La Libertà secondo gli/le zapatisti/e”. In 3 volte, ci rendemmo conto che c'era già una generazione che poteva guardarci di fronte, che poteva ascoltarci e parlarci senza aspettare una guida, né pretendere sottomissione né che la si seguisse.

giovedì 7 marzo 2019

Le rivolte e le lotte nelle carceri italiane nel biennio 1971-72 (Capitolo V)

22 marzo 1972: PALERMO. Viene denunciato un fatto accaduto qualche tempo prima: le guardie, avvertite da una spia che i detenuti dell’Ucciardone stavano preparando uno sciopero, salgono alla sezione e scaraventano i detenuti giù dalle scale, dove vengono picchiati da altri poliziotti. Quando viene il giudice sono costretti dalle minacce a dire di essersi feriti cadendo dalle scale.
8-9 aprile: SAN VITTORE. I detenuti del terzo, quarto, quinto raggio e del braccio femminile protestano contro le centinaia di trasferimenti di sfollamento predisposti dal ministero degli interni per far posto ai “politici” arrestati durante la campagna elettorale. Il 9 aprile decine di bandiere rosse sventolano dai raggi in lotta. Duecento detenuti vengono trasferiti all’Asinara, a Mamone, a Favignana, a Noto.
9 aprile: IMPERIA. Un gruppo di detenuti si rifiuta di rientrare in cella per protestare contro la censura dei giornali.
14 aprile: MESSINA. Rivolta nel carcere per migliori condizioni di vita. P. L. R. per punizione è legato al letto di contenzione, e poi trasferito con altri.
17 aprile: FORLÌ. Scoppia una rivolta per avere più libertà nel carcere-scuola. L’anno prima i detenuti si erano già ribellati contro il regolamento e le dure condizioni di lavoro nel carcere.
22-23 maggio: VENEZIA. Un braccio del carcere si rivolta perché un loro compagno, R. C., è stato legato al letto di contenzione. I detenuti resistono per due ore ai lacrimogeni della polizia, fino a quando il C. viene slegato e riportato in cella. Numerosi i trasferimenti punitivi.
24 maggio: ROMA-REBIBBIA. Il reparto giovani del carcere “modello” è in rivolta. Cinquanta detenuti sui tetti, strade bloccate dalle pantere e camionette della polizia. La protesta è contro i sistemi fascisti del direttore e del personale di custodia.
01 giugno: NAPOLI, POGGIOREALE. Dopo aver chiesto inutilmente di parlare col direttore di Poggioreale e col procuratore capo, i detenuti riescono ad uscire dalle celle, dopo aver scardinato i cancelli, si radunano nei cortili e salgono sui tetti. Gli agenti di custodia, a cui giungono in aiuto trecento poliziotti armati, sparano colpi di pistola contro i detenuti: A. N. è ferito alla gola da una pallottola ed è ricoverato in fin di vita all’ospedale. Altri due detenuti sono colpiti al viso e alle gambe. Il direttore dichiara: “Questo era un piano preordinato, la rivolta covava da tempo, vogliono l’amnistia”. E difatti già da tempo tra i detenuti c’erano state discussioni e scioperi della fame per l’amnistia. Il giorno dopo i detenuti si rifiutano ancora di arrendersi, malgrado l’intervento massiccio della polizia, che spara lacrimogeni e raffiche di mitra contro i dimostranti, e il tentativo di prenderli per fame e per sete impedendo l’accesso al magazzino dei viveri. Intorno al carcere ci sono centinaia di proletari che gridano “Amnistia e libertà” insieme ai detenuti. Il 3 giugno incomincia la deportazione in massa (più di cinquecento trasferimenti). I detenuti si oppongono in modo duro e organizzato fino all’ultimo. I colpi di mitra, moschetto o pistola sparati all’interno del carcere sono stati centinaia. I detenuti di Santa Maria Capua Vetere organizzano una protesta per solidarietà con la lotta di Poggioreale.
5 giugno: TORTONA. Nel pomeriggio una quarantina di detenuti dopo l’aria si rifiutano di entrare in cella, per protesta contro il sovraffollamento dei bracci e per la riforma carceraria.
7 giugno: BERGAMO. Dopo due giorni di sciopero della fame, i detenuti del carcere di Sant’Agata si rifiutano di rientrare nelle celle dopo la televisione: il carcere è posto subito in stato d’assedio. La polizia spara a raffica, lo stesso direttore del carcere si fa avanti contro i detenuti con la pistola in pugno. La protesta è nata per solidarietà con la lotta di Poggioreale.
7 giugno: ALESSANDRIA. I detenuti del carcere giudiziario, tutti giovanissimi, sono in lotta già da due giorni. Sul tetto sventola uno striscione: “Vogliamo la riforma carceraria”. Sui tetti delle case vicine ci sono centinaia di carabinieri coi mitra spianati.
9 giugno: NICOSIA (Enna). I detenuti scendono in lotta: chiedono tra l’altro il rientro nelle carceri di Napoli di venti detenuti minorenni trasferiti dopo la rivolta di Poggioreale.

DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni

Un bambino chiede alla mamma: ” Perché quel fumo è giallo?” “Perché è veleno” risponde la donna. “Allora se passa un uccellino li in mezzo muore!”, prosegue incuriosito il bambino. “Si, ma gli uccellini ora lo sanno e non ci passano più..”, conclude la mamma.

Un incidente d'auto provoca in Giuliana uno choc che, aggravato dall'ambiente particolare in cui la professione del marito, ingegnere elettronico, la costringe a vivere, si tramuta in uno stato di nevrosi depressiva. Questa forma di malessere spinge la donna a vagare senza meta, con appresso il bimbo, nelle aree industriali che circondano l’apparato industriale; sullo sfondo, oltre ai fumi velenosi che incorniciano cieli plumbei e si stagliano sopra arbusti e vegetazione stremata, alcune nascenti sommosse operaie si insinuano a contrastare la perfetta coincidenza tra domanda ed offerta di occupazione, nell’ambito di un boom economico che, fino a quel momento, aveva proteso chiunque all’ottimismo, dopo le disgrazie e le rovine della guerra. 
Corrado, un amico del marito, si sente attratto verso la donna e tenta di aiutarla ad uscire dalla sua solitudine piena di incubi, intrecciando con lei una fuggevole ed amara relazione. Tale esperienza non fa che aggravare lo stato depressivo della donna che si vede inconsapevolmente ingannata anche dal suo figlioletto, il quale finge d'essere colpito da una grave malattia. Fallito il tentativo di porre fine violentemente alla propria esistenza senza scopo, Giuliana continuerà la sua vita in precario equilibrio tra rassegnazione e pazzia.
Le scene si svolgono a Ravenna nella sua parte più industriale. Siamo agli inizi degli anni '60 in pieno miracolo economico. Il tipo di industrializzazione è selvaggio: basato su numerosi impianti petrolchimici quasi tutti privi di depuratori e una centrale termoelettrica che espelle tonnellate di polveri. Un'industrializzazione che appare subito allo spettatore come portatrice di traumi profondi. Alcune anguille al ristorante conservano nel sapore tracce di petrolio. Il degrado territoriale è molto avanzato e ne risente anche la vita dei cittadini. Questi ultimi diventano oggetto di disagi nevrotici e depressivi. Disagi fortemente accentuati dalla scomparsa di ogni bellezza naturale. Il funesto complesso petrolchimico ha sostituito sia le pulite e ordinate baracche dei vecchi pescatori che gli impianti artigianali.
Insomma tutto il film sembra evidenziare un senso di smarrimento, di angoscia, che non è solo la “pessimistica riflessione sull’incapacità della borghesia di uscire dalla propria gabbia”, ma piuttosto, come un po’ in tutto Antonioni, quell’innata capacità di raccontarci il mondo reale “che verrà” attraverso il presente, anticipando problematiche e inquietudini degli anni a venire. 
È il male del secolo, tutti ne siamo affetti. Matti incurabili, l’unico conforto ci viene dal tenere per mano un bambino e dall’avere coscienza della nostra condizione. La colpa di tutto? Innanzi tutto, della civiltà industriale. Gli uccellini, che hanno un cervello da uccellino, l’hanno capito che dalle ciminiere esce un veleno mortifero, e non ci passano più. Gli uomini, invece, testoni, ci vanno a vivere in mezzo, peggio per loro.
Antonioni non aggiunge nessun zuccherino alla sua pessimistica analisi del mondo contemporaneo, disumanizzato dal progresso scientifico; ma la sua condanna della civiltà delle macchine sembra ormai coinvolgere l’eterna condizione dell’uomo. Giuliana, per far star quieto il bambino, favoleggia di un mondo primitivo, di una ragazzina libera e felice nell’acqua di un’isola. 

Ci sono luoghi che rappresentano un deserto senza sorta di fine, dove delle piccole formiche si agitano continuamente, lavorano, portano provviste, si incuneano, si scontrano e ostinate proseguono senza chiedersi il perché. Piccole formiche che non comunicano, hanno paura, si costruiscono un personaggio, ti sfuggono, al limite ti rincorrono sempre. Il presente è terra bruciata, semplicemente perché lontani da un gesto spontaneo si cerca la strada più semplice: la fuga giustificata.

L'ultimo discorso del sub-comandante Marcos - parte terza

In questi 20 anni c'è stato un cambio molteplice e complesso nell'EZLN.  Alcuni hanno notato solo il più evidente, quello generazionale. Ora stanno portando avanti la lotta e dirigendo la resistenza, quelli che erano piccoli o ancora non erano nati all'inizio dell'insurrezione. Però alcuni studiosi non si sono resi conto di altri cambiamenti. Quello di classe: da quello di classe "media istruita” a quello dell'indigeno contadino. Quello di etnia: dalla direzione meticcia alla direzione nettamente indigena.
E il più importante: il cambiamento di pensiero. Dall'avanguardismo rivoluzionario al comandare obbedendo; dalla presa del Potere in Alto a la creazione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica quotidiana; dai dirigenti ai villaggi; dall'emarginazione di genere, alla partecipazione diretta delle donne; dalla discriminazione dell'altro, alla celebrazione della differenza.
Non mi estenderò ulteriormente su questo, perché è stato proprio il corso “La Libertà secondo gli/le zapatisti/e” l'opportunità di constatare se nel territorio organizzato conta più il personaggio della comunità. Personalmente, non capisco perché della gente pensante che afferma che la storia la fanno i popoli, si spaventi così tanto di fronte all'esistenza di un governo del popolo dove non appaiono gli “specialisti” nel governo. Perché gli dà così tanto timore che siano i villaggi quelli che comandano, quelli che dirigono i loro propri passi? Perché muovono la testa con disapprovazione di fronte al comandare obbedendo?
Il culto dell'individualismo incontra nel culto dell'avanguardismo il suo estremo più fanatico.
Ed è stato questo precisamente, che gli indigeni e che adesso un indigeno sia il portavoce e il capo, quello che li terrorizza, li allontana, ed alla fine se ne vanno per continuare a cercare qualcuno che parli di avanguardie e leader. Perché c'è razzismo anche nella sinistra, soprattutto in quella che si pretende rivoluzionaria. 
L'"ezetaellenne" non è di questi. Per questo non chiunque può essere zapatista.
Prima dell'alba del 1994, ho passato 10 anni in queste montagne. Conobbi e mi relazionai personalmente con alcuni,nella cui morte morimmo in molti. Conosco e mi relaziono con tanti altri che oggi sono qui con noi. Molte albe ho trovato me stesso cercando di digerire le storie che raccontavano, i mondi che disegnavano con silenzi, mano e sguardi, la loro insistenza nel segnalare qualcosa al di là. 
Era un sogno quel mondo, così altro, così lontano, così altrui? A volte pensai che erano andati troppo avanti, che le parole che ci guidarono e ci guidano venivano da tempi per i quali non c'erano ancora calendari, persi come stavano in geografie imprecise: sempre il dignitoso sud onnipresente in tutti i punti cardinali. Poi ho saputo che non mi parlavano di un mondo inesatto e, per tanto, improbabile. Questo mondo già andava nel loro passo. Voi non lo vedeste? Non lo vedete? Non abbiamo ingannato nessuno in basso. Non nascondiamo che siamo un esercito, con la sua struttura piramidale, il suo centro di comando, le sue decisioni dall'alto verso il basso. Non per ingraziarsi con i libertari né per moda neghiamo quello che siamo. Però chiunque può vedere adesso se il nostro è un esercito che soppianta e impone.
E devo dire questo, per il quale ho già chiesto l'autorizzazione al compagno Subcomandante Moisés per farlo: "Niente di ciò che abbiamo fatto, nel bene e nel male, sarebbe stato possibile se un esercito armato, quello zapatista di liberazione nazionale, non si fosse alzato contro il cattivo governo esercitando il diritto alla violenza legittima. La violenza di colui che sta in basso di fronte alla violenza di colui che sta in alto. Siamo guerrieri e come tali sappiamo quale è il nostro ruolo ed il nostro momento."
Nell'alba del primo gennaio del 1994, un esercito di giganti, cioè di indigeni ribelli, scese sulle città per far tremare il mondo con il suo passo. Appena pochi giorni dopo, con il sangue dei nostri caduti ancora fresco nelle strade cittadine, ci rendemmo conto che quelli da fuori non ci vedevano.
Abituati a guardare gli indigeni dall'alto, non alzavano lo sguardo per guardarci. Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna rivolta. Il loro sguardo si era fermato nell'unico meticcio che videro con il passamontagna, cioè non guardarono. I nostri capi e le nostre cape dissero: “Vedono solamente quanti piccoli che sono, facciamo che qualcuno diventi piccolo quanto loro, così che a lui lo possano vedere ed attraverso di lui ci vedano”
Cominciò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meravigliosa, una maliziosa mossa da parte del cuore indigeno.
Cominciò allora la costruzione del personaggio  chiamato "Marcos"