“Amo gli emarginati. Guarda, a meno che non ti adatti o ti arrenda completamente, finirai col restare solo in questo mondo. Ma arrendendoti, perdi la tua indipendenza di essere umano. Quindi sono con i solitari. Non sono nient’altro che un romantico e ho questa debolezza per i perdenti in generale, una specie di umile affetto per tutti i disadattati e i vagabondi del mondo. Nel West non ci sono eroi. C’è solo gente che ha paura della vita.” (Sam Peckinpah)
Rapinato un ufficio postale, Pike Bishop e la sua banda si accorgono di essere caduti in un tranello messo in piedi da Hurrigan, che ha interesse a liberare la zona dai banditi. Hurrigan ha assoldato un gruppo di ex-galeotti, capeggiati da Dick Thornton, che comincia a sparare contro Pike e i suoi. Riuscito a salvarsi, Pike raggiunge, con cinquanta uomini, la città messicana di Aguaverde, base delle truppe regolari in lotta contro Pancho Villa. Le comanda un ex killer, Mapachi, autoproclamatosi generale. Con lui, Pike si accorda per assaltare, in cambio di diecimila dollari, un treno statunitense carico d'armi. L'impresa ha pieno successo nonostante l'intervento di Thornton e dei sui - che non hanno mai messo di inseguire Pike, ma quando Mapachi si accorge che uno dei banditi, Angelo, si è tenuto una cassa per sé, allo scopo di consegnarla agli indios in rivolta, lo sottopone a terribili torture e, infine, lo uccide sotto gli occhi dei suoi compagni. Per vendicarlo, i suoi compagni si schierano contro i “regulares” governativi: compiranno una strage, ma ne rimarranno anch'essi vittime. Cinico e impietoso come sempre, Sam Peckinpah realizzò un film-manifesto sul tramonto del western e dei suoi miti, facendo del degrado e dello squallore i temi essenziali del racconto. «Il mucchio selvaggio» è un sanguinoso affresco in chiave di tragedia, che culmina nella carneficina, in una delle sequenze più frenetiche e cruente dell'ultimo cinema americano. L'uso del «ralenti» nelle scene delle uccisioni, combinato con il ricorso ad un montaggio convulso, ci consegna delle immagini di morte strazianti e indimenticabili. Una crudele descrizione di un universo di «perdenti», che proprio nella smitizzazione dei più consunti prototipi western entra di diritto nella leggenda del genere. La questione della violenza nel cinema di Sam Peckinpah. I sintomi, ora morbidi ora acuti, affiorati nella storia dei film precedenti, sono esplosi con la forza di una vera eruzione espressiva; e dietro le nervature aggrovigliate dell'organismo
de Il mucchio selvaggio pulsa costante la lucida ossessione degli effetti, intollerabili ed eccitanti insieme, provocati da un perpetuo e barbaro deflagrare della violenza. La violenza in sé, quella che si va a praticare con un semplice «Why not?» (Perché no?) e che viene addirittura sublimata nelle apocalittiche stragi che aprono e chiudono il film, quella la cui acme disastrosa merita di essere fissata in un angoscioso ralenti, quella che affascina la spontanea, demoniaca crudeltà dei bambini, quella che permette il traboccare dell'ultimo impulso di dignità morale dalle zone piti oscure del subconscio, la violenza pubblica (guerra civile) che si congiunge senza soluzioni di continuità a quella privata dei gunfighters, vittime a loro volta della violenza oggettiva di una crisi sociale in atto che ora li blandisce, ora li respinge.“Per realizzare la battaglia finale de Il mucchio selvaggio, ci ho messo tre mesi di preparativi, disegnando ogni cosa sino ai minimi particolari; ma una volta arrivato sul set ho cambiato radicalmente, girando in appena nove giorni soltanto perché il lavoro di preparazione era stato tanto accurato. Tutto è stato organizzato in funzione degli attori e della loro posizione nell'inquadratura; io stesso mi mettevo al posto di ciascun personaggio prima di girare le sequenze definitive, cosicché ho perso nove chili in questi nove giorni! Insieme ad un'eccellente équipe di ventiquattro cascatori professionisti, studiavo la messinscena fisica di ogni inquadratura prima di realizzarla tecnicamente. È molto importante per me che le ultime inquadrature del film, mostrando l'esodo degli abitanti del villaggio, si contrappongano all'esplosione della violenza, perché quello che mi turba nelle guerre è scoprire che il popolo, i poveri, sono sempre le vittime di una violenza che all'origine non li riguardava affatto. E tengo molto anche alle sovrimpressioni finali, che invece mi hanno rimproverato, perché concludendo sulle immagini dei killer che vivono e ridono tranquillamente, io ricordo allo spettatore - che vorrebbe dimenticarlo - che si tratta di gente simile a lui”. (Sam Peckinpah)
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