La fabbrica è ovunque. È il risveglio, il treno, l’automobile, il paesaggio distrutto, la macchina, i capi, la casa, i giornali, la famiglia, il sindacato, la strada, le spese, le immagini, la paga, la televisione, il linguaggio, le ferie, la scuola, il solito tran tran, la noia, la prigione, l’ospedale, la notte. Essa è il tempo e lo spazio della sopravvivenza quotidiana, è l’assuefazione ai gesti ripetuti, alle passioni rimosse e vissute per procura e per immagini interposte.
Tutte le attività ridotte a mera sopravvivenza sono lavoro coatto; esso trasforma il prodotto e il produttore in semplici oggetti di sopravvivenza, in merci.
Il rifiuto della fabbrica universale è dappertutto perché il sabotaggio e le pratiche di riappropriazione si diffondono a macchia d’olio tra gli umani, permettendo loro di trovare ancora dal piacere a non fare nulla, a far l’amore, a incontrarsi, a parlarsi, a bere, a mangiare, a sognare, preparare la rivoluzione della vita quotidiana non dimenticando nessuna delle gioie che sono ancora alla portata di chi non è completamente alienato.
Bisogna quindi lottare coscientemente o no, per una società in cui le passioni saranno tutto, la noia e il lavoro nulla. Sopravvivere ci ha finora impedito di vivere, si tratta ora di rovesciare questo mondo alla rovescia, di far leva sui momenti autentici, condannati, nel sistema spettacolare-mercantile, alla clandestinità e alla falsificazione: i momenti di felicità reale, di piacere senza riserve, di passione.
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