Un operatore cinematografico coglie i diversi aspetti della vita di una grande città dall’alba fino al momento della piena attività. Egli riprende, con la sua macchina da presa, immagini di eventi quotidiani, quali il risveglio della gente, l’inizio del lavoro, la messa in moto delle macchine nelle fabbriche, il traffico sempre più vorticoso nelle strade e nelle piazze, le pratiche sportive e gli svaghi, la nascita, la morte.
Applicando nel cinema le istanze dell’Avanguardia sovietica degli anni Venti, Dziga Vertov vuole dare uno schiaffo al gusto corrente. Rifiuta alcuni elementi che caratterizzano i film tradizionali (l’intreccio amoroso, la sceneggiatura, la scenografia, le didascalie, gli attori, ecc.), fotografa la realtà ed organizza il materiale raccolto non in modo drammatico-narrativo ma secondo strutture essenzialmente ritmiche. In vari articoli-manifesto, Vertov precisa la sua teoria del Cine-occhio, secondo la quale l’occhio della macchina da presa ha capacità tali da giungere alla essenza dei fatti e da penetrare nella complessità della vita scomponendola con i mezzi tecnici che del cinema sono propri (acceleramenti, rallentamenti, inversioni di movimento, sovrimpressioni, uso di lenti speciali, sdoppiamento dell’immagine, e così via). Non facendo uso di schemi naturalistici, un film come L’uomo con la macchina da presa non coinvolge emotivamente il pubblico, ma lo obbliga ad un continuo impegno intellettuale, nello sforzo di decifrare il significato di quelle immagini che si susseguono talora in modo vorticoso e confuso e lo colpiscono intellettualmente come se fossero proiettili sparati contro di lui.
Vertov non sfugge alle proprie responsabilità politiche con vuoti giochi tecnici. Vertov riflette una concreta realtà culturale e sociale e prende posizione su di essa. Reputa la società sovietica piena di positività, ma non ne ignora gli aspetti negativi. Respingendo la teoria stalinista della mancanza di conflitti nello Stato postrivoluzionario, egli denuncia la sopravvivenza di conflitti privati e pubblici. Già all’inizio del film, all’inquadratura di una donna che dorme nel suo letto, segue quasi immediatamente quella di un uomo che dorme all’aperto su una panchina. Vediamo poi tre inquadrature successive: nella prima la donna si alza dal letto, nella seconda l’operatore cinematografico cambia obiettivo alla camera, nella terza l’uomo si alza velocemente dalla panchina. L’allusione all’esistenza di differenziazioni sociali è evidente pure nella sequenza in cui vediamo alternarsi l’interno di un bar alla moda frequentato da persone eleganti, con quello di un’osteria per proletari; là abbiamo un ambiente luminoso, allegro, raffinato, qui invece abbiamo una penombra fumosa. Anche nello sport esiste discriminazione di censo: alle esibizioni atletiche assiste un pubblico operaio, vestito con semplicità; al concorso ippico assiste un pubblico elegante, fra cui spicca una donna con ombrellino e veletta.
Si mostra la vita così com’è dal punto di vista di tutte le possibilità tecniche dell’occhio armato di macchina da presa. Ciò vale tanto per lo spazio quanto per il tempo. La lotta fra la vista, lo spazio e il tempo comuni e quelli cinematografici è la forza motrice del materiale documentaristico de L’uomo con la macchina da presa.
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