Translate

giovedì 18 dicembre 2014

L'elaborazione del dolore e la compassione

La distopia della civiltà occidentale vede nel dolore solo un fattore accidentale del sistema socioeconomico da superare con interventi straordinari. La sensazione del dolore è determinata da messaggi che giungono al cervello. L'esperienza che ne deriva è legata al corredo genetico e da alcuni fattori funzionali, oltre che dalla natura e intensità dello stimolo: cultura, ansia, attenzione, interpretazione. Tutti questi fattori sono modellati da determinanti sociali: ideologia, struttura economica, carattere della società. Sono quindi il risultato di questo addestramento e delle convinzioni conseguenti che determinano il grado di dolore sopportabile. Sono spesso rimedi superstiziosi che inducono un sollievo magicamente maggiore che nella religione colta. Di fronte alla medicalizzazione tutte le determinanti sociali vengono distorte. Per la cultura il dolore è un disvalore, mentre per la medicina è una reazione organica, sistemica, che si può misurare, regolare e controllare. C'è una obiettivazione per cui il dolore diventa oggetto di controllo. Naturalmente sono i medici a decidere quali sono i dolori autentici, quali immaginati e quali simulati. L'elaborazione del dolore è un fattore culturale, ma l'esperienza in sé è assolutamente personale. La compassione che proviamo per chi sta male è determinata proprio dal fatto che siamo consapevoli che il suo dolore riguarda specificatamente solo lui, gli altri possono solo immaginarlo. Se un medico obbiettiva il dolore reificandolo, il senso che abbiamo indicato viene meno. Viene meno proprio l'unicità di chi esperisce tale condizione dolorosa. I medici d'altronde hanno studiato come manipolare il dolore unico che ciascuno prova in modo esterno e standardizzato; si interessano ad una indagine sistemica, cioè organica, che è l'unico modo oggettuale aperto alla verifica operativa. Così il risvolto personale sfugge a questa indagine operativa. Il controllo sperimentale ignora l'aspetto unico che costituisce il paziente reale che ha davanti a sé. Di solito le proprietà analgesiche di un prodotto sono sperimentate sugli animali, pensate un poco voi come, poi se ne verifica la validità sulle persone. A volte anche queste ultime sono usate come cavie da laboratorio. 
In laboratorio le persone sono come i topi, fuori no. Il limite estremo di questa esperienza è costituita dalle persone lobotomizzate, queste sentono il dolore solo come disagio perché hanno perso la capacità di soffrirne. Il risultato è che l'ipertrofia dell'intervento tecnico ha sostituito tutte le altre dimensioni culturali che contribuivano ad arginare l'esperienza del dolore: parole, droghe, miti e modelli. Le parole da dire, le sostanze da prendere, le narrazioni da ricordare e gli esempi da seguire sono drasticamente sostituiti dal nuovo mito, dalla nuova narrazione, dalle nuove sostanze, tutte rigorosamente determinate dal monopolio medico. Questa concezione, secondo Illich, ha un prerequisito filosofico che ha cambiato la mentalità dell'uomo moderno. Data da Cartesio questa nuova percezione e si basa sulla divisione tra res cogitans e res extensa (con res cogitans si intende la realtà psichica a cui Cartesio attribuisce le seguenti qualità: inestensione, libertà e consapevolezza. La res extensa rappresenta invece la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole).
Situa da allora il momento in cui il dolore inizia a perdere la sua dimensione personale diventando il segnale di qualcosa che non funziona. E' così che il corpo difende la sua integrità meccanica.

Nessun commento:

Posta un commento