Io non ho nulla da dire sulla mia vita privata: essa non riguarda gli altri. Mi sono sempre piaciute poco le autobiografie e non mi interesso agli affari di nessuno. La stessa storia e il romanzo non hanno interesse per me se non per il fatto che vi ritrovo, come nella nostra immortale Rivoluzione, le avventure dell'idea. Io sono nato a Besancon il 15 gennaio 1890 da Claude-Francois Proudhon, bottaio, birraio, nativo di Chasnans, vicino a Pontarlier, nel dipartimento del Doubs e da Catherine Simonin de Cordiron, parrocchia di Burgille-les-Marnay, nello stesso dipartimento. I miei avi, da parte di padre e di madre, furono tutti lavoratori indipendenti, esenti da corvée e da manomorta fin da tempi immemorabili. Fin ai dodici anni la mia vita è trascorsa quasi sempre nei campi, impiegata ora in piccoli lavori rustici, ora a custodire le vacche. Sono stato per cinque anni un bovaro. Non conosco un tipo di esistenza ad un tempo più contemplativa e realista, più opposta a quell'assurdo spiritualismo che sta al fondo dell'educazione e della vita cristiana, di quella dell'uomo dei campi. Che gioia rotolarmi nelle alte erbe che avrei voluto brucare come le mie mucche; correre a piedi nudi sui sentieri pianeggianti lungo le siepi; inoltrare i miei passi guardando (durante l'aratura) le verdi spighe del mais nella terra profonda e fresca! Più di una volta nelle calde mattine di giugno, mi è capitato di spogliarmi degli abiti per prendere sul tappeto erboso un bagno di rugiada. A stento potevo allora distinguere l'Io dal Non Io. L'Io era tutto quello che potevo toccare con la mano, raggiungere con lo sguardo e che mi era utile in qualche cosa; il Non Io era tutto quello che poteva nuocermi o resistermi. Tutto il giorno mi riempivo di more, di raperonzoli, di barbe di becco, di pisellini verdi, di semi di papavero, di pannocchie abbrustolite, di bacche di ogni specie: susine selvatiche, sorbe, visciole, rose di macchia, lambruschi, frutti selvatici. Mi ingozzavo di una quantità di cibi crudi tale da far crepare un piccolo borghese allevato signorilmente, e che non produceva altro effetto sul mio stomaco che quello di procurarmi la sera un formidabile appetito. L'alma natura non fa del male a coloro che le appartengono. Quali acquazzoni ho asciugato! Quante volte, bagnato fino alle midolla, ho fatto asciugare i miei abiti sul mio corpo, al vento o al sole. Quanti bagni ho fatto a tutte le ore d'estate nel fiume, d'inverno nelle sorgenti. Mi arrampicavo sugli alberi, mi cacciavo nelle caverne; agguantavo le rane in corsa: i gamberi nei loro buchi col rischio di incontrare una pericolosa salamandra; poi, senza attendere troppo, facevo arrostire la mia cacciagione sul fuoco. Vi sono nell'uomo, nella bestia e in tutto ciò che esiste delle simpatie e degli odi segreti che la civiltà ci impedisce di cogliere. Io ero affezionato alle mie mucche, ma con un affetto incostante avevo una predilezione per una gallina, per un albero, per una roccia. Mi era stato detto che la lucertola è un'amica dell'uomo, e io lo credevo veramente. In compenso ho fatto sempre un'aspra guerra ai serpenti, ai rospi, ai bruchi. Che cosa mi avevano fatto? Nessun danno. Io non so, ma l'esperienza degli uomini me li ha resi sempre di più detestabili.
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