Per evitare ogni confusione teorica, Malatesta fu costretto a fare chiarezza epistemologica sul rapporto fra anarchia e l’azione sindacale. Applicando la fondamentale distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, Malatesta rivendicò come giusta e necessaria la sostanziale divisione fra movimento politico e movimento economico. Il movimento politico persegue fini universali, la sua valenza è rivoluzionaria perché le sue motivazioni sono ideali; il movimento economico persegue fini particolari, la sua valenza non può che essere riformista. Questa divisione, a sua volta, è la conseguenza della differenza tra movimento operaio e dottrina sindacale. Il movimento operaio è un fatto che nessuno può ignorare, mentre il sindacalismo è una dottrina e un sistema. Poiché il movimento è solo un fatto, sia pure fondamentale, si deve applicare nei suoi confronti un giudizio di fatto, che non va confuso come giudizio di valore, in questo caso la dottrina del sindacalismo. Si tratta soltanto di constatare la sua importanza storica, senza caricarla di significati metafisici, come fanno invece i sindacalisti puri o rivoluzionari. È necessario perciò che l’organizzazione sindacale rifletta tale giudizio di fatto, delineandosi, per l’appunto, come una semplice realtà, cioè mantenendo la sua intrinseca e naturale non intenzionalità ideologica. La conclusione, pertanto è che i sindacati siano aperti a tutti i lavoratori senza distinzione di opinioni, dei sindacati assolutamente neutri. Naturalmente affermando che il sindacato è per sua natura corporativo o, a dir meglio, riformista. Malatesta arriva a concludere che esso è intrinsecamente non rivoluzionario, per cui anche se lo si rinforza con l’attributo del tutto inutile di rivoluzionario, il sindacalismo è e sarà sempre un movimento legalitario e conservatore, dato che vive senza altro scopo possibile che il miglioramento delle condizioni di lavoro.
Malatesta esprimeva dunque il più classico punto di vista anarchico, fondato sulla consapevolezza che solo la dimensione politica era veramente universale e rivoluzionaria e che pertanto non si poteva pretendere che la classe lavoratrice, tutta tesa al legittimo miglioramento delle proprie condizioni di vita, si facesse carico dell’intera trasformazione sociale. Troppo semplice era la credenza che lo scontro sociale tra operai e classe padronale dovesse necessariamente coinvolgere tutta la società, la cui realtà era assai più complessa e diversificata.
La critica radicale è il movimento stesso in cui gli umani lottano contro il dominio del fittizio, smascherando l’organizzazione delle apparenze. Da quando il fittizio e la sua avvelenata promessa si insinuano in ogni esistenza, svuotandola di ogni senso vivo e presente, vengono a cozzare contro il furore crescente di una fame di veri e di senso, che parte dal corpo stesso della specie. A mano a mano che in ogni forma dell’esistente si realizza un momento del valore autonomizzato, a mano a mano che l’antropomorfosi del capitale mette in scena un’umanità di automi, insorge a combatterla ciò che le è irriducibilmente alieno. La lotta in processo è innanzi tutto smascheramento e denuncia del falso, rottura violenta degli schemi frapposti tra il fine reale della rivoluzione e il furore degli oppressi deviati in falsi scopi. Al punto estremo di contraddizione tra capitale e vivente, il fine reale della rivoluzione non può essere che la distruzione del capitale e la realizzazione della specie umana quale comunità vivente in un rapporto di coerenza organica coll’universo naturale. Il dominio del capitale su una collettività sotto-umana e su un pianeta avvelenato, sempre più si rivela come l’ultimo ostacolo che separa l’auto-genesi creativa della comunità-specie dal suo mondo latente. È quanto la critica radicale, attaccando ogni forma di rappresentazione fittizia, indica nel suo muoversi. Perciò da sempre esso suscita l’odio infallibile dei gestori della finzione. Ogni sorta di amministratori fraudolenti di crisi parcellari, di politiche alternative, di battaglie immaginarie, trova in essa il nemico irriducibile. Essi provano a combatterla con i mezzi che sono loro congeniali: la calunnia, la deformazione della storia, sino al ripudio di quanto, nel passato, la loro cultura indica come anticipazione dello stesso movimento.
La macchina è il nemico
Distruggila senza pietà.
Non mi venite a dire che la tecnologia è neutrale, ogni giorno mi interrogo su di essa e ogni giorno le luci lampeggianti delle macchine cercano di dirmi cosa devo fare. Enormi sentieri di catrame attraversano la mia strada su cui macchine metalliche corrono veloci, macchine capaci di uccidermi se io attraverso la loro strada e che mi soffocano lentamente con i loro fumi tossici che intasano l’aria.
Perché dovrei tollerare questa follia?
Intorno a me sorgono alti palazzi ripugnanti mostruosità di acciaio vetro e cemento che dominano nella loro maestosità e sterilità.
Sogno di loro come rovine divorate dalla foresta. Ma per il momento queste strutture "prodotto di macchine" ospitano altre macchine. Macchine su cui sono registrate le menzogne con cui questa società determina la mia vita, con bip e flash elettronici, possono trasformare le menzogne e così controllare le nostre vite.
Tutto questo non è comparso dal nulla. Le strade le automobili, i semafori, i grattacieli, i computer non potrebbero esistere se, ogni giorno, le vite di miliardi di persone non fossero inghiottite dalle fabbriche. Macchine controllano la loro attività quotidiana, determinando i loro movimenti e inghiottendo il loro tempo per produrre altre macchine. L’unico momento di sollievo arriva quando le macchine che li controllano si rompono o quando loro le rompono. Allora, per un momento essi non sono delle macchine. Non mi raccontate che la tecnologia è neutrale, non sono così cieco da crederci.
Al diavolo l'ordine sociale e il suo
corpo fisico: la tecnologia!
La macchina è il nemico!
Mandala in frantumi senza pietà
Dalla cenere sbocceranno miliardi di fiori
“Non lavorate mai” era scritto sui muri di Parigi, durante la rivoluzione del maggio 68; e nel febbraio del 1977, questa stessa parola d’ordine riappariva sui muri di Roma, molto rafforzata dal semplice fatto di essere stata nel frattempo tradotta in polacco dagli operai di Stettino, Danzica e Radom, nel 1970 e nel 1976, e anche in portoghese dagli operai di Lisbona nel 1974.
Il superamento dell’economia è dappertutto all’ordine del giorno, e i proletari, rifiutando il lavoro, dimostrano di sapere perfettamente che esso è ormai principalmente un pretesto per tenerli continuamente sotto controllo, costringendo tutti gli operai a occuparsi sempre d’altro che non dei loro veri interessi, dalla loro bandiera, devono cancellare questa massima conservatrice: “un salario equo per una giornata lavorativa” e iscriverci la parola d’ordine rivoluzionaria: “Abolizione del salariato”. Del resto, perfino Lord Keynes ha dovuto convenire, nei famosi: Saggi sulla moneta, che il problema economico non è, per chi ha lo sguardo rivolto all’avvenire, il problema permanente della specie umana, e in questo si è dimostrato meno ottuso dei suoi attuali epigoni e fervidi zelatori fuori stagione. Il fatto fondamentale è che oggi esistono, tutti i mezzi materiali per la costruzione della vita libera di una società senza classi.
Nel suo pamphlet: Il Diritto all’ozio, Paul Lafargue prevede con grande anticipo, le ragioni che avrebbero portato il capitalismo al moderno consumismo, così come i caratteri salienti di ciò che egli chiama “l’era della falsificazione”, che noi oggi possiamo contemplare con i nostri occhi, ne indica le contraddizioni insanabili e, infine, ciò che le riassume e le risolve tutte: il rifiuto del lavoro e il superamento dell’economia.
Nella realtà noi stiamo già lottando, coscientemente o no, per una società dove la liquidazione del lavoro salariato lascerà il posto ad una creatività collettiva regolata sulla base dei desideri di ciascuno, e dove esisterà una distribuzione gratuita dei beni necessari alla costruzione della vita quotidiana.
Nella nostra epoca, le questioni di sopravvivenza si pongono unicamente alla condizione preliminare di non essere mai risolte; al contrario, i problemi della storia da vivere si pongono chiaramente attraverso il progetto dei consigli operai, insieme come positività e come negatività: in altre parole, come elemento di base di una società unitaria industriale e passionale, e come anti-Stato.
Poiché non esercitano alcun potere separato dalle decisioni dei loro membri, i consigli non tollerano altro potere che il loro stesso. Il fatto di incoraggiare dovunque le manifestazioni di anti-Stato non può quindi essere confuso con la creazione anticipata di consigli, che in tal caso sarebbero privi di potere assoluto sulle zone che investono, separate dalla autogestione generalizzata, necessariamente vuoti di contenuto e pronti a riempirsi di ogni tipo di ideologia. Le sole forze lucide che oggi siano in grado di rispondere alla storia fatta con la storia da fare saranno le organizzazioni rivoluzionarie che svilupperanno nel progetto dei consigli una eguale coscienza e della avversario da combattere, e dagli alleati da sostenere. Un aspetto importante di questa lotta si annuncia sotto i nostri occhi con l'apparizione di un doppio potere. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle strade, nelle case, nelle caserme, nelle scuole, prende forma una realtà nuova il disprezzo dei capi, sotto qualunque nome e con qualsiasi atteggiamento essi abbiano. Bisogna ormai che questo disprezzo arrivi al suo risultato logico dimostrando, attraverso l'iniziativa concertata dei lavoratori, che i dirigenti non sono solo disprezzabili, che sono inutili, che si può, dal loro stesso punto di vista, liquidarli impunemente.
(Internazionale Situazionista n° 12)
Stanno per chiudere il parco.
Negli stagni
nascono improvvisamente ampie caverne
dove un lieve palpitare di foglie
denuncia gli alberi in ombra.
Un sangue debole di consistenza,
una linfa rosacea,
si è sparsa senza riposo
in certi angoli del bosco,
su certe panchine.
Stanno per chiudere il parco
E l’infanzia di giorni impassibili e soleggiati,
svanirà per sempre nelle tenebre irrecuperabili.
Ho alzato un braccio per impedirlo;
ora, più tardi, quando ormai nulla si può fare.
Provo a chiamare e una garza funeraria
affoga ogni mio sogno
non lasciando altra vita
che questa di ogni giorno
logora e aliena
alla tesa veglia di altri anni.
Il progetto finale della scienza è ormai, in modo non più occulto il dominio totale dell’oggetto sul soggetto, della macchina sull’uomo, del non-essere, spacciato come dover-essere, sull’essere. Per poter realizzare questo suo compito, la macchina della scienza deve operare in modo da deviare in un primo tempo ogni conoscenza verso un’applicazione parziale della realtà sussumendola alla sua parcellizzazione, e occultare in un secondo tempo la realtà stessa, quando essa tende troppo esplicitamente verso il pensiero.
Mistificazione e occultamento sono i metodi con cui la tecnocrazia devia, inibendoli, i bisogni reali dalla realtà, fa della realtà la riserva di caccia dei suoi esperimenti di laboratorio, dell’umanità un frammento della realtà frantumata, e della totalità organizzata la macchina inconsapevole che lavora alla propria autodistruzione. Scienze della produzione e scienze della natura, scienze dei mezzi e dei fini, sotto la direzione dell’economia, organizzano il grande spettacolo della conquista del tutto: il regno delle macchine come regno della libertà, l’ibernazione come conquista dell’eternità. L’attività alienata della scienza si presenta anche come il MITO dell’attività alienata.
Ma la separazione totale dell’individuo da sé, la sua reificazione completa, non sarebbe possibile se non articolando la separazione attraverso tutta la scala delle specializzazioni, per cui tutti i livelli dello spettacolo si compensano con un minimo d’attività: il minimo necessario per credere.
Il mitico rispetto scientifico dei popoli per il dato che essi stessi producono continuamente finisce per diventare, a sua volta, un dato di fatto, la roccaforte di fronte a cui anche la fantasia rivoluzionaria si vergogna di sé come utopismo e degenera in passiva fiducia nella tendenza oggettiva della storia.
Siamo anarchici che desiderano una libertà senza limiti. Lottiamo per la liberazione, per un rapporto decentrato e non mediato con il nostro ambiente e con coloro che amiamo e con cui abbiamo affinità. I modelli organizzativi ci offrono solo altra burocrazia, controllo e alienazione, uguali a quelli che riceviamo già dall’organizzazione attuale.
Occasionalmente può esistere una buona intenzione, ma il modello organizzativo deriva da una mentalità intrinsecamente paternalistica e diffidente, che sembra in contraddizione con l’anarchia. I veri rapporti di affinità nascono da una profonda comprensione reciproca nell’ambito di relazioni intime basate sui bisogni della vita quotidiana, non di relazioni basate su organizzazioni, ideologie, idee astratte. Tipicamente, il modello organizzativo reprime i bisogni e i desideri dell’individuo per “ il bene della collettività”, nel tentativo di uniformare sia la resistenza che l’immaginazione. Dai partiti alle piattaforme e alle federazioni, sembra che con l’aumentare della scala dei progetti diminuiscano il significato e l’importanza che essi hanno per la vita di ciascuno.
Le organizzazioni sono mezzi per stabilizzare la creatività, controllare il dissenso e indebolire le tangenti controrivoluzionarie (principalmente determinate dalla leadership o dai quadri d’élite). In genere insistono sull’aspetto quantitativo, anziché su quello qualitativo, e offrono poco spazio al pensiero o all’azione indipendente. Le associazioni informali, basate sull’affinità, tendono a ridurre al minimo l’alienazione delle decisioni e della loro attuazione e la mediazione fra i nostri desideri e le nostre azioni.
(Green Anarchy)
Il vero volto della morte moderna, fatta dalla connessione oggettiva, senza difetto, rapida, di tutti i termini di un sistema. Le nostre vere necropoli non sono più i cimiteri, gli ospedali, le guerre, le ecatombe, la morte non è affatto là dove si pensa; non è più biologica, psicologica, metafisica, non è nemmeno più omicida. Le sue necropoli sono le cantine o le sale degli elaboratori elettronici, spazi bianchi, epurati da qualsiasi rumore umano, bare di vetro dove si congela tutta la memoria sterilizzata del mondo. Solo i morti si ricordano di tutto; qualcosa come un’eternità immediata del sapere, una quintessenza del mondo che oggigiorno si sogna di seppellire sotto forma di microfilm e d’archivi, archiviare il mondo intero affinché sia ritrovato da qualche generazione futura. Criogenizzazione di tutto il sapere nell’immortalità come valore/segno.
(Archivio Bodo’s Project 1985)
L'umanizzazione del pianeta e dell'universo naturale, l'umanizzazione dell'uomo stesso, è il possibile, che traspare al di là dei diagrammi del collasso capitalista, al di là della mostruosità imposta al mondo e agli uomini da un modo di produzione necrotizzante, fondato sulla valorizzazione del falso.
La produzione di profitto mortifero e di sottouomini ad esso incatenati deve avere fine, o finirà ogni progetto umano. Questa certezza realizza e incarna, nel movimento reale, il contenuto delle teorie rivoluzionarie del passato superando la loro forma ancora idealisticamente coscienziale. Il passaggio in armi dalla speranza alla certezza, dalla coscienza alla esperienza vivente, alla vera gnosi, è la transizione necessaria.
La certezza fatica a liberarsi dalle forme vuote in cui l'ideologia la trattiene; a mano a mano che la falsa guerra sceneggiata dalla ideologia mostra ai rivoluzionari la corda con cui strozza il loro furore, la certezza avanza, la vera guerra procede.
E' questo il compito della critica radicale.
Noi illustreremo al mondo nuovi principi traendoli dai principi del mondo.
Fatica e lotte di uomini hanno strappato ai principi del mondo il segreto di un mondo finalmente possibile, hanno fatto propria la coscienza di una speranza il sogno di una cosa. Si tratta oggi di infrangere l'ultimo diaframma, di fare proprio il mondo stesso.
Noi non temiamo le rovine, erediteremo la terra, questo è certo. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi e questo mondo ogni momento che passa cresce. Sta crescendo proprio adesso che stò parlando con voi.
Nati per correre
Il giorno ci consumiamo
Nell’attesa delle strade di un
sogno americano di fuggiasco
La notte corriamo attraverso
Magioni di gloria in macchine da suicidio
Imprigionati dalle gabbie
Sull’autostrada numero 9
Ruote cromate, motori ad iniezione
Oltrepassaiamo il confine baby
Questa città ti strappa le ossa dalla schiena
E una trappola mortale, un verdetto da suicidio
Dobbiamo tirarcene fuori finché siamo giovani,
perché vagabondi come noi, baby
siamo nati per correre.
Wendy, fammi entrare, voglio essere tuo amico
Voglio proteggere i tuoi sogni e le tue visioni
Avvolgi solo le tue gambe intorno a questi cerchioni di velluto
E avvinghia le mani attorno ai cilindri,
insieme potremo infrangere questa trappola,
correremo fino a cadere baby,
non torneremo mai indietro.
Vuoi camminare con me la fuori sul filo
perché, baby, io sono solo uno spaurito e solitario corridore
ma devo sapere come ci si sente
voglio sapere se il tuo amore e selvaggio,
ragazza, voglio sapere se l’amore è reale.
Oltre il palazzo, ronzii a mezza potenza urlano giù per il boulevard
Le ragazze si pettinano i capelli negli specchietti retrovisori,
e i ragazzi cercano di sembrare così duri
il parco dei divertimenti si staglia inflessibile e forte
i ragazzi si accalcano sulla spiaggia nella foschia
Voglio morire con te la fuori,
sulle strade stanotte in un bacio senza fine:
L’autostrada è intasata di eroi mancati
Segnati nella loro ultima possibilità meccanica
Tutti sono in fuga, stanotte,
ma non c’è più un posto per nascondersi
insieme Wendy, possiamo vivere con la tristezza,
ti amerò con tutta la pazzia della mia anima:
Un giorno ragazza, non so quando,
Riusciremo ad arrivare in quel posto dove vogliamo
Veramente andare
E cammineremo nel sole
Ma fino ad allora vagabondi come noi
baby siamo nati per correre
Non ripeteremo mai abbastanza che le attuali rivendicazioni del sindacalismo sono condannate alla sconfitta; più dalla povertà dei programmi che dalla divisione e dalla dipendenza dei suoi organismi riconosciuti. Non diremo mai abbastanza ai lavoratori sfruttati che si tratta delle loro vite insostituibili dove tutto potrebbe essere realizzato; che si tratta dei loro anni più belli che stanno passando senza nessuna gioia che valga la pena, senza neanche aver preso le armi.
Non dobbiamo chiedere che ci venga garantito o aumentato il minimo virtuale, ma che si finisca di mantenere la gente al minimo della vita. Non dobbiamo domandare soltanto pane, ma giochi.
La vita è da guadagnare oltre.
Non è la questione dell’aumento dei salari che va posta, ma quella della condizione imposta al popolo in Occidente.
Bisogna rifiutare di lottare all’interno del sistema per ottenere piccole concessioni subito rimesse in causa o recuperate in altri campi dal capitalismo. Quella che deve essere posta radicalmente è la questione della sopravvivenza o della distruzione di questo sistema. Non si deve parlare di intese possibili, ma di realtà inaccettabili. La lotta sociale non deve essere burocratica, ma appassionata.
Bisogna, prendere coscienza di alcuni elementi che potrebbero rendere appassionante il dibattito: il fatto per esempio che in tutto il mondo esistono nostri amici, e che ci riconosciamo nella loro lotta. Anche il fatto che la vita passa, e che noi non aspettiamo compensazioni tranne quella che dobbiamo inventare e costruire noi stessi.
Non è che un problema di coraggio.
Internazionale Lettrista luglio 1954
Quando togliamo qualcosa alla terra,
dobbiamo anche restituirle qualcosa.
Noi e la Terra dovremmo essere
compagni con uguali diritti.
Quello che noi rendiamo alla Terra
può essere una cosa così semplice
e allo stesso tempo così difficile
come il rispetto.
Indiani Navajo
La violenza rivoluzionaria è una dura necessità per evitare di scambiare il mezzo con il fine.
Necessaria per resistere alla violenza altrui, non serve per edificare niente di buono: essa è la nemica naturale della libertà, la genitrice della tirannia e perciò deve essere contenuta nei limiti della più stretta necessità. La rivoluzione serve, è necessaria, per abbattere la violenza dei governi e dei privilegiati; ma la costituzione di una società di liberi non può essere che l’effetto della libera evoluzione. La violenza la dobbiamo predicare e prepararla, se non vogliamo che l’attuale condizione di schiavitù larvata, in cui si trova la grande maggioranza dell’umanità, perduri e peggiori. Ma essa contiene in sé il pericolo di trasformare la rivoluzione in una mischia brutale senza luce d’ideale e senza possibilità di risultati benefici; e perciò bisogna insistere sugli scopi morali del movimento e sulla necessità, sul dovere di contenere la violenza nei limiti della stretta necessità. Noi non diciamo che la violenza è buona quando l’adoperiamo noi ed è cattiva quando l’adoperano gli altri contro di noi. Noi diciamo che la violenza è giustificabile, è buona, è morale, è doverosa, quando è adoperata per la difesa di se stesso e degli altri contro le pretese dei violenti; è cattiva, è immorale se serve a violare la libertà altrui. Noi consideriamo che la violenza necessaria è doverosa per la difesa, ma solo per la difesa.
L’azione anarchica, quindi, deve contemplare la violenza come necessità di liberazione dalla violenza dei governi e dei padroni, non per edificare l’anarchia. Per l’anarchismo essa è un mezzo che non va rifiutato a priori perché, se la non-violenza è un valore costitutivo dell’anarchia, questa tuttavia, ha altri valori più grandi da anteporre, quali la libertà, l’uguaglianza e la stessa dignità dell’uomo. In questo senso la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri.
Siamo così abituati ad aspettare, anche nei piaceri più ludici, il giro di manovella, lo scatto della ruota della fortuna, il conto da che il risultato infelice di ogni sovversione è già incluso nell’avventura. Pertanto, lo spirito di sconfitta e di disperazione è sempre sul punto di mordersi la coda come il cerchio vizioso della merce. La passione della distruzione ha cessato di essere una passione creatrice, ne è semplicemente un surrogato.
In fondo alla disperazione dove ci hanno trascinato le società industriali, la gratuità comincia a farsi strada. Quando uno sciopero della cassiera libera i clienti dal loro ruolo e li aiuta a prendere e a dare senza contropartita, quando gli operai si mettono a distribuire le merci dei magazzini, quando la gente rifiuta di pagare l’affitto, la luce, i trasporti, quando l’esproprio abbandona la rabbia della disinibizione per giocare alla distribuzione festosa dell’abbondanza, possiamo domandarci se la proletarizzazione, attraverso lo scambio permanente, non trascini con sé anche la sua radicale liquidazione.
Del resto il lasciarsi andare alla gratuità appartiene alla tradizione contadina e operaia.
L’emancipazione dei godimenti porta in sé la gratuità universale di cui perirà la civiltà mercantile.
La felicità non si paga, si strappa alla società che la vende
I rossi mattini sono meno importanti della scintilla che li accende.
Il rapporto edipico madre/figlio è il motore narrativo di J’irai comme un cheval fou. Aden rampollo di ricca famiglia ha sfogato il suo odio verso la madre (Emanuelle Riva) uccidendola, rubandole soldi e gioielli e fuggendo nel deserto. Aden attraverso visioni surreali come la fellatio di sua madre con un uomo orripilante e il suo masturbarsi davanti a questa scena, ricorda le crisi di epilessia, le punizioni corporali, si rivede bambino in una mangiatoia o con la corona di spine, spiegando così al pubblico l’amore/odio morboso nutrito per la genitrice.
Aden fugge nel deserto dove incontra un ometto bizzarro, Marvel, un nano in grado di spegnere la luce nel deserto tramutando il giorno in notte e di compiere altri prodigi che cambierà la sua vita. L’uomo civilizzato, che però si è macchiato di una colpa arcaica e tribale, prima impaurito poi chiaramente affascinato dal suo nuovo amico, decide di portarlo nella civiltà.
Marvel tuttavia non può comprendere gli usi della metropoli e continua a compiere i suoi rituali, commettendo tra l’altro sacrilegio in una chiesa, resuscitando Cristo dalla sua croce e facendo gocciolare dalla sua mano sangue vero.
Fallito il tentativo di convertire il suo nuovo amico alla vita civile, mostrata nel film come un gigantesco lager nazista; per espiare il matricidio, Aden chiede di essere processato dall’amico e, ritenuto colpevole viene ucciso. Marvel una volta riportato il corpo di Aden nel deserto. Lo divora, In questo modo Marvel ingloba per sempre Aden dentro di sé.
Fernando Arrabal ripropone il mito illuminista del buon selvaggio per riflettere sulla follia del nostro mondo, consumistico e inquietante. Andrò come un cavallo pazzo ha il pregio di spiazzare continuamente lo spettatore, di sbalordirlo, meglio di scioccarlo.
Le opere di Arrabal sono percorse da diverse correnti artistiche, ma "Andrò come un cavallo pazzo" è essenzialmente figlio di influenze surrealistiche, dovute anche alla collaborazione di Arrabal con André Breton. Il "Manifesto surrealista" (scritto dallo stesso Breton nel 1924) definisce il surrealismo come un "automatismo psichico puro", un meccanismo espressivo fondato sulla "onnipotenza del sogno" e sul "gioco disinteressato del pensiero", funzionante "in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale". In chiave cinematografica, si tratta di rappresentare le profondità inesplorate dell'animo umano e della realtà, portandone in superficie i lati finora rimasti inespressi: ne deriva una nuova estetica che non si preoccupa di rappresentare l'inconscio della psiche, le repressioni sessuali, le sensazioni forti e violente, le immagini brutte e sporche. Arrabal ne attinge a piene mani. Sangue e sperma, urina e feci. Cadaveri e scheletri. Coprofagia e necrofagia. Nudità e ambiguità sessuali. Cannibalismo, sesso, terrore, amore nelle sue espressioni più radicali. Eppure nessuno di questi eccessi è fine a se stesso: tutto assume rilevanza nell'ottica di insieme.
All’epoca il film fece scandalo, per come attaccava a testa bassa le convenzioni borghesi e rifiutava le logiche istituzionali della società e della famiglia, tanto che il 15 novembre 1973 si è visto rifiutare il suo visto di censura poi autorizzato ai maggiori di anni 18.