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giovedì 4 aprile 2013

LA GRANDE ABBUFFATA di Marco Ferreri


Quattro amici, un cuoco, un dirigente televisivo, un pilota e un giudice, tagliato ogni legame con amici e parenti, si rinchiudono in una villa insieme con abbondanti provviste alimentari, decisi a morire mangiando leccornie a dismisura. Fanno loro compagnia alcune prostitute, le quali dopo un certo tempo se ne vanno nauseate; resta con loro Andrea, una maestra. Costei partecipa agli incredibili e sontuosi banchetti che conducono alla morte, l’uno dopo l’altro, i quattro suicidi.
Scritto da Ferreri insieme a Rafael Azcona, il film è un’allegoria della società del benessere condannata all’autodistruzione, e un saggio da manuale tre eros e thantos, il cibo e gli escrementi. Il film mette il dito sulla piaghe maleolenti della nostra cultura ma con una negatività che riesce ad essere produttiva e utile nella sua provocazione. Come capita spesso nei film di Ferreri, la salvezza è affidata alla donna, lasciando all’uomo l’angoscia di una impossibile pienezza di rapporto con l’esistenza, sia sessuale che politico-morale. La fusione e l’intreccio tra fantastico e reale, tra immaginazione e razionalità è la costante che ha caratterizzato ii cinema di Ferreri, offrendo al regista ampio spazio per l’invenzione che, volta per volta, si è andata a definire nel grottesco, nel paradosso o, nel caso della Grande Abbuffata, nell’humor nero. Con questo film Ferreri guarda al mondo della borghesia, anzi alla borghesia come classe, alla sua essenza e storia. I quattro amici che si rinchiudono nella villa rappresentano ciascuno un preciso ceto sociale; la loro presenza nell’edificio crea un microcosmo dal quale nessuno riesce ad uscire, nemmeno col suicidio. Il cibo non è un rituale fine a se stesso: Philippe, Ugo, Michel, Marcello sono destinati a morire e il mezzo che scelgono per il suicidio è, nella simbologia del regista, il più conseguente. La borghesia si estingue, o si trasforma, soffocata dagli stessi beni che produce. La civiltà intesa come dominio di una classe si manifesta nei suoi aspetti esteriori e sovrastrutturali attraverso i valori culturali che è in grado di generare. 
Per l’umorismo nero di Ferreri la raffinatezza delle vivande si identifica con questo grado di civiltà e, al tempo stesso, con l’esigenza di creare continuamente nuovi prodotti, nuova merce da consumare per poterne produrre altra. A tutto ciò si accompagna l’impotenza di operare una rigenerazione di se stessi se non attraverso la nascita di un nuovo strato sociale, che si sempre prodotto dalla borghesia e che le si sostituisca, mantenendone i caratteri, nella gestione del potere. In tale contesto la maestra impersona il nuovo ceto che accompagna la vecchia borghesia all’estinzione, che l’accudisce amorevolmente sino all’irriverente e ironica morte. Il pessimismo di Marco Ferreri si manifesta nella Grande abbuffata, nell’incapacità di scorgere alternative in grado di competere dialetticamente con lo sfacelo della borghesia.   

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