“Una ragazza vagabonda muore di freddo: è un fatto da inverno.
È stata una morte naturale? È una domanda da gendarmi.
Cosa si poteva afferrare di lei e come hanno reagito quelli che hanno incrociato il suo cammino? È il soggetto del mio film.” (Agnès Varda)
Ed ecco dunque a ritroso, la cronaca delle ultime settimane della diciottenne Monà, che stufa di fare la segretaria ha preso zaino e tenda e ha deciso di infischiarsene di tutto e di tutti andando vagabonda, in giubbotto di cuoio, per il Sud della Francia. Credendo nel mito della libertà assoluta, Monà si è trascinata da un luogo all’altro, ha mangiato la minestra delle suore, ha venduto un po’ del proprio sangue per comprarsi uno spinello. Senza documenti, affidandosi all’autostop, ha retto i morsi della fame e i rigori dell’inverno con l’insolenza e i lavoretti provvisori. Eccola lavare le macchine in un’officina e darsi senza emozioni al padrone, eccola ospite di un drogato, eccola ubriacare una vecchia per far dispetto ai nipoti, eccola ascoltare una predica d’un filosofo fattosi pastore. Monà prova a coltivare patate e vendere formaggi, ma preferisce rubacchiare, ascoltare canzoni e stare lontana dall’acqua e sapone. Nemmeno quando una botanica un po’ snob, divertita dai suoi modi selvaggi, le dà una mano, Monà non mette radici. Scappa nel bosco, dove è aggredita da pari suoi, e finisce in casa d’un operaio tunisino che le insegna a potare i vigneti. Ma per poco, perché gli stagionali marocchini la cacciano. E allora torna con i drogati, fin quando dei contadini mascherati rischiano di bruciarla durante una festa della vendemmia. Monà, stremata, si rimette in cammino per i sentieri della campagna, sempre più faticosamente, finché non cade in un fosso ai bordi di un campo si rannicchia, si addormenta e muore assiderata nella notte.
Agnès Varda non spiega, mostra; non cerca lo spettacolo né si sofferma sui luoghi comuni della narrazione, è essenziale. Il suo personaggio, pieno di rabbia, non è raffinato né si salva, ma è tratteggiato nella sua dura nudità. Quello tra realtà e finzione è un equilibrio difficile che la regista affronta con uno sguardo “doppio” sulla realtà, tenero e crudele assieme, distaccato e partecipe, lucido e sensibile; uno sguardo mai indifferente, uno sguardo “politico”, calato nella realtà, in particolare quella delle donne e dell’emarginazione più in generale, uno sguardo anche provocatorio, a tratti scomodo, di accusa.
Lo spazio di Monà non è quello del margine né della contestazione né della rivolta. Monà costituisce il rifiuto radicale del mondo, è il rifiuto sociale e del naturale, la negazione totale di ogni metafisica e di ogni legge, l’intollerabilità di ogni compromesso. Diceva Agnès Varda di avere voluto stimolare, con questo film, una riflessione sull’idea di libertà: quella di Monà allora si configura come la ricerca della libertà assoluta, senza confini e senza padroni. Ma questa libertà coincide con l’idea della morte, poiché la stessa idea di esistenza presuppone il compromesso.
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