Partiamo dalla nostra vita: guardiamo al passato, facciamo un bilancio. È una storia, la nostra, che si è scritta per anni dentro le case collettive, i circoli, i luoghi di collettivizzazione che sempre si definivano come strutture di consumo di una ricchezza che veniva prodotta altrove. Abbiamo rimosso la durezza e la smisuratezza della necessità di produrre i beni necessari a riprodurre la vita. È stata la peste dell’irrazionalismo e dell’immediatismo. L’esproprio, forma di appropriazione di ricchezza si rivela poi miseria incapace di risolvere la contraddittorietà della merce: quella di essere vita cristallizzata, dunque cosa maledetta. Oggi la massa di tempo-di-vita lavorativo è là, un inconscio che appesta la nostra esistenza, che maledice i giorni e le notti delle nostre case, che riduce la collettivizzazione a marginalità subita.
I migliori di noi sono quelli che questa massa di rimosso ha sommerso nella follia o nel carcere o nel suicidio o nell’eroina.
Guai a chi continua. Guai a chi smette.
Dobbiamo saperci liberare dall’irrazionalismo che abbiamo prodotto, dare forma produttiva al rifiuto del lavoro, scoprire il rigore e l’esattezza nei modi di riproduzione, nei rapporti interpersonali. Le case collettive sono state luoghi di appropriazione e di consuno di una ricchezza che continua ad essere merce. L’illegalità di massa, la devianza sono state possibilità di sopravvivenza ma hanno bruciato autonomia, creando una figura del movimento come puro consumo, dunque una figura sempre dipendente da un altro spazio, esterno al movimento, dallo spazio della ripetizione del modo di produzione capitalistico. È stato irresponsabile far del trionfalismo su tutto questo. Occorre oggi costruire una socialità che si misuri sul problema fondamentale: la possibilità della produzione senza lavoro. La possibilità, dunque, della liberazione della vita. Porre questo problema come proposta di una forma di esistenza cioè di organizzazione per tutta una fase forse vuol dire che il movimento deve assumere forma di un luogo di sperimentazione; la scrittura collettiva forma di simulazione di ordigni linguistici capaci di funzionare come prefigurazione e paradigma di altri sistemi semiotici produttivi di valori d’uso in cui lavoro umano sia soppresso.
Porre questo problema come proposta non vuol certo dire preparare ricette per la trattoria dell’avvenire, parlare di transizione, pensare che la liberazione debba attendere la trasformazione di tutta la società (quando al contrario solo la pratica di liberazione può innescare un processo intensivo di trasformazione).
Ma anzi, occorre liquidare l’idea della transizione, quest’ultimo baluardo della tradizione ideologica socialista, anche sul terreno della produzione. Chi ha detto che il capitalismo debba finire perché il comunismo possa vivere? Questo oggi lo diciamo avendo d’occhio anche il problema della produzione del necessario, all’interno di forme di socialità che escano dalla dominanza del modo di produzione fondato sul lavoro e sul sacrificio.
(A/traverso maggio 1978 nuova serie numero due. Bologna)
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