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giovedì 12 dicembre 2013

L' apocalisse che non verrà

Tanto han gridato all'apocalisse che essa non verrà. E anche se venisse, del resto, ci vorrebbe del bello e del buono a distinguerla dalla sorte quotidiana riservata all'individuo come alla comunità.
Si può immaginare una danza macabra più a sinistra della guerra, della tortura, della tirannia, dell'incidente, della malattia, della noia, dei piaceri colpevoli e di questo godimento che si accanisce di più a tormentarsi che a dispiegarsi? La sopravvivenza non è forse ritagliata nella materia stessa dell'apocalisse?
La caduta dell'impero della merce non produrrà niente di più lamentevole della caduta nella disumanità che segna i suoi esordi. Ciò che è alla fine è anche all'inizio.
Una rovina nè nasconde un'altra: dietro il crollo del capitalismo monopolistico e di Stato viene meno l'intera civiltà mercantile, secondo un naufragio programmato da lunga data.
Le favole arcaiche che profetizzavano la morte degli dei in un annientamento universale si ricongiungono oggi nel pantheon della vita assente con l'Aurora nucleare, il macello della Gran Sera e della Notte mortifera in cui l'amarezza gira in tondo.
La fine dell'impero dell'economico non è la fine del mondo, ma la fine del suo dominio totalitario sul mondo. Tutti sanno, tuttavia, che una tirannia defunta continua ad uccidere. Non la gioia di vivere nè l'esuberanza creativa, bensì la paura è la risposta all'evidenza di una mutazione benefica. Una paura così intensa che l'economia moribonda vi scova ancora di che rifornire un mercato, il mercato dell'insicurezza, in cui il consumatore, ricondotto alla sua vera natura di minorato e di vegliardo, medica una muscolosa protezione per percorrere freneticamente i circuiti obbligati dell'edonismo consumabile.
Per la maggior parte delle persone esiste un solo terrore da cui tutti gli altri provengono, ed è quello di perdere l'ultima menzogna che li separa da se stessi, di dover creare la propria vita.

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