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giovedì 2 giugno 2016

LA DEA DEL 67 di Clara Law

"I want to buy a Goddess" 
Il film inizia con questo messaggio e-mail, inviato in rete da JM, giovane giapponese di Tokyo. JM però non sta cercando una donna ma una automobile, la leggendaria Citroen DS, uscita in Francia nel 1967 in solamente 1 milione e mezzo di esemplari, e in virtù della pronuncia francese, la Déesse, divenne per tutti la Dea, the Goddess. Trovata l'auto dei suoi sogni parte per l’Australia dopo aver affidato i suoi amati rettili alle cure di un'amica ed aver rubato una grossa somma di denaro via Internet. Al suo arrivo scopre che l'uomo che gli ha venduto la macchina ha sterminato la famiglia prima di suicidarsi. Nella casa dalle mura ancora sporche di sangue trova una giovane dai capelli rossi e cieca, BG, che si offre di portarlo dal vero proprietario della macchina. Comincia così un lungo viaggio attraverso il paese, durante il quale i due protagonisti ripercorrono le fasi più importanti della loro vita: la drammatica infanzia della ragazza, che si rivela attraverso dei flashback depurati dal colore, e il doloroso ricordo, confessato con pochissime parole, che ha spinto JM a lasciare il Giappone.
I due protagonisti scivolano in un paesaggio artificiale, lucido, con cieli dipinti di blu, nuvole d'ovatta, interni hi-tech di algore metallico, colori elettrici e lividi di giorno, caldi e morbidi di notte. La Citroen DS, feticcio color salmone, sfreccia attraverso le strade assolate di un'Australia marziana, navicella spaziotemporale in esplorazione di luoghi e tempi paralleli. In un'epoca di segni e di simboli, di oggetti di culto e idoli consumistici, l'auto, come il telefono satellitare, come il computer portatile, diviene totem da adorare, divinità privata che il denaro può comprare.
C’è molta filosofia orientale in La dea del 67, c’è l’incontro oriente e occidente sospeso, non risolto c’è il complesso di colpa eterno che la religione cattolica da sempre produce nei suoi fedeli, racchiuso nel terribile segreto di BG, una spensierata ragazza cieca. Poi c’è lei, la Dea. Che solleva dalle brutture della vita, che fa volare, che è occhi per vedere e mezzo per scappare. 
C'è soprattutto una bambina piccola, bellissima e cieca che chiede disperatamente aiuto a sua madre: "lui mi tocca, mi leva i vestiti, mi schiaccia". Ma la giovane madre non vuole sentire, porta la bambina in una cappella abbandonata perché si inginocchi e chieda perdono a Dio, "per avere vermi nel corpo e erbacce nella testa". La madre va dall'uomo e lo supplica di lasciare stare quella bambina. Ma lui perché dovrebbe farlo? Non c'è ragione che rinunci a un piacere che è anche un suo diritto: perché quella giovane donna è sua figlia e la sua amante, e quella bambina è sua figlia e sua nipote: cioè tutte e due gli appartengono, e lui può farne quello che vuole. Il modo in cui la regista Clara Law, nata a Macao, vissuta a Hong Kong, trapiantata in Australia, ha raccontato nel suo film la tragedia più spaventosa della pedofilia, l'incesto, non è scandalistico, non è orrificato, non è trucido. E' fatto di pietà, di stupore, di dolore, e contiene forse quel germe di verità che in eventi così spaventosi è quasi impossibile accettare. Qui non ci sono delitti, nessuna bambina viene uccisa fisicamente, eppure di delitti sull'infanzia, di un modo di uccidere il cuore delle bambine, il film parla. Non spreca parole o immagini di indignazione, non ci racconta di un mostro, non muove nello spettatore un viscerale bisogno di vendetta e di pena di morte. Ci racconta lo sfinimento e il dolore, la debolezza e il dominio, il sesso imposto con criminale egoismo e il sesso subito tra le lacrime e l'impossibile rifiuto. La violenza sui bambini, anche in famiglia, è il lato nero del cuore umano, che può manifestarsi ovunque.


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