Era il 13 ottobre 1955 quando un giovane poeta, gli occhi ardenti dietro le lenti da miope, la voce swingante, leggeva pubblicamente alla Six Gallery di San Francisco il testo che avrebbe rivoluzionato la poesia e acceso le giovani menti della seconda metà del Novecento. Il poeta era Allen Ginsberg, il poema, Howl (Urlo). Un pugno nello stomaco per la crudezza con cui ritraeva l’altra faccia del sogno americano: droga, morte, solitudine, follia. Ma anche incredibile energia vitale. La stessa, grazie alla quale Ginsberg e i suoi compagni d’avventura diedero vita a quella che fu poi battezzata beat generation: una corrente poetica che si fece pensiero filosofico e movimento di massa.
Il film ha tre piani narrativi che si intrecciano armoniosamente. C’è la vita giovanile di Ginsberg con i suoi amici Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, con i suoi amori (il primo, Neal Cassady, e quello della vita, Peter Orlowsky) e con le prime letture pubbliche del poema. C’è il processo creativo, straordinariamente raffigurato attraverso i disegni animati di Eric Drooker, che già aveva illustrato alcune poesie di Ginsberg, del quale era amico fin da ragazzino. E c’è il processo penale, rigorosamente ricostruito sulle trascrizioni degli atti, che nel 1957 vide imputato Ferlinghetti, editore di Howl, per linguaggio osceno.
Il consumo disinibito di droghe e omosessualità sfrenata esplode sulla pagina stampata e il dibattito su cosa abbia valore letterario e cosa ne sia totalmente sprovvisto apre una breccia nella critica accademica. L’accusa infierisce su forma e stile, estrapolando versi che, privi di contestualizzazione, divengono facili bersagli, mentre nel salotto di casa propria
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