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giovedì 7 dicembre 2023

Le cinque giornate di Milano – parte seconda


I fatti

6 maggio, venerdì Pausa pranzo. Il diciassettenne Guglielmo Salvio (Savio) distribuisce un volantino socialista, colpito da ordine di sequestro, agli operai della Pirelli (allora in via Galilei ove attualmente sorge l’omonimo grattacielo), stabilimento che impiega 2.400 operai di cui oltre la metà donne. Il volantino rivendica genericamente maggiori diritti, libertà e giustizia. Arrestato, Salvio viene portato alla caserma di polizia in via Napo Torriani: alcuni operai che osservano la scena iniziano a tirare sassi e viene a sua volta fermato l’operaio Angelo Amadio perché oltre a tirare pietre grida «viva la rivoluzione!». Intorno alla caserma cominciano ad assembrarsi un gran numero di operai che chiedono a gran voce la liberazione di Amadio. Malgrado i tentativi del socialista Carlo Dell’Avalle di riportare la calma partono le prime sassaiole, che però non portano a risultati concreti. I manifestanti al posto di disperdersi ritornano verso lo stabilimento della Pirelli coinvolgendo altri operai della Stigler e dell’Elvetica. Si riprende a tirare sassi tanto che l’ingegner Pirelli, temendo il degenerare della situazione, cerca senza riuscirci di far rilasciare l’operaio. Invece arrivano 150 militari per riportare l’ordine. La tensione inizia a farsi palpabile tanto che all’uscita dei cancelli, alle sei di sera, insieme ai deputati Filippo Turati e Dino Rondani arriva un messo comunale con la notizia della  sospensione del dazio comunale sui cereali. Ma questo non è sufficiente ed un migliaio di operai ritorna al posto di polizia per riprendere la sassaiola, cercando addirittura di dar fuoco all’edificio. Comincia la rivolta: agenti e soldati aprono il fuoco sulla folla, cadono le prime vittime e l’esercito viene impiegato in forza per presidiare i punti strategici della città in previsione dell’allargamento degli scontri. Benché la notte passi relativamente tranquilla, le autorità sono oramai convinte di

avere a che fare con un moto insurrezionale organizzato. 7 maggio, sabato Gli operai della Pirelli sospendono il lavoro e girano per gli altri stabilimenti invitando allo sciopero. Verso le 10 i manifestanti sono già 4.000 e occupano la Stazione Centrale per impedire ai richiamati di partire. Compaiono le prime barricate in corso Venezia formate da tram messi di traverso ed altre compaiono in via Torino, corso di Porta Ticinese, Porta Vittoria (antica Porta Tosa di risorgimentale memoria), Porta Garibaldi, via Moscova e via Canonica, puntualmente sgombrate dalle truppe regie ed altrettanto puntualmente ricostruite dai milanesi. La svolta repressiva avviene intorno a metà pomeriggio quando Rudinì, in base agli allarmanti dispacci provenienti dal prefetto Winspeare e dal sindaco moderato Vigoni, dichiara lo stato d’assedio ed affida pieni poteri al tenente generale Bava Beccaris, comandante del III corpo d’armata con sede a Milano. Questi non dubita minimamente di essere di fronte ad una rivoluzione armata organizzata e si comporta di conseguenza: richiama le truppe del circondario a Milano e, a partire da piazza Duomo, si irradia verso le porte. Parallelamente inizia la repressione politica: agli arresti di massa segue la chiusura dei giornali socialisti, anarchici e repubblicani fino allo scioglimento della Camera del Lavoro, la revoca di ogni permesso di detenzione di armi ed il coprifuoco serale. 8 maggio, domenica È la giornata più sanguinosa: il cannone tuona in diverse parti della città, addirittura in alcuni casi a mitraglia: Porta Ticinese, Porta Genova e Porta Garibaldi vengono investite  dall’artiglieria tanto che nel tardo pomeriggio i tumulti sembrano cessati e il generale telegrafa al presidente del consiglio per comunicar gli il ristabilimento dell’ordine. 9 maggio, lunedì Nella notte tra domenica e lunedì, voci incontrollate di possibili colonne di insorti anarchici provenienti dalla Svizzera inducono Bava Beccaris a continuare la sanguinosa repressione che ha come tragicomico avvenimento l’assalto a cannonate e baionette del convento dei cappuccini in corso Monforte, sospettato di essere un covo di insorti: i soldati vi trovano dei barboni in attesa del pranzo e i religiosi, che comunque vengono arrestati in via precauzionale: così il generale ha la sua piccola Porta Pia. Stroncati i moti di piazza la repressione passa ai tribunali militari che usano la mano pesante condannando poco meno di 700 milanesi a pene severe. Molti i nomi eccellenti: la socialista Anna Kuliscioff e lo scrittore Paolo Valera, Don Albertario, direttore del quotidiano intransigente «L’Osservatore Cattolico», il radicale Carlo Romussi, direttore de «Il Secolo», Gustavo Chiesi del giornale repubblicano «L’Italia del Popolo» e poi i deputati Luigi De Andreis e Filippo Turati, condannati a 12 anni di reclusione. Malgrado 80 morti civili e 500 feriti (i dati sono per difetto), 122 giorni di stato d’assedio e condanne così dure, i giudici militari non riescono a dimostrare che ci sia stata una cospirazione  rivoluzionaria organizzata. Ed è appunto questo clima di violenza e di repressione voluto dalla monarchia ad armare la mano all’anarchico Gaetano Bresci.



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