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giovedì 30 novembre 2023

Le cinque giornate di Milano – parte prima

A centoventicinque dai fatti del 1898 milanese sembra ancora resista una sorta di rimozione collettiva quasi che quel bagno di sangue sia stato un incidente di percorso o al più opera esclusiva del generale Fiorenzo Bava Beccaris, o meglio, come una nota canzone di protesta dell’epoca lo definì, «il feroce monarchico Bava». In realtà le giornate del maggio milanese segnano il punto di non ritorno di una articolata strategia autoritaria e repressiva inaugurata almeno un decennio prima dalla politica crispina, appoggiata da parte della borghesia e dai grandi latifondisti meridionali. Una politica imperniata sul modello bismarckiano di esecutivo forte teso ad una politica estera di potenza e a una pervicace esclusione dallo Stato liberale delle forze popolari, siano esse socialiste o cattoliche intransigenti. Gli anni Novanta dell’Ottocento sono segnati da un profondo mutamento della società italiana: la prima ondata di industrializzazione (fortemente stimolata dai capitali tedeschi) fa sentire i suoi effetti nei rapporti sociali: alle figure tradizionali del mezzadro e dell’artigiano, si affianca l’operaio ed il bracciante agricolo proletarizzato nelle grandi cascine padane proto- capitaliste. Sono anni cruciali per lo sviluppo del movimento operaio italiano, movimento atipico (insieme a quello spagnolo e del Giura) perché fortemente caratterizzato da istanze libertarie che affondano le radici nel Risorgimento di Pisacane e nella forte matrice antiautoritaria impressa da Bakunin nei lunghi soggiorni italiani, che rimarrà per lungo tempo anche patrimonio della base del partito socialista, malgrado la drammatica separazione sancita nel congresso di Genova del ’92. Anni fervidi, di durissime lotte contadine, di società di mutuo soccorso, di leghe operaie, ma anche di una sempre maggior determinazione da parte dare risposte draconiane alle rivendicazioni popolari. In un crescendo di violenza, fatto di galera, confino, censura, di moti repressi nel sangue come nel caso dei Fasci siciliani o dei moti della Lunigiana del ’94, di leggi speciali costruite per colpire il movimento anarchico ma che serviranno anche a sciogliere  il partito socialista e a imbavagliare la stampa repubblicana, si arriva alla crisi del ’98. Il motivo scatenante è noto. In una fase di grave crisi economica si verifica un aumento del prezzo del pane che colpisce pesantemente gli strati più deboli della società: se un chilo di pane nel ’97 costa 37 centesimi, un anno dopo il suo prezzo è salito a 47 centesimi, cifre che non rendono la giusta dimensione del dramma se non si tiene conto che la paga media giornaliera di un operaio è di 2 lire: un quarto dello stipendio per un chilo di pane. Le cause di questa crescita dei prezzi sono rintracciabili nella politica protezionista perseguita dal governo per favorire i grandi produttori meridionali, i quali non sono capaci di soddisfare la domanda interna sia per le strutture di produzione di tipo feudale sia per il cattivo raccolto dovuto alla siccità. Quando il governo Rudinì si decide a cercare dai grandi produttori internazionali ilgrano, si trova di fronte alla chiusura delle esportazioni russe e alla guerra tra Stati Uniti e Spagna per il controllo di Cuba. La crisi è inevitabile e coinvolge tutta la penisola al grido «pane e lavoro», parole semplici che ricordano le antiche jacquèries contadine e non un movimento insurrezionale organizzato come da subito pare ai circoli militari e reazionari legati alla corona. L’anno si apre con la rivolta di Ancona: città tradizionalmente segnata da una forte influenza repubblicana ed anarchica, grazie anche alla presenza di Errico Malatesta che vi pubblica il quotidiano «L’Agitazione». E non basteranno le truppe inviate per fermare la spinta protestataria, che già a fine gennaio ha conquistato le Romagne e la Liguria per poi irradiarsi alla Sicilia e a macchia di leopardo nel resto della penisola: scontri di piazza sovente luttuosi si verificano a Napoli, Bari, Chieti, Livorno, Parma. Ma l’avvenimento più grave avviene a Pavia il 5 maggio dove, in uno scontro con la forza pubblica, cade lo studente Muzio Mussi, figlio del vicepresidente della Camera e futuro sindaco di Milano, eletto dalle sinistre nel dicembre dello stesso anno a simbolica chiusura dell’epoca del moderatismo cittadino. Naturalmente quando la rivolta prende piede a Milano la situazione diventa esplosiva: la città rappresenta la punta avanzata dello sviluppo capitalista italiano, esiste una classe operaia ben organizzata e politicizzata, qui è nata la prima Camera del Lavoro sul modello delle Bourses du Travail francesi, qui è sorto il primo embrione di partito operaio italiano grazie a figure carismatiche come Costantino Lazzari, qui vi è una tradizione democratica e repubblicana che si ricollega alle cinque giornate del 1848, qui in definitiva è il vero laboratorio politico d’Italia. La rivolta non parte dai contadini giornalieri della Capitanata, bensì dagli operai della Pirelli, la fabbrica modello, esempio illustre di paternalismo padronale.
Per questo stroncare Milano vuol dire dare una lezione a tutta Italia, allontanare lo spettro di una rivoluzione ma anche mettere fuori gioco le forze legalitarie antiliberali: il partito socialista ed il cattolicesimo politico nelle sue accezioni sociali ed intransigenti. In questo contesto il generale Bava Beccaris non può esser visto come un paranoico sanguinario perché ha agito in piena sintonia con Rudinì e con Umberto I: il generale è stato lo strumento consapevole di un progetto reazionario, a cui fanno fede la sua nomina a senatore del regno e la croce di grande ufficiale dell’ordine militare di Savoia concessa  – recita la motivazione ufficiale  –  per il grande servizio reso alle istituzioni ed alla civiltà. D’altronde Bava Beccaris è il prototipo di quella casta militare piemontese forgiata nel tardo risorgimento (ha partecipato alla campagna di Crimea ed alla seconda e terza guerra d’indipendenza), fedele alla corona e all’ordine, come si deduce chiaramente dalla relazione ufficiale che invia al ministro della guerra a moto represso dove il problema viene ricondotto ad una energica operazione militare. Del resto non si può chiedere ad un generale di fare il politico. Ma veniamo alle quattro giornate milanesi.


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