Una ragazza e suo fratello vanno a fare una gita nella savana australiana. Sono accompagnati dal padre. Mentre lei prepara il picnic, il padre, improvvisamente, estrae una pistola e comincia a sparare: i due ragazzi si nascondono e il padre si spara un colpo. La ragazza tranquillizza il fratello dicendogli che non è successo niente di grave. Lo prende per mano e cerca di tornare a casa attraverso il deserto. Al calar della sera si rendono conto di essersi perduti. II giorno dopo trovano un'oasi ma l'acqua finisce presto e la loro situazione appare disperata. Inaspettatamente, dal deserto, compare un giovane aborigeno. Egli sta compiendo il suo vagabondaggio - il periodo di sei mesi in cui, secondo le leggi tribali, egli deve vivere a contatto con la natura e trasformarsi in un uomo. L'aborigeno prende i ragazzi sotto la sua protezione e li conduce attraverso la vasta terra desolata. Finalmente trovano una fattoria abbandonata che sembra loro un buon posto per fermarsi. Ma poi l'aborigeno prende il ragazzo e gli mostra una strada che può ricondurli alla civiltà. Dispiaciuto dal fatto che il bambino e la ragazza tra breve se ne andranno ponendo fine alla vita in comune, l'aborigeno si dipinge il corpo e dà inizio ad una danza di corteggiamento; la ragazza, temendo un qualche tipo di violenza, si ritrae dal giovane. Lui continua a danzare per ore. Al mattino lo trovano morto. Sconcertati, i due fratelli prendono la strada della salvezza, solo per essere accolti con ostilità nella prima cittadina che incontrano).
In Walkabout lo scontro è insieme umano (la ragazza bianca e l'aborigeno nero) e culturale (la città, da una parte, il deserto dall'altra). L'interazione è il prodotto di una necessita geografica e biologica (la ragazza è priva di aiuti nel mondo dell'aborigeno, come del resto lo sarebbe lui in quello di lei). Quanto alla separazione, non è altro che l'inevitabile conseguenza di questa doppia origine così ricca di contrasti. Sono contrasti che Roeg rende subito espliciti, fin dalle prime inquadrature dove all'immagine di una città formicolante di vita si sovrappone quella del deserto fino a quando, da un buco in un muro, non compare in tutta la sua maestosità il panorama selvaggio che, poi, dominerà su tutto. Nel finale il procedimento appare rovesciato: è l'immensità del deserto a venire a poco a poco sommersa dalle immagini di case in costruzione, di cimiteri di oggetti abbandonati (il ragazzo che siede in un tram fuori uso) e infine della stessa folla. Come risultato di questo montaggio di Roeg, città e deserto divengono simboli, ognuno dei quali destinato a nascere dall'altro. Gli abitanti della città appaiono sconcertanti come sabbie mobili, ma non per questo il mondo selvaggio, con tutto il suo fascino, pare privo di strutture sociali, anzi, e in esse predomina ciò che più di ogni altro serve a sopravvivere: l'esperienza. Natura e civiltà possono anche essere in contrasto; cionondimeno hanno entrambe le stesse radici, gli stessi bisogni. Il modo con cui Roeg esamina questi bisogni rivela che ognuno di loro ha un terribile prezzo.
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