Brazil è un mondo a se stante, un vero pastiche di generi e suggestioni. Una esplosione di citazioni cinematografiche e letterarie. Un labirinto di ansia individuale e angosce collettive. Un mondo in cui non si muove un passo senza moduli e autorizzazioni, in cui l’unica via di fuga è il sogno.
Animato da un’energia esplosiva e maniacale, Brazil vaga nei meandri impazziti di un mondo spersonalizzante, un nero 1984 nel quale l’ordine si è dato forme di follia e la scenografia si è avvoltolata in contorsioni prestabilite. La fantasia è cupa, sotterranea, paralizzante: una parabola oscura con la quale Gilliam mostra una società basata sull’opulenza per pochi, sulla merce, sul consumismo obbligatorio per tutti, sulla bellezza, sulla omologazione e sul controllo totale.
Là dove l’ordine politico e culturale fondato sull’accumulo diventa insopportabile, soffocante, scoppiano attentati eseguiti da misteriosi commando eversivi che si annidano negli uffici, nelle officine, tra i corridoi dei supermercati. L’allusione alla politica interna inglese è evidente, Brazil è il primo film che attribuisce una valenza positiva all’azione terroristica in un contesto occidentale, e che riconosce nello stesso tempo l’avvenuto naufragio di un modus vivendi che ha prodotto, dopo l’impero, la sporcizia e il grigiore della società capitalistica.
Costruito con una fantasia strepitosa da truccatori e scenografi di gran classe, e gremito di idee balzane che lo seminano di sorprese,anacronismi buffissimi, figure mostruose, per cui la macchina dell’imprevisto gira a pieno regime e ovunque soffia il vento della follia. Un film sarabanda, il cui filo logico è rappresentato dal pessimismo dei suoi autori, per i quali la dolcezza dell’amore sarà negata in una società che avrà ereditato tutte le nostre violenze.
Terry Gilliam sul set |
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