I sistemi democratici avanzati si stabilizzano sulla formula dell'alternanza bipartitica. Il monopolio di fatto rimane quello di una classe politica omogenea, dalla sinistra alla destra, ma non deve esercitarsi come tale: il regime del partito unico, del totalitariato, è una forma instabile, essa smorza la scena politica, non assicura più il feedback dell'opinione pubblica, il flusso minimale nel circuito integrato che costituisce la macchina transistorizzata del politico. L'alteranza è invece il non plus ultra dell'equazione concorrenziale perfetta fra i due partiti. Questo è logico: la democrazia realizza nell'ordine politico la legge dell'equivalenza, e questa legge si realizza nel gioco d'altalena dei due termini, che riattiva la loro equivalenza ma permette, mediante questo minimo scarto, di captare il consenso pubblico e di richiudere il ciclo della rappresentazione. Teatro operativo dove non recita più che il riflesso fuligginoso della Ragione politica. La libera scelta degli individui, che è il credo della democrazia, sbocca in realtà esattamente nell'opposto: il voto è diventato sostanzialmente obbligatorio: se non lo è di diritto, lo è per la costrizione statistica, strutturale dell'alternanza, rafforzata dai sondaggi. Il voto è diventato sostanzialmente aleatorio: quando la democrazia raggiunge uno stadio formale avanzato, essa si distribuisde intorno a delle percentuali uguali (50/50). Il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo dele probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie.
A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia, bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statica e tanto maggiore.
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