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giovedì 26 marzo 2015

Il ’68 tra passato e futuro

L’organizzazione rivoluzionaria dell’epoca proletaria è definita dai diversi momenti della lotta in cui ogni volta deve riuscire; e deve anche, in ciascuno di questi momenti, riuscire a non diventare un potere separato. Non si può parlare di lei facendo astrazione delle forze che essa mette in gioco qui ed ora, né dell’azione reciproca dei suoi nemici.
Ogni volta che riesce ad agire unisce la pratica e la teoria che procedono costantemente l’una dall’altra, ma non crede mai di poter realizzare questo suo proposito con la semplice proclamazione volontaristica della necessità della loro fusione totale. Quando la rivoluzione é ancora molto lontana, il difficile compito dell’organizzazione rivoluzionaria é la pratica della teoria. Quando la rivoluzione comincia, il suo difficile compito diventa sempre di più la teoria della pratica della teoria; ma l’organizzazione rivoluzionaria ha assunto allora una conformazione completamente diversa. Là pochi individui sono di avanguardia e devono provarlo con la coerenza del loro progetto generale e con la pratica che permette loro di conoscerlo e di comunicarlo; qui delle masse di lavoratori son del loro tempo e devono mantenervisi in quanto suoi soli possessori, padroneggiando l’impiego della totalità delle loro armi teoriche e pratiche, ed in particolare rifiutando ogni delega di potere ad un’avanguardia separata. Là una dozzina di uomini efficaci possono bastare all’avvio dell’auto-esplicazione di un’epoca che contiene in sé una rivoluzione di cui ancora non ha conoscenza e che ovunque le sembra assente ed impossibile; qui bisogna che la grande maggioranza della classe proletaria detenga ed eserciti tutti i poteri organizzandosi in assemblee permanenti deliberative ed esecutive, che non lascino in nessun luogo sussistere alcunché della forma del vecchio mondo e delle forze che lo difendono. La lotta contro le ingiustizie ha smesso di dissimulare ciò che é sempre stata: la conquista da parte degli uomini di una merce che li conquista e rimpiazza con una forma umana - un’astrazione - la realtà vivente che esaurisce. Scendere in strada con le armi della rivendicazione? Per che fare? Per reclamare dei diritti che mi saranno accordati al prezzo di nuove rinunce, mi arricchiranno a mie spese e impoveriranno la mia vita? La gente si é battuta per secoli per l’uguaglianza e prende oggi coscienza che la sola uguaglianza effettiva é il dovere imposto a tutti di sacrificarsi per lavorare, e di lavorare per niente o per così poco, poiché l’avere declina, il potere rende ridicoli e la sopravvivenza si annoia...
Si é dovuta realizzare infine, nella seconda metà del XX secolo, l’utopia del benessere, immaginata dai pensatori prometeici dello slancio capitalista, perché ci si accorgesse che il paradiso dei consumatori era un mortorio climatizzato, gocciolante di noia, di angoscia e di insoddisfazione.
Il movimento del Maggio 1968 non ha soltanto contrassegnato l’atto di fallimento dell’economia e della felicità a credito, ha principalmente portato alla coscienza che il minimo vitale - il diritto per tutti di nutrirsi, di esprimersi, di spostarsi, di comunicare, di creare, di amare - non costituiva lo scopo finale dell’umanità, ma il suo punto di partenza, la materia prima di un superamento senza il quale non c’è che una società disumana.

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