Il dio nero e il diavolo bianco può essere considerato il film manifesto del cinema novo brasiliano. Roche mette in pratica in quest’opera, che è la sua seconda, quanto era andato a definire attraverso una lunga attività di organizzatore politico-culturale. Contro il cinema d’importazione, contro le influenze hollywoodiane, si rivendica la riscoperta dei temi nazionali, della cultura popolare, rapportati alla realtà continentale latino-americana. Il sertao è al centro del film e col sertao l’antica sofferenza dei contadini che in quelle terre vivono.
La storia di sottomissione e di violenza subita dalle popolazioni povere del Brasile porta con sé solo episodi di violenza isolata; così è isolata la cruenta rivolta che compiono Manuel e Rosa verso il loro padrone, così è isolata la rivolta del cangaceiro Corsico verso tutti i padroni.
Per Manuel e Rosa, per tutti gli abitanti del sertao, il vero freno della liberazione è l’episodicità del loro gesto. L’istintività della ribellione permette al misticismo religioso di porsi come risposta illusoria e violenta all’ingiustizia. Ma anche la violenza del cangaco Corsico rimane sempre racchiusa nella rivolta, nell’individualità dei gesti che vengono compiuti.
Il cammino verso la liberazione è spezzato, ma nel rapporto dei due contadini, prima col santone Sebastiao (il dio), che svilizza e ingabbia la loro rivolta, poi con il cangaceiro (il diavolo), che la riindirizza verso obiettivi più precisi, si intravede la possibilità di un cammino diverso per raggiungere la liberazione.
“Soltanto una cultura della fame, minando le sue stesse strutture, può superarsi qualitativamente: e la più nobile manifestazione culturale della fame è la violenza. Qui risiede la tragica originalità del cinema novo di fronte al cinema mondiale: la nostra originalità è la nostra fame e la nostra maggior miseria è che questa fame pur essendo sentita, non è compresa. Il nostro è un cinema che si muove in un ambiente politico di fame e che pertanto sofre delle debolezze proprie della sua particolare esistenza.” (Glauber Rocha)
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