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giovedì 12 marzo 2015

Il linguaggio è divenuto una merce

Il linguaggio è divenuto costoso. Il suo insegnamento è divenuto una professione ed è oggetto di massicci investimenti. Le parole sono una delle due principali categorie di valori di mercato che compongono il Prodotto nazionale lordo. Si spendono somme di denaro per decidere cosa dire, chi lo deve dire, come, quando e che tipo di persone si vuol raggiungere con il messaggio. Più elevato è il costo di ogni parola pronunciata, maggiore è lo sforzo che viene compiuto per farla risuonare. Nelle scuole la gente impara a parlare come si deve. Spendiamo quattrini per fare sì che i poveri parlino in maniera più simile ai ricchi, i malati in maniera più simile ai sani, i neri in maniera più simile ai bianchi. Spendiamo per migliorare, correggere, arricchire e aggiornare il linguaggio dei bambini e quello dei loro insegnanti. Investiamo per sviluppare i gerghi professionali che vengono insegnati alla università, e altri ancora per dare di quegli stessi linguaggi tecnici un infarinatura ai ragazzi del liceo, giusto quanto basta a farli sentire dipendenti dallo psicologo, dal farmacista, o dal bibliotecario, che parlano scorrevolmente un loro linguaggio speciale. Prima spendiamo per rendere le persone il più possibile monolingui, per far sì che si esprimano esclusivamente nel linguaggio standard colloquiale colto, poi cerchiamo di insegnare loro il dialetto di una minoranza etnica o di una lingua straniera.
Il linguaggio è divenuto una merce e il compito dell'educatore è divenuto quello di addestrare dei venditori di discorso, dotandoli di un certo stock linquistico. La  conversazione si è trasformata in una forma di commercializzazione: acquisto, produzione e vendita. Usiamo parole, idee, frasi, ma non parliamo più.

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