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giovedì 17 novembre 2016

L'architettura di prevenzione situazionale

L'architettura di prevenzione situazionale ovvero l’architettura della paura. La nuova urbe diventa una città-fortezza, pattugliata da forze dell'ordine in assetto militare, sempre più sorvegliata dalle telecamere ma anche dagli stessi cittadini, mentre le classi più abbienti tendono ad andare ad abitare in enclavi super-protette, in comunità chiuse, zone residenziali controllate da recinzioni, mura e polizia privata. In generale si può parlare di architettura difensiva, cui obiettivo sarà quello di riconfigurare i luoghi per influenzare i comportamenti con l'aiuto di tutta una serie di dispositivi materiali di protezione: muri, barriere, recinzioni, inferriate, terrapieni, fossati, siepi rinforzate, a cui si aggiungono le tastiere digitali che controllano gli accessi, telecamere e polizia. E al tempo stesso eliminando tutti quegli elementi che possono indurre i delinquenti reali o potenziali a sentirsi sul proprio terreno (vicoli ciechi, anfratti, tunnel, passerelle, corridoi, atrii traversanti, tetti terrazzati...)
Un modello presto abbandonato, si passerà quindi che ha come obiettivo quello di conciliare sicurezza e urbanità. Architetti, urbanisti e paesaggisti dovranno cercare soluzioni in grado di coniugare il bisogno di protezione e la necessità di non costruire uno spazio urbano troppo poliziesco, motivo per cui dovranno trovare il modo di camuffare gli interventi di sicurezza dietro le parvenze di una “città condivisa”, a misura d'uomo, solidale e tutte le banalità – o meglio, le menzogne – che si sentono ripetere da politici e pianificatori urbani dei giorni nostri. Ma al giorno d'oggi siamo a un'ulteriore tappa nello sviluppo di queste pratiche e teorie: preso atto che la società è sempre più fluida, anche la delinquenza sarebbe sempre più mobile e volatile: può succedere di tutto ovunque e in qualsiasi momento, quindi è ora di anticipare l'imprevedibile, di prevedere l'improbabile. Si tratterà allora di creare dispositivi per separare e canalizzare i flussi di persone, limitare gli incroci per evitare imbottigliamenti e congestioni propizi a tutta una serie di atti malevoli – dagli scippi alle sommosse – così come a installare dei perimetri di sicurezza che si possano rimuovere o ampliare a seconda delle circostanze e servono a smistare e filtrare gli utenti in funzione della legittimità riconosciuta alla loro presenza nel dato luogo da mettere in sicurezza, senza dimenticare le corsie di circolazione riservate alla polizia per permettere un suo intervento rapido. 
Tuttavia si potrebbe concludere che questo spazio difendibile si dimostri piuttosto indifendibile. Innanzitutto perché l'esperienza insegna che a ogni ostacolo posto alle attività criminali più comuni, aggressori determinati, esperti e organizzati riusciranno sempre ad aggirarlo; inoltre, a causa dell'ambiente paranoico che genera, contribuisce a mantenere se non ad accentuare il sentimento di insicurezza e diffidenza che prevale oggi. Infine perché qualsiasi intervento che voglia risolvere i problemi sociali riducendoli a una questione di forma urbana (ad esempio lo spazialismo: non riuscendo a controllare le condizioni generali che determinano la comparsa di fenomeni di “violenza urbana” e la domanda di sicurezza, l'azione dei poteri pubblici e la riflessione degli esperti che li consigliano tendono a ripiegare sull'organizzazione dei luoghi, come se ciò che avviene avesse un'origine locale e spaziale) è votato al fallimento: i fatti che emergono nella città non necessariamente provengono dalla città, ma hanno origine altrove, un altrove che è allo stesso tempo da nessuna parte e dappertutto, vale a dire il capitalismo globale

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