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giovedì 10 novembre 2016

Le radici libertarie di Victor Serge

Scrittore francese di sangue e spirito russo, romanziere, poeta, storico, giornalista e traduttore, Victor-Napoleon Lvovich Kibalchich – alias Victor Serge, Le Rétif, Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Victor Klein, Alexis Berlowsky, Sergo, Siegfried, Gottlieb, V. Poderewski e qualche altro pseudonimo – nacque in esilio a Bruxelles, il 31 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della Belle Époque, l’esaltazione comunista degli anni Venti e l’incubo totalitario della mezzanotte del secolo. Passò per le correnti più importanti del movimento operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l’individualismo, l’anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotzkismo, senza mai abbandonare una spiccata sensibilità libertaria. Trascorse una decina d’anni di prigionia in diversi Paesi, partecipò a tre rivoluzioni – la spagnola (1917), la russa (1919-20) e la tedesca (1923) – e fu attivo anche in Belgio, Francia, Austria e Messico. Sopravvisse al Gulag e alla barbarie nazista, e fu tra i primi a qualificare l’URSS come un regime totalitario.
Autore di culto, sebbene quasi sconosciuto al grande pubblico, non sviluppò un sistema dottrinale né lasciò una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale nel senso tradizionale; in ogni tappa critica, cercò di dare alle esigenze dello spirito uno sbocco nell’azione. La sua attualità risiede nella riflessione traboccante, letteraria e poetica ancor più che teorica, sulla tragedia di una rivoluzione che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che dedicò a questo tema, mantenne la freddezza dell’analista distaccato conservando, allo stesso tempo, la passione militante e la certezza di un avvenire migliore. È impossibile avvicinarsi all’opera di Victor Serge senza evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia poverissima, cominciò a guadagnarsi la vita a quindici anni. Fu, in ordine successivo, apprendista fotografo, fattorino, gasista, disegnatore tecnico, tipografo, traduttore, giornalista e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico Nicolai Kibalchich, era stato l’esperto in esplosivi della Narodnaia Volia (Volontà del Popolo), la famosa organizzazione rivoluzionaria erede del populismo, che vedeva nella comune rurale russa (il mir) la possibilità di costruire un socialismo contadino. In casa Kibalchich, la poesia sostituiva la preghiera e si narravano storie di attentati, processi e fughe dalla Siberia, in un’atmosfera analoga ai romanzi di Dostoevskij, Chernichevsky e Turgenev. Nei tanti alloggi di fortuna dove visse la famiglia, poteva mancare il pane, ma vi era sempre un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime della repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert, il fratellino minore, morì di fame e, anni dopo, la madre Vera finì stroncata dalla tubercolosi, la malattia dei poveri.
Da quei genitori atipici che lo colmarono d’affetto, senza mandarlo a scuola, Victor ereditò il raro dono della coscienza sociale, un’insaziabile curiosità intellettuale e una grande indipendenza di spirito. Il padre Leonid, che si rifaceva all’evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la cultura scientifica e materialista del suo tempo, mentre Vera, donna di grande sensibilità e raffinatezza, lo iniziò alla poesia e alla letteratura universale. A ciò bisogna aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli di studio, pubblicazioni sindacali, feuilleton, opere di divulgazione scientifica e tutto l’arsenale della cultura popolare dell’epoca.

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