Il giovane illustratore Stephane, dopo la morte del padre, lascia il Messico con la promessa di un lavoro per tornare alla casa materna in Francia. Lì si imbatte nella vicina di casa, Stephanie e, in un lavoro che non è esattamente come immaginava. Con l'inseparabile cartella contenente i disegni che illustreranno il calendario delle disgrazie, si presenta sul nuovo posto di lavoro che subito ridimensiona le aspettative del giovane. Anzi,le uccide. L'ufficio è situato in un sottoscala, i colleghi non sono affatto amichevoli e il compito da svolgere sarà quello di incollare scritte sopra calendari pubblicitari. Il contenuto della sua cartelletta non viene nemmeno preso in considerazione e il ragazzo, per la frustrazione, si rifugia ancor più nei propri sogni. L'incontro con Stephanie lo riconcilierà con la creatività che ha la necessità di coltivare ed esprimere, ma non con la realtà del mondo che vedrà sempre filtrata dalla sfera onirica, sempre più dilagante.
Tentare di spiegare altro del film è praticamente impossibile, visto che il regista si diverte a rappresentare la testa di Stephane come uno studio televisivo tutto fatto di cartone, nel quale lo stesso protagonista prepara i suoi sogni come lo chef di una trasmissione di cucina. La relazione tra i due giovani non manca di collaborazione artistica, visti i diorami creativi opera di Stephanie e i gadget che continuamente escono dalla fervida fantasia di Stephane, a metà tra il riciclato e il magico. Il regista si sbizzarrisce in una creatività che volutamente evita gli effetti speciali moderni, privilegiando lo stop-motion, la cartapesta, il cellophane, come in una trasmissione per bambini degli anni ’60, esplorando un subconscio che non risponde a nessuna logica. La relazione tra i due, ricca di momenti eccitanti e stranezze visuali di grande bellezza, però è preda degli sbalzi di umore, e presto sprofonda in una cupezza che nessun artificio riesce a rallegrare, lasciando i due giovani ancora una volta nella loro solitudine.
Alla fine, quando i due innamorati si addentrano nel mare di cellofan, adagiati su un cavallo giocattolo di pezza dai movimenti improbabili, trasportati da una barchetta di cartone, sembra fuor di dubbio che il sogno sia più potente della realtà. Sembra e forse lo è, o, perlomeno, Michel Gondry sembra esserne certo. Per lui il sogno è potenza, energia allo stato puro, opposizione ma allo stesso tempo comprensione e spiegazione di una realtà materica che non può e non deve essere solo ragione, razionalità, ordine stabilito e predeterminato. Pertanto costruisce i suoi personaggi attingendo da un ordine alternativo, fondato sul disordine, su un elogio dell’anarchia come possibilità prima e più spontanea della creazione, della materia che, attraverso la manipolazione, si anima e si fa arte: l’arte vera, l’unica degna di questo nome.
L’arte del sogno è una riflessione, anche dolorosa, sulla difficoltà di comunicare i propri sentimenti, il proprio universo interiore, la propria diversità. È anche una malinconica storia d’amore tra due giovani che riescono a comunicare su un territorio creativo più che sul linguaggio verbale e del corpo.
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