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giovedì 11 gennaio 2018

Il '68 ... qualche tempo prima (Capitolo II)

Reggio Emilia, 6 luglio 1960
In solidarietà a quanto successo a Genova e a Licata, la sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione, proclamò lo sciopero cittadino. La prefettura proibì gli assembramenti e le stesse auto del sindacato invitarono con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare durante la manifestazione. Ma, l’unico spazio consentito, la Sala Verdi che aveva una capienza di 600 posti, era troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti. Un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decise quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. In quel periodo gli assembramenti nei luoghi pubblici erano vietati.
Lo sciopero è riuscito imponente in tutta la provincia” annuncia poco dopo le 16,30 ai cittadini radunati in piazza della Libertà un’auto della Camera del Lavoro. Ora non mancano che pochi minuti al comizio che deve coronare la grande manifestazione popolare (e che è stato autorizzato). Ma nessuno potrà mai ascoltare quel comizio: prima ancora che gli oratori prendano posto sul palco, comincia, infatti, l’inferno.
In poco tempo scoppia il caos. Arrivano decine di camionette, si attivano gli idranti, partono i lacrimogeni. Insieme a quelli anche colpi di mitra, di fucile, e di pistola sparati ad altezza uomo.
Alle 16.45 del pomeriggio una carica di un reparto di 350 poliziotti al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico, investe la manifestazione pacifica. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dai getti d’acqua e dai lacrimogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, per poi barricarsi letteralmente dietro ogni sorta di oggetto trovato, seggiole, assi di legno, tavoli del bar e rispondendo alle cariche con lancio di oggetti. Respinte dalla disperata resistenza dei manifestanti, le forze dell’ordine impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare. "Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l'isolato San Rocco.
Vidi un poliziotto scendere dall'autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d'uomo". In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli, l'operaio di 35 anni si trova isolato al centro di piazza della Libertà ed è lì che l'agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s'inginocchia, prende la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: "Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia".
«Stavamo tentando di uscire dalla piazza – ricorda l’ex comandante partigiano Lino Alvarez “Sbrigoli” – per imboccare via Andreoli, quando un gruppo di una trentina di poliziotti, al comando del commissario Caffari, ci sbarrò la strada sparandoci addosso senza pietà. Tentammo di costruire una barricata con quanto ci capitava sotto mano, sedie, tavolini, assi, mentre i mitra dei poliziotti continuavano a crepitare come in una battaglia. Sparavano dalle finestre della Posta e della Banca d’Italia, e ho visto distintamente il commissario Caffari indicare ai poliziotti dove dovevano mirare. Vicino a me un giovane s’è accasciato esanime, falciato da una raffica al petto. Altri – ed io tra essi – sono rimasti feriti».
Sul selciato della piazza caddero oltre a Tondelli, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri e Emilio Reverberi.
Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola e una guardia di PS dichiarò di aver perduto 7 colpi di pistola.
Sedici furono i feriti “ufficiali”, ovvero quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita, ma molti preferirono curarsi “clandestinamente”, allo scopo di non farsi identificare.
Qualcuno definì questi gravissimi fatti i “moti del luglio 1960”: il sacrificio dei cittadini democratici che vi persero la vita, o che vi rimasero feriti, contribuì in maniera decisiva a far fallire un tentativo d’involuzione autoritaria che avrebbe mutato profondamente la storia del nostro Paese. 

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