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giovedì 16 gennaio 2020

Medicalizzazione

L'influenza sempre più pervasiva della medicina si è tradotta in un processo ancora più subdolo e insidioso di quanto non fosse avvenuto per la religione o per la legge. Recentemente la medicina ha dispiegato appieno le proprie potenzialità e si può parlare di un vero e proprio processo di medicalizzazione: il fenomeno in virtù del quale la  professione medica rivendica la propria esclusiva competenza su ciò che viene definito malattia e su qualsiasi fattore causale da cui questo può dipendere, a prescindere dalla propria capacità di affrontarlo in modo efficace.
Questo processo di espansione delle competenze della medicina, rispetto agli ipotetici fattori causali della malattia, può assumere diverse forme concrete: ad esempio nel campo della prevenzione l'intrusione nella vita del paziente si fa sempre più accentuata giacché l'idea stessa della prevenzione primaria richiede di intervenire prima che inizi la malattia, il medico deve mettersi attivamente in gioco per  convincere i potenziali pazienti che si deve fare qualcosa: i risultati conseguiti recentemente nel campo della genetica avallano ulteriormente questa prospettiva.
Il più radicale processo di medicalizzazione della società in cui sono maggiori le ripercussioni sociali della medicina è appunto quello della genetica. In questo ambito è facile prevedere che qualsiasi società che si trova ad affrontare una tasso di natalità in declino non potrà che preoccuparsi maggiormente della qualità delle vite che verranno essere prodotte e benché l'intero processo inizi inevitabilmente da un atto di esclusione per cui scegliamo di non avere dei figli con certi difetti genetici, il passaggio successivo sarà la selezione di certe caratteristiche ritenute degne di essere privilegiate e la protezione dell'individuo e della società rispetto a determinate caratteristiche considerate negative.
Vale la pena di riflettere su questo aspetto: il processo di etichettamento di un problema sociale in termini di malattia determina un drastico squilibrio di potere. Se si accetta che un determinato comportamento equivale ad una malattia, e che una malattia è uno stato di per sé indesiderabile, la questione non è più se affrontare il problema, ma come e quando affrontarlo.
Il dibattito sui temi del come l'omosessualità, la droga, l'aborto, i bambini iperattivi, i comportamenti antisociali finiscono così per concentrarsi sul grado di malattia insito nel fenomeno in questione o chi ne è portatore o per dirla diversamente sull'entità del rischio per la salute che ne deriva per la società.
Viene del tutto estromesso in tal modo la questione di principio di innegabile valenza morale: di quale libertà dovrebbe disporre un individuo rispetto al proprio corpo? E che cos'è che andrebbe curato aldilà dell'individuo in questione?
La pratica sanitaria è il nuovo campo di battaglia non perché presenti minacce o pressioni visibili, ma perché questi ultimi sono quasi nemici invisibili, non perché gli orientamenti gli strumenti della medicina e le persone siano di per sé malvagi, ma proprio perché non lo sono. E questo è ancora più terrificante. La banalità del male...
Nel caso che ci interessa il pericolo è ancora più grande poiché non solo questi processi si mascherano di una veste tecnica, scientifica, obiettiva, ma pretendono anche di servire al nostro bene.

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