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giovedì 23 gennaio 2020

Una dichiarazione di guerra aperta contro la gioia

il sociologo tedesco Werner Sombart, a partire dai primi anni del ’900, cominciò a descrivere la moderna società industriale come l’espressione della «potenza del diavolo», cioè di una potenza che affascinava gli esseri umani grazie alla sua capacità di celare ai loro occhi il destino che stava disegnando per loro: un destino angosciante a causa dell’affermazione dell’individualismo e dell’esasperazione di tutti i «bassi istinti che sonnecchiano nell’uomo» (avidità, desiderio di profitto e interesse personale), che avevano provocato la scomparsa di ogni forma di solidarietà umana; a causa del predominio di una razionalità puramente economica e strumentale; della diffusione del benessere e quindi della trasformazione del superfluo in necessario; dell’urbanizzazione e della scomparsa di quelle piccole comunità che avevano sino ad allora fatto sentire gli esseri umani parte di un tutto, che avevano dato senso alla loro esistenza. 
Queste convinzioni erano diffuse in vasti settori del mondo culturale e politico; era infatti opinione comune che l’essere umano, esposto all’eccesso di stimoli, alle continue innovazioni di cui si alimentava la logica commerciale propria della società di massa e alle infinite tentazioni prodotte dalla diffusione del benessere, dovesse inevitabilmente cadere vittima di un profondo senso di smarrimento, dovesse perdere la sua capacità di autocontrollo, perché sopraffatto dalla capacità di dominio esercitato dagli oggetti sugli esseri viventi. 
La società di massa veniva perciò spesso descritta come una vera e propria fabbrica di «invalidi della civilizzazione», cioè di persone svuotate della loro personalità, di «decadenti», di «inetti», di blasé, cioè di individui scettici, annoiati, indifferenti a tutto, di «uomini senza qualità». E, accanto a loro, anche di malati di mente, di criminali e di degenerati di ogni tipo, perché la corsa ai godimenti incoraggiata dalla crescita del benessere, che mirava a soddisfare bisogni fittizi, spingeva l’individuo ad una frenetica attività che consumava irreversibilmente il suo fisico e la sua mente. In effetti, non pochi osservatori erano convinti che ci fosse un rapporto diretto tra il livello di sviluppo economico e sociale di un paese e il deperimento fisico e mentale della sua popolazione.
Il successo che il genere fantascientifico, come sarebbe stato definito alcuni decenni più tardi, conobbe proprio in quei decenni grazie ad autori come Jules Verne e Herbert G. Wells, esprimeva bene la faccia oscura delle nuove scoperte scientifiche e i rischi a cui esse esponevano gli esseri umani a causa della difficoltà di controllare le forze che essi stessi avevano messo in moto. 
Una dichiarazione di guerra aperta contro la gioia, un tentativo perverso di togliere ogni incanto alla vita, di dimostrare che «nulla, assolutamente nulla è speciale, unico, meraviglioso» e che tutto poteva essere ricondotto a una routine meccanizzata.
Il risultato paradossale di tutto ciò, è che prima l’uomo ha creato la macchina e poi l’ha assunta come modello ideale da imitare.

1 commento:

  1. Le macchine sono già dentro la vita di moltissima gente. Hanno sostituito la presenza umana. Come Alexa, che ormai tutti usano. Io aborrisco queste cose perchè non so può sostituire l'essere umano con una presenza tecnologica. Ma molta gente si dichiara ben felice di usare queste macchine e non si accorge dello schiavismo mentale che provocano.

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