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giovedì 24 giugno 2021

Proudhon sulla proprietà

 

Se dovessi rispondere alla seguente domanda: Che cos’è la schiavitù? e rispondessi con una sola parola: E’ un assassinio, il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno d’un lungo discorso per dimostrare che il potere di privare l’uomo del pensiero, della volontà, della personalità, è un potere di vita e di morte, e che rendere schiavo un uomo significa assassinarlo. Perché dunque a quest’altra domanda: Che cos’è la proprietà? non posso rispondere allo stesso modo: E’ un furto senza avere la certezza di non essere compreso, benché questa seconda proposizione non sia che una trasformazione della prima? Io mi accingo a mettere in discussione il principio stesso del nostro governo e delle nostre istituzioni, la proprietà”. Quella che Proudhon vuole cancellare infatti, non è la proprietà intesa in senso assoluto, bensì la proprietà privata dei soli mezzi di produzione (in particolare la proprietà terriera, come abbiamo già accennato nelle scorse pagine): la proprietà che concerne il frutto del proprio lavoro invece, viene considerata dal pensatore francese come inviolabile. “Il diritto al prodotto è esclusivo, ius in re; il diritto allo strumento è comune, ius ad rem”1. Secondo Proudhon, in sostanza, bisogna abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione per far sì che tutti, e non più solamente una ristretta cerchia di persone, abbiano a disposizione gli stessi mezzi per poter poi raggiungere fini determinati individualmente. Non a caso, in scritti successivi, egli non ha esitato ad affermare che la proprietà (intesa in questo caso come ius in re) è la libertà: poter disporre di quanto si produce, consumandolo o scambiandolo sul mercato, è infatti una fondamentale garanzia per far sì che si attui la libera scelta individuale. La proprietà privata è quindi da considerarsi un furto: tale furto consiste nel fatto che il singolo si appropria di un bene comune, sottraendolo definitivamente a tutti gli altri uomini. Questo dimostra anche che la critica rivolta a Proudhon da Stirner e Marx, secondo la quale dire che “la proprietà è un furto” è contraddittorio perché l’idea di furto presuppone comunque la proprietà, non regge: e non regge perché Stirner e Marx così dimostrano di non aver capito che per Proudhon in realtà non tutta la proprietà è un furto, bensì lo è la sola proprietà privata dei mezzi di produzione (della terra in particolare)… e questa proprietà privata è un furto ai danni di un’altra proprietà che Proudhon certo non nega: la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, a cui tutti hanno un eguale diritto di accesso.


WHITE ELEPHANT – Nick Cave e Warren Ellis

Il cacciatore bianco siede sulla sua veranda

Con il suo fucile da elefante e le sue lacrime

Ti sparerà gratis

Se vieni qui intorno

Un manifestante si inginocchia al collo di una statua

La statua dice, non riesco a respirare

Il manifestante dice, ora sai come ci si sente

E la calcia in mare

Sono una Venere di Botticelli con un pene

Che cavalca un enorme ventaglio smerlato

Sono una donna di schiuma di mare che emerge dagli spruzzi

Sto venendo a farti del male

Con la pistola nei pantaloni piena di lacrime di elefante

E un cavalluccio marino su ogni braccio

Con la mia pistola elefante di lacrime

Vi sparerò tutti gratis

Se solo pensate di venire qui intorno

Vi sparo in faccia, cazzo

Se pensate di venire qui

Sono una scultura di ghiaccio che si scioglie al sole

Sono una scultura di ghiaccio con una pistola a forma di elefante

Sono una scultura di ghiaccio fatta di lacrime grandi come elefanti

Faccio piovere gas e sale sulle vostre teste

Il presidente ha chiamato i federali

L'ho pianificato da anni

Vi sparo in faccia, cazzo

Se pensate di venire qui

Vi sparo solo per divertimento

Sono una statua sdraiata sul fianco, al sole

Con la memoria di un elefante

Evaporo davanti ai tuoi occhi

Divento una grande nuvola grigia d'ira

Ruggendo il mio sale sulla terra

Vi sparo per niente, gente

Se solo mi guardate

Un tempo sta arrivando

Un tempo è vicino

Per il regno

Dei cieli

Non chiedere chi

Non chiedere perché

C'è un regno dei cieli

Stiamo tutti tornando a casa

Per un po' di tempo

Un tempo sta arrivando

Un tempo è vicino

Per il regno dei cieli

Stiamo tutti tornando a casa

Per un po' di tempo

Un tempo sta arrivando

Un tempo è vicino

Per il regno dei cieli

Stiamo tutti tornando a casa

Tra un po'




Le parole come strumenti di controllo

Le lingue sono oggetto di una specie di mistica da chi le vuole pure e codificate una volta per tutte. Chi vuole codificare una lingua vuole dominare, vuole controllare, sia esso uno Stato o una   comunità di specialisti. «Le parole restano i principali strumenti di controllo, le suggestioni sono parole, le persuasioni sono parole, gli ordini sono parole», ci ricorda William Burroughs. Le lingue non vanno codificate, devono  servire a comunicare. Se non ci fossero le codificazioni statali soprattutto nelle zone di compresenza di idiomi e culture, le lingue muterebbero molto più velocemente e permetterebbero di comunicare. L'ideale sarebbe che si modificassero partendo dal desiderio e non dal colonialismo, ma non si deve temere l'omologazione, questo concetto regressivo lasciamolo alla destra. Le comunità e le individualità umane hanno una tendenza a diversificarsi, non è un caso che dal latino siano nati molteplici idiomi, non è un caso che dall'inglese stiano nascendo altre lingue. E possibile il mescolamento ed è possibile la poliglossia, non dobbiamo attribuire alla lingua più  importanza di quello che ha, non dobbiamo aver paura del caos e del caso. L'importante è la libertà e l'uguaglianza. Quando qualcuno riuscirà a determinare il caos e il caso, allora si non avremo più possibilità di liberazione. 

 

giovedì 17 giugno 2021

Pierre–Joseph Proudhon giovane autoritratto

Io non ho nulla da dire sulla mia vita privata: essa non riguarda gli altri. Mi sono sempre piaciute poco le autobiografie e non mi interesso agli affari di nessuno. La stessa storia e il romanzo non hanno interesse per me se non per il fatto che vi ritrovo, come nella nostra immortale Rivoluzione, le avventure dell'idea. Io sono nato a  Besancon il 15 gennaio 1890 da Claude-Francois Proudhon, bottaio, birraio, nativo di Chasnans, vicino a Pontarlier, nel dipartimento del Doubs e da Catherine Simonin de Cordiron, parrocchia di Burgille-les-Marnay, nello stesso dipartimento. I miei avi, da parte di padre e di madre, furono tutti lavoratori  indipendenti, esenti da corvée e da manomorta fin da tempi immemorabili. Fin ai dodici anni la mia vita è trascorsa quasi sempre nei campi, impiegata ora in piccoli lavori rustici, ora a custodire le vacche. Sono stato per cinque anni un bovaro. Non conosco un tipo di esistenza ad un tempo più contemplativa e realista, più opposta a quell'assurdo spiritualismo che sta al fondo dell'educazione e della vita cristiana, di quella dell'uomo dei campi. Che gioia rotolarmi nelle alte erbe che avrei voluto brucare come le mie mucche;  correre a piedi nudi sui sentieri pianeggianti lungo le siepi; inoltrare i miei passi guardando (durante l'aratura) le verdi spighe del mais nella terra profonda e fresca! Più di una volta nelle calde mattine di  giugno, mi è capitato di spogliarmi degli abiti per prendere sul tappeto erboso un bagno di rugiada. A stento potevo allora distinguere l'Io dal Non Io. L'Io era tutto quello che potevo toccare con la mano, raggiungere con lo sguardo e che mi era utile in qualche cosa; il Non Io era tutto quello che poteva nuocermi o resistermi. Tutto il giorno mi riempivo di more, di raperonzoli, di barbe di becco, di pisellini verdi, di semi di papavero, di pannocchie abbrustolite, di bacche di ogni specie: susine selvatiche, sorbe, visciole, rose di macchia, lambruschi, frutti selvatici. Mi ingozzavo di una quantità di cibi crudi tale da far crepare un  piccolo borghese allevato signorilmente, e che non produceva altro effetto sul mio stomaco che quello di procurarmi la sera un formidabile appetito. L'alma natura non fa del male a coloro che le appartengono. Quali acquazzoni ho asciugato! Quante volte, bagnato fino alle midolla, ho fatto asciugare i miei abiti  sul mio  corpo, al vento o al sole. Quanti bagni ho fatto a tutte le ore d'estate nel fiume, d'inverno nelle sorgenti. Mi arrampicavo sugli alberi, mi cacciavo nelle caverne; agguantavo le rane in corsa: i gamberi nei loro buchi col rischio di incontrare una pericolosa salamandra; poi, senza attendere troppo, facevo arrostire la mia cacciagione sul fuoco. Vi sono nell'uomo, nella bestia e in tutto ciò che esiste delle  simpatie e degli odi segreti che la civiltà ci impedisce di cogliere. Io ero affezionato alle mie mucche, ma con un affetto incostante avevo una  predilezione per una gallina, per un  albero, per una roccia. Mi era stato  detto che la lucertola è un'amica dell'uomo,  e io lo credevo veramente. In compenso ho fatto sempre un'aspra guerra ai serpenti, ai rospi, ai bruchi. Che cosa mi avevano fatto? Nessun danno. Io non so, ma  l'esperienza degli uomini me li ha resi sempre di più detestabili.


HO CONTATO I MIEI ANNI – Mario de Andrade

“ Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da ora in avanti, rispetto a quanto ho vissuto finora…

Mi sento come quel bimbo cui regalano un pacchetto di dolci: i primi li mangia con piacere, ma quando si accorge che gliene rimangono pochi, comincia a gustarli intensamente.

Non ho più tempo per riunioni interminabili, in cui si discutono statuti, leggi, procedimenti e regolamenti interni, sapendo che alla fine non si concluderà nulla.

Non ho più tempo per sopportare persone assurde che, oltre che per l’età anagrafica, non sono cresciute per nessun altro aspetto.

Non ho più tempo, da perdere per sciocchezze.

Non voglio partecipare a riunioni in cui sfilano solo “Ego” gonfiati.

Ora non sopporto i manipolatori, gli arrivisti, né gli approfittatori.

Mi disturbano gli invidiosi, che cercano di discreditare i più capaci, per appropriarsi del loro talento e dei loro risultati.

Detesto, se ne sono testimone, gli effetti che genera la lotta per un incarico importante.

Le persone non discutono sui contenuti, ma solo sui títoli…

Ho poco tempo per discutere di beni materiali o posizioni sociali.

Amo l’essenziale, perché la mia anima ora ha fretta…

Non ho più molti dolci nel pacchetto…

Adesso, così solo, voglio vivere tra gli esseri umani, molto sensibili.

Gente che sappia amare e burlarsi dell’ingenuo e dei suoi errori.

Gente molto sicura di se stessa , che non si vanti dei suoi lussi e delle sue ricchezze.

Gente che non si consideri eletta anzitempo.

Gente che non sfugga alle sue responsabilità.

Gente molto sincera che difenda la dignità umana.

Con gente che desideri solo vivere con onestà e rettitudine.

Perché solo l’essenziale é ciò che fa sì che la vita valga la pena viverla.

Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle altre persone …

Gente cui i duri colpi della vita, abbiano insegnato a crescere con dolci carezze nell’anima.

Sí… ho fretta… per vivere con l’intensità che niente più che la maturità ci può dare.

Non intendo sprecare neanche un solo dolce di quelli che ora mi restano nel pacchetto.

Sono sicuro che saranno squisiti, molto di più di quelli che ho mangiato finora.

Il mio obiettivo, alla fine, é andar via soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza.

Spero che anche il tuo lo sia, perché in un modo o nell’altro ci arriverai”



Azione diretta e rappresentanza collettiva

 

Affinché la critica anti-industriale possa riempire di contenuti le lotte sociali, deve nascere una cultura politica radicalmente diversa da quella che predomina oggi. Questo vuol dire iniziare a ricostruire tra gli oppressi, al di fuori della politica ma all'interno del conflitto stesso, una comunità di interessi opposti a questo sviluppo tecnologico infinito del capitale. Per questo motivo, la molteplicità degli interessi locali deve condensarsi e rafforzarsi in un interesse generale, al fine di concretizzarsi in obiettivi precisi ed in alternative reali attraverso un dibattito pubblico. Una comunità siffatta deve essere egualitaria e guidata dalla volontà di vivere in un altro modo. La politica anti-industriale si fonda sul principio dell'azione diretta e della rappresentanza collettiva, motivo per cui non deve riprodurre la separazione tra dirigenti e diretti che configura la società esistente. In questo ritorno al pubblico, l'economia deve ritornare alla domus, rivendicare quel che è stata, un'attività domestica. Da un lato la comunità deve garantirsi contro qualsiasi potere separato, organizzandosi in maniera orizzontale attraverso strutture assembleari e controllando nel modo più diretto possibile i suoi delegati e rappresentanti, in modo che non si ricostituiscano gerarchie formali o informali. Dall'altro, deve interrompere la sottomissione alla razionalità mercantile e tecnologica. Non potrà mai controllare le condizioni della propria riproduzione inalterata se agisce altrimenti, ovvero se crede al mercato e alla tecnologia, se riconosce la seppur minima legittimità alle istituzioni del potere dominante o se adotta i suoi modi di funzionamento.


giovedì 10 giugno 2021

L’UNICO E LA SUA PROPRIETÀ – Max Stirner

L’unico e la sua proprietà è un testo che affonda le sue radici nel clima culturale della filosofia hegeliana. In particolare si può dire che esso rappresenti l’espressione forse più radicale delle istanze anti-universalistiche e anti-idealistiche di tutta la Sinistra hegeliana, tanto che la sua critica è rivolta non solo alla filosofia di Hegel, ma si estende addirittura a quella degli stessi esponenti della Sinistra hegeliana cui egli in qualche modo apparteneva. Secondo Stirner infatti il nuovo sapere antropologico di Feuerbach, così come anche il pensiero socialista e liberalista, non sono altro che nuove religioni, nuovi idealismi, con la sola differenza formale per cui al posto di Dio si ha ora l’Umanità, piuttosto che la Società o la Razionalità, vale a dire sempre degli ideali, delle divinità, per dirla con Stirner, che in quanto tali si pongono al di sopra della realtà di ogni singolo individuo e che dunque – e questo è il punto che interessa a Stirner – configurano una condizione di dipendenza da parte degli individui rispetto a tali esseri superiori. Si tratterebbe quindi di una nuova forma di alienazione, in quanto ogni ideale, religioso o meno, si contrappone inevitabilmente a un reale concreto, determinando una situazione di tensione tra quello che è l’individuo reale in carne e ossa e una sua presunta essenza superiore, cioè quell’ideale verso il quale sente di doversi conformare e che per forza di cose lo mantiene in una condizione di inadeguatezza, dato che nessun ideale, per definizione, è realizzabile. Ecco che nel denunciare questa nuova forma di alienazione, in realtà Stirner denuncia un intero paradigma esistenziale, che è sì il paradigma idealista, ma che allo stesso tempo è però un paradigma di natura gerarchica, che esprime cioè un ordine di dipendenza per il quale i singoli individui si vedono costretti a sacrificare se stessi e tutta la loro vita a un interesse ritenuto superiore. Che questo interesse sia poi un vero e proprio Dio, piuttosto che la Nazione, la Società o persino l’Umanità nel suo insieme, non cambia nulla: il rapporto di dipendenza infatti resta immutato. Di qui, per Stirner, l’esigenza di quella che egli chiama rivolta, cosa ben diversa dalla rivoluzione: se la rivoluzione infatti si può definire come la semplice sostituzione di un determinato ordine con un altro ordine (ad esempio, rispetto all’ordine statale, il passaggio da una monarchia a una repubblica), la rivolta si configura invece come la negazione di ogni ordine, poiché consiste nella negazione radicale di qualsivoglia ideale, di qualsivoglia valore dalle pretese universali. L’unico valore che viene riconosciuto e salvaguardato è quello che fa riferimento non a qualche ideale astratto ma all’individuo in carne e ossa nella sua incommensurabile unicità, cioè nel suo essere assoluto nel vero senso del termine. Ecco allora che la rivolta invita non solo a negare tutto quanto possa porsi al di sopra degli individui, ma soprattutto, nella sua accezione positiva, invita ogni singolo individuo a prendere coscienza della propria unicità e quindi ad assumersi anche le responsabilità che tale consapevolezza comporta. E in questo consiste la nuova concezione di vita proposta da Stirner, in una concezione che egli stesso definisce di tipo egoistico e che si contrappone a quella di tipo idealistico.


Ma come si può uccidere un bambino? – Narciso Ibáñez Serrador

Evelyn e Francis sono una coppia inglese che aspetta un bambino infatti lei è al settimo mese di gravidanza. Durante le loro vacanze nel Mediterraneo, decidono di andare sull’isola di Almanzora  situata a largo della costa spagnola. Giunti sull`isola trovano ad attenderli sulla banchina un gruppo di bambini. I due si inoltrano nel villaggio ma stranamente non vedono nessun adulto, si fermano in un punto di ristoro ma anche lì non c’è segno di nessuno. A questo punto Francis ed Evelyn si dirigono all`albergo dove non ci sono tracce di adulti. La coppia sempre più perplessa resta sbalordita quando sorprendono una ragazzina che, armata di bastone e ridendo, colpisce a morte un anziano del villaggio; preoccupati e spaventati i due si rintanano nell`albergo cercando di capire cosa sta succedendo. Qui incontrano un uomo che spiega loro come i bambini in preda ad un raptus collettivo abbiano assalito, torturato e ucciso tutti gli adulti del villaggio. Ben presto anche l`ultimo superstite cade sotto i colpi dei bambini attirato in un tranello dalla figlioletta; per la coppia resta poco da fare, decidono di tornare immediatamente alla barca per fuggire. Giunti al porticciolo trovano i ragazzini piccoli e grandi che ostacolano la loro fuga, i due riescono a scappare di nuovo rifugiandosi nella prigione dell’isola e procurandosi anche un fucile. I ragazzi li raggiungono, cercando di catturarli, Francis si fa forza e spara uccidendone uno. Francis attiva il segnale di allarme radio dalla centrale sperando nell`arrivo dei soccorsi. Il giorno dopo accade qualcosa di terribile: Evelyn viene uccisa dal suo stesso bambino che ha nel suo grembo, al quale una bambina ha trasmesso telepaticamente il suo messaggio di morte. Preso dalla rabbia, Francis esce dalla prigione ed uccide alcuni dei ragazzi che si interpongono tra lui e l`imbarcazione, l`uomo sta per colpire una ragazzina ma viene ucciso da un agente di polizia arrivato con la nave dei soccorsi. I poliziotti scesi dalla nave non fanno in tempo a capire cosa sia accaduto che cadono sotto i colpi dei bambini. Il film si conclude con un gruppo di ragazzi che abbandona l`isola con la nave delle forze dell`ordine per raggiungere il continente e continuare la strage degli adulti.

Come si può uccidere un bambino? In vario modo: sparandogli addosso una raffica di mitra, a colpi di bastone, o facendolo morire di fame. Nemmeno in questo caso agli adulti è mancata la fantasia: che le vittime fossero indifese e innocenti non è mai sembrata una buona ragione per evitare guerre e massacri. . Il regista impegna i primi 10 minuti del film offrendo immagini reali di bambini innocenti morti nei diversi conflitti che hanno interessato il ’900. Lo sterminio nei campi di concentramento nazisti, il conflitto indo-pakistano, la guerra di Corea, il Vietnam, i genocidi in Africa, le carestie: migliaia di bambini morti, prime vittime innocenti della follia adulta. Le immagini crude, reali, sono accompagnate da un canto di bambini come un canto accompagnava alla morte nelle camere a gas migliaia di piccoli. Lo spettatore resta disorientato a mano a mano che la trama si scioglie e la storia diventa sempre più inquietante; alla fine resta il disagio, il tentativo di riflettere su quanto è stato narrato e su quanto accade tutti i giorni, sulle carneficine a cui ormai assistiamo senza reagire. Facciamo quindi il caso che i bambini si ribellino. Accadrà che le parti s’invertano: alla follia distruttrice dei grandi subentrerà quella dei piccoli, tanto più feroce quanto meno gli adulti avranno il coraggio di alzare le mani sui ragazzi.

Il regista racconta una verità tanto semplice quanto agghiacciante sull’universo del male umano che genera sé stesso, mostrando degli adulti che, di fronte agli occhi pseudo innocenti di splendidi figli assassini, non riescono ad essere sufficientemente spietati da ucciderli per salvarsi la vita. In fondo questi adulti comprendono la propria ipocrisia e sanno che quei piccoli mostri che hanno davanti sono una loro creazione. Impossibile sottrarsi alla responsabilità.



Siamo diventati dei disabili

In questo modo stiamo man mano perdendo l’utilizzo di funzioni vitali. Forse non ce ne rendiamo conto, ma nel mondo civilizzato abbiamo perso l’uso dei piedi. Se ci togliamo le scarpe non siamo più in grado di muoverci … Forse non ce ne rendiamo conto, ma nel mondo civilizzato non siamo più in grado di provvedere autonomamente alla nostra sussistenza: non riusciamo più a riconoscere una pozza d’acqua potabile da una inquinata; non riusciamo più a distinguere un fungo velenoso da uno commestibile; non siamo più in grado di proteggerci dal freddo, di difenderci da soli, di riconoscere bacche, radici e altri vegetali indispensabili al nostro nutrimento … Siamo insomma diventati dei disabili. Nel mondo civilizzato siamo come dei polli in batteria: se si interrompe il flusso di mangime lo scenario è il collasso. E tanto più diventeremo dipendenti dal flusso di mangime, quanto più saremo costretti ad accettare le decisioni, le regole, gli abusi e le restrizioni di chi controlla e gestisce questo flusso. In altre parole tanto più diventeremo dipendenti dai ritrovati della tecnologia, dai diktat dell’economia, dalle astrazioni simboliche della cultura, dai processi controllati dalla Paura politica e dai principi strangolanti del Dominio, quanto più ci allontaneremo dalla capacità anche solo di immaginarlo un mondo diverso …  A forza di artificializzarci silenziosamente, di separarci con leggerezza dalla vita vissuta, di recitare la parte dei polli in batteria subordinando la realtà reale a quella virtuale, arriveremo a perdere anche solo la capacità di immaginarlo un mondo naturale nel quale tornare a vivere.


giovedì 3 giugno 2021

L'esclusione degli anarchici al Congresso di Londra 1896

All'ordine del giorno del congresso di Londra erano numerose questioni: ma ancora una volta la parte maggiore della  discussione fu assorbita  dal conflitto fra socialisti e anarchici. La risoluzione di Zurigo sull'azione politica fu impugnata  dagli anarchici e dopo una lunga discussione di nuovo approvata a larga maggioranza. Fu approvata anche la risoluzione qui riprodotta, proposta dall'inglese Lansbury, che conteneva una definizione ancora più restrittiva, e fu deciso di porre fine una volta per tutte alla controversia che ormai da anni rischiava di paralizzare i dibattiti dei congressi internazionali con la sanzione formale dell'esclusione degli anarchici. La formulazione dell'invito al futuro congresso fu proposta dal socialdemocratico tedesco Liebknecht in modo che non sussistessero dubbi, e approvata con il solo voto contrario dei sindacalisti rivoluzionari francesi. («Critica Sociale», 1896, pp. 243, 378.) 

1) Per azione politica il  Congresso intende la  lotta organizzata, sotto qualsiasi forma, per la conquista del  potere politico e la partecipazione della classe lavoratrice ai corpi legislativi ed amministrativi dello Stato  e del Comune per giovarsene allo scopo della propria emancipazione. 

2) Il congresso dichiara che la conquista del potere politico è, pei lavoratori, il mezzo più potente di arrivare alla loro emancipazione come uomini e come cittadini e di istituire la repubblica socialista internazionale. Esso invita i lavoratori di tutti i paesi ad unirsi in partito indipendente da tutti i partiti borghesi e rivendicare: 

a) il suffragio universale ed  uguale per tutti gli adulti; 

b) lo scrutinio di ballottaggio; 

c) il diritto di iniziativa e il referendum, nel Comune e nello Stato. 

Sul Congresso  futuro L'Ufficio di presidenza ha mandato di edigere l'invito al Congresso futuro, facendo  appello esclusivamente: 

1)  Ai rappresentanti dei gruppi che mirano alla sostituzione della proprietà e della produzione socialista alla proprietà e produzione capitalistica, e che  stimano l'azione legislativa e  parlamentare mezzo necessario allo  scopo; 

2) A tutte le organizzazioni operaie che, sebbene come tali non partecipino alla lotta politica, riconoscono  la  necessità dell'azione politica e  parlamentare. Per conseguenza sono esclusi gli anarchici.


La Geografia è la Storia nello Spazio, come la Storia è la Geografia nel tempo

Uno dei capisaldi del pensiero anarchico “classico” è dato dalla teorizzazione del carattere benefico della natura e della sua alterità rispetto alla storia. Mentre questa, a seguito delle lotte feroci condotte dagli uomini per avere il potere, presenta un’immagine di disordine e di cattiveria, la natura rivela invece, se giustamente interrogata, un’intrinseca armonia ed equilibro. La società anarchica è la società che sostituisce le leggi storiche e artificiali del potere con quelle spontanee della socievolezza naturale. La natura, ovviamente, non è sempre benefica nella sua immediatezza e non è sempre mite in molte sue manifestazioni esteriori; può però essere fonte di giustizia e di libertà, se si instaura correttamente con essa un rapporto capace di cogliere l’intima razionalità che pervade la necessità del tutto. La premessa epistemologica reclusiana si fonda sull’idea di un nesso indissolubile che lega l’uomo all’ambiente, e dunque alla Terra. Vi è un rapporto simbiotico tra l’uno e l’altra perché l’Uomo ha le sue leggi come la Terra, leggi alle quali non può sottrarsi, anche se, ovviamente, ciò non implica che egli ne sia prigioniero. Senza cadere in alcuna forma di determinismo, l’uomo deve essere consapevole dei rapporti necessitanti che lo legano al tutto perché è solo grazie a tale consapevolezza che egli si emancipa dai lacci naturali. La geo-storia reclusiana, intenta soprattutto all’analisi delle strutture geografiche rinvenibili nei grandi spazi e nel rapporto fra evoluzione sociale e resistenze della struttura, vuole esaminare al rallentatore l’azione dell’uomo, al fine di cogliere la verità profonda della sua azione sul globo terraqueo, in quanto solo i grandi movimenti e le grandi strutture rivelano il senso generale della vita dei popoli e delle civiltà. Ciò non toglie, ovviamente, che in Reclus rimanga sempre centrale anche l’idea dei salti di qualità del processo evolutivo, salti che avvengono sia nella storia naturale, sia nella storia umana. A suo giudizio alle lunghe e lente sequenze dell’evoluzione seguono i brevi e intensi periodi delle rivoluzioni. Il rapporto tra evoluzione e rivoluzione è un rapporto necessitante, nel senso che l’una è il complemento dell’altra. L’evoluzione prepara la rivoluzione, questa, a sua volta, spiana la strada ad una successiva evoluzione, attraverso una catena che non ha fine. L’infinita interazione fra spazio e tempo, l’individuazione della processualità storica e di rotture, e dunque il riconoscimento dell’impossibilità di un’esistenza strutturalmente gerarchica della realtà a cui il mondo dovrebbe conformarsi, spingono Reclus al rifiuto di ogni epistemologia altrettanto gerarchica e unidimensionale. L’indagine reclusiana si situa nel più classico ambito metodologico anarchico secondo cui non esiste una direzionalità univoca degli elementi della realtà, ma, appunto, un insieme assai vasto e complesso di cause interagenti fra loro in una dialettica senza fine tra natura e storia, tra natura e cultura. L’analisi dell’interazione fra spazio e tempo porta Reclus alla formulazione di una geografia globale che vuole essere un sapere volto alla delineazione di una geograficità e di una geopoliticità. I termini ideologicamente anarchici del relativismo e del pluralismo si traducono perciò nei cardini metodologici di un’indagine a tutto campo. Questa sviluppa una scienza fisico-sociale che, tenendo conto  dell’interazione fra spazio e tempo, fra realtà naturale ed evoluzione umana, fra determinismo geografico e relativismo storico, conclude che nei suoi rapporti con l’Uomo, la Geografia non è altro che la Storia nello Spazio, così come la Storia è la Geografia nel tempo. Sulla base di tale prospettiva, Reclus approda ad una sorta di interpretazione articolata di tutta l’evoluzione umana e naturale. Si devono, a suo giudizio, attivare tre fondamentali direttrici di ricerca: delineare la divisione fra le classi, individuare la spontanea tendenza a ricomporre l’equilibrio sociale spezzato da questa divisione, decifrare il contributo dello sforzo individuale nell’evoluzione collettiva. Abbiamo così, in sintesi, un compendio dell’epistemologia anarchica. Posto infatti, come abbiamo visto, il rifiuto di ogni interpretazione fondata su monocause, siano esse economiche, politiche, geografiche, etniche o culturali, egli pone sullo stesso piano analitico e valoriale la lotta sociale, il valore individuale, la spontaneità storico-naturale di una ricerca oggettiva verso l’equità e l’uguaglianza. Insomma, la storia è il risultato contemporaneo di più fattori, riassumibili nell’emancipazione collettiva, nell’azione del singolo, nella naturale tendenza verso la giustizia.


La PAURA del cambiamento

La caduta dell'impero della merce non produrrà niente di più lamentevole della caduta nella disumanità che segna i suoi esordi. Ciò che è alla fine è anche all'inizio. Una rovina ne nasconde un'altra: dietro il crollo del capitalismo monopolistico e di Stato viene meno l'intera civiltà mercantile, secondo un naufragio programmato da lunga data. La fine dell'impero dell'economico non è la fine del mondo, ma la fine del suo dominio totalitario sul mondo. Tutti sanno, tuttavia, che una tirannia defunta continua ad uccidere. Non la gioia di vivere nè l'esuberanza creativa, bensì la paura è la risposta all'evidenza di una mutazione benefica. Una paura così intensa che l'economia moribonda vi scova ancora di che rifornire un mercato, il mercato dell'insicurezza, in cui il consumatore, ricondotto alla sua vera natura di minorato e di vegliardo, medica una muscolosa protezione per percorrere freneticamente i circuiti obbligati dell'edonismo consumabile. Per la maggior parte delle persone esiste un solo terrore da cui tutti gli altri provengono, ed è quello di perdere l'ultima menzogna che li separa da se stessi, di dover creare la propria vita.