Berlino, 27 febbraio 1933, il Reichstag brucia nella notte illuminando la città. Nelle nere volute di fumo i berlinesi vedono proiettarsi cupi presagi: la caduta della moribonda repubblica di Weimar o, come i nazionalsocialisti e le classi borghesi, il segnale per la rivoluzione armata comunista tanto temuta. In realtà non si produce nulla di questo: i nazisti controllano di fatto già l’apparato statale e i gangli vitali della società e, pur sapendone in seguito sfruttare le opportunità che quest’attentato porge loro, non pare abbiano un interesse diretto ad organizzare un colpo così eclatante. D’altro canto tale atto incendiario non è lo squillo della rivoluzione semmai è la campana a morto per il partito comunista tedesco (KPD) incapace di rispondere colpo su colpo alla violenza delle squadre d’assalto naziste malgrado la sua ferrea organizzazione. L’autore del gesto viene quasi subito arrestato, è l’olandese Marinus van der Lubbe, nato a Leyda nel 1909. Già a quattordici anni inizia la sua militanza comunista, malgrado sia un invalido del lavoro dal 1927, il suo attivismo non conosce sosta: membro della Lega della gioventù comunista della sua città partecipa con articoli e comizi agli scioperi che agitano i Paesi Bassi sino alla rottura con il partito nel 1929 ed il suo avvicinarsi a posizioni comuniste consiliariste. Nel 1932 viene incarcerato per qualche mese per aver infranto le vetrine di un Ufficio di aiuto per i disoccupati e proprio in quell’anno redige “Werkloozenkrant” un periodico rivolto ai senza lavoro ove si incita all’autorganizzazione ed all’autonomia. Agli inizi del 1933 van der Lubbe intraprende il suo tragico viaggio senza ritorno per recarsi nella vicina Germania dilaniata dall’avanzata nazionalsocialista, per dare il suo contributo attivo contro quello che definisce il “fascismo mortifero”. Ma la realtà disillude subitamente van der Lubbe: l’elefantiaca organizzazione socialdemocratica è allo sbando ed il partito comunista è incapace di qualsiasi azione, stretto tra le direttive di Mosca e la paranoia dell’unità dell’organizzazione che fa vedere complotti ed avventurismi in ogni tentativo di reazione. Così il giovane olandese organizza un’azione individuale dimostrativa – assolutamente improbabile – tesa ad incendiare il Parlamento con qualche straccio e della “diavolina” per camini. Il 10 gennaio 1934 viene decapitato nella prigione di Leipzig. Intorno all’autore di questo gesto solitario si sono scatenate le peggiori campagne propagandistiche dei nazisti e degli stalinisti. Per Hitler il gioco è facile: un comunista incendia il Reichstag, chi è il mandante? Con la consueta capacità di imbastire teoremi a posteriori, il nascente totalitarismo passa da un primo momento nel quale crede veramente che questa azione sia da ascriversi ad un tentativo organizzato insurrezionale ad una cinica volontà di attribuire al KPD la responsabilità del gesto, ottenendo mano libera nello smantellare le residue organizzazioni del partito e contemporaneamente dimostrando all’opinione pubblica quali sono le reali intenzioni dei comunisti. Altro discorso invece bisogna farlo per la manipolazione propagandistica comunista che è riuscita a resistere sino ad oggi. Marinus van der Lubbe diventa il nemico giurato di ogni buon comunista. Contro di lui si scatena una campagna senza precedenti. Questo accade perché lecitamente bisogna allontanare ogni sospetto dal partito, ma anche e soprattutto perché questo giovane olandese è un deviazionista che ha compiuto un gesto individualista. Contemporaneamente egli mette in discussione due dogmi: la fedeltà al partito, ossia a Stalin, e la disciplina del partito, dando in questo modo un cattivo esempio che potrebbe essere seguito da altri militanti esasperati dall’attendismo del KPD.
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