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giovedì 4 luglio 2013

IL SIGNORE DELLE MOSCHE di Peter Brook

Terzo conflitto mondiale. I migliori cadetti delle prestigiose scuole inglesi vengono imbarcati su un aereo per essere salvati. Un incidente, però, li costringe ad ammarare su un’isola del Pacifico, vero paradiso terrestre. I ragazzi stabiliscono subito, in modo democratico, tramite una assemblea, come sopravvivere: alcuni costruiscono il riparo per la notte, altri raccolgono la frutta, alcuni devono tenere acceso il fuoco in cima alla montagna e infine altri vanno a caccia. Soli, travolti da istinti primordiali, senza la guida di nessun adulto, si ritrovano sopraffatti dalla violenza e annebbiati dall’odio sviluppando paure irrazionali e comportamenti brutali. L’isola, la bellezza di una natura incontaminata, rivela da subito l’inadeguatezza dell’uomo: anche se giovani, i ragazzi sembrano inclini ad una violenza innata. La ragionevolezza si è trasformata in una caparbia lotta per il potere e in pura lotta per la sopravvivenza.
Film di Peter Brook, uomo di spettacolo britannico, uno dei più grandi registi teatrali. Tratto dal capolavoro pubblicato nel 1954 di William Golding, Premio Nobel  per la Letteratura 1983, diventa da subito un classico della narrativa distopica. “L’uomo produce il male come le api producono il miele”, è la frase che sottende tutta l’opera. 
Il signore delle mosche è un apologo sulla manifestazione della malvagità umana rappresentato in forma simbolica. L’umanità è in procinto di scatenare una terza, decisiva, guerra mondiale e solo gli allievi di buona famiglia di un prestigioso college londinese possono sottrarsi al tragico destino trasferendosi in Australia. Se l’adulto è da sempre indaffarato a perseguire il male, il fanciullo deve necessariamente essere preservato da questa situazione e conservato nella sua presunta innata bontà. Il signore delle mosche ribalta questa prospettiva immettendo, dopo la sciagura aerea, ragazzi dai sette ai quattordici anni (nel libro erano dai sei ai dodici), che non hanno bisogni primari da soddisfare, in un ambiente naturale in cui debbano obbligatoriamente organizzarsi per poter sopravvivere. Dimentichi della teoria del “buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau, i seguaci di Jack (che diventano la quasi totalità dei ragazzi presenti sull’isola) si abbandonano a un livello di ferinità tale da annullare la loro affettata educazione e lo stato di evoluzione che l’uomo dovrebbe aver raggiunto nel XX secolo (anche se la guerra da cui i giovani sono scappati dimostra sintomaticamente il contrario). Messi in una condizione estrema, privi cioè di quelle comodità alle quali sono naturalmente abituati, i ragazzi si affidano dapprima alla lucida razionalità incarnata dall’assennato Ralph, riconoscendo la necessità di avere una guida in grado di fornire quelle regole di cui hanno bisogno per vivere in pace e serenità; successivamente subentrano l’istinto di sopraffazione, l’irrazionalità (simboleggiata adeguatamente dalla paura di un mostro che nessuno ha mai visto ma di cui tutti hanno un viscerale terrore), la regressione a uno stato primitivo e selvaggio.
La guerra degli adulti viene inevitabilmente replicata dai ragazzi, in una sorta di pessimistica reciprocità che trova la sua giustificazione nella presenza congenita del male all’interno dell’uomo. La Cultura viene schiacciata dall’abbandono incoerente alla Natura attraverso la netta contrapposizione tra Ralph e Jack, le due immagini che restituiscono l’uomo in tutte le sue contraddizioni, pronto a far sfociare la sua placida serenità in un’aggressività profonda e immotivata, incurante dei deboli e bisognosa di violenza solo per ammansire il proprio istinto animalesco. L’uomo crea un microcosmo metaforico in cui si abbrutisce e perde addirittura le sue sembianze distintive, cospargendosi di creta e praticando uccisioni, le quali, perpetrate inizialmente soltanto allo scopo del sostentamento, diventano una sorta di ritualità da praticare per soddisfare la propria brama di aggressività. Azioni a cui è strettamente legato il concetto di religiosità: se i ragazzi uccidono per riconoscersi in un momento comune che allontani l’incubo irrazionale (il mostro), è proprio in virtù di un’uccisione (quella di un maiale, di cui l’isola è piena) che fa la sua comparsa un culto di morte e terrore (l’adorazione della testa di maiale in decomposizione) nel nome del quale si giustificano i peggiori abomini. Per Golding e Brook non esiste una fase dell’umanità pienamente positiva: sono le condizioni che creano le possibilità di arbitrio nell’uomo.

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