Bisogna comprendere la funzione dell’alienazione come condizione di sopravvivenza in questo contesto sociale. Il lavoro dei non-proprietari obbedisce alle stesse contraddizioni del diritto di appropriazione particolare. Esso li trasforma in posseduti, in fabbricanti di appropriazione e in autori della loro stessa esclusione, ma rappresenta la sola possibilità di sopravvivenza per gli schiavi, i servi, i lavoratori, cosicché l’attività che fa durare l’esistenza svuotandola di ogni contenuto finisce per prendere un senso positivo attraverso un rovesciamento di ottica comprensibile e sinistro. Non soltanto il lavoro è stato valorizzato (nella sua forma di sacrificio dall’ancien régime, nel suo aspetto abbruttente nell’ideologia borghese e nelle democrazie pretese popolari) ma, già molto presto, lavorare per il padrone, alienarsi con la buona coscienza della sottomissione, è diventato il prezzo onorevole e appena contestabile della sopravvivenza. La soddisfazione dei bisogni elementari resta la miglior salvaguardia dell’alienazione, quella che la dissimula meglio giustificandola sulla base di un’esigenza inattaccabile. L’alienazione moltiplica i bisogni perché non ne soddisfa nessuno; oggi, l’insoddisfazione si misura a numero di auto, frigo, TV, telefonini, iPod: gli oggetti alienanti non hanno più l’astuzia né il mistero di una trascendenza, ma ci stanno intorno nella loro povertà concreta. Il ricco è oggi colui che possiede il più gran numero di oggetti poveri.
Sopravvivere ci ha, fino ad ora, impedito di vivere. È per questo che bisogna aspettarsi molto dall’impossibilità di sopravvivenza che si annuncia ormai con un’evidenza tanto meno contestabile quanto più il confort e la sovrabbondanza nel quadro della sopravvivenza ci spingono al suicidio o alla rivoluzione.
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