Bodo’s Project è un progetto di comunicazione “altra” per la creazione e la circolazione di scritti, foto e di video geneticamente sovversivi. La critica radicale per azzerare la società della merce; la decrescita, il primitivismo, la solidarietà per contrastare ogni forma di privatizzazione iniziando dall’acqua. Il piacere e la gioia di costruire una società dove tutti siano liberi ed uguali.
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giovedì 26 giugno 2014
Due parole sul carcere di Raoul Vaneigem
Il regno odioso delle prigioni non finirà senza che ciascuno impari a non imprigionarsi più in un comportamento economizzato dai riflessi del profitto e dello scambio. Meno l'animalità si ingabbierà nella rigidità del carattere, arrabbiandosi per frustrazioni perpetue, più aprirà le porte del godimento a progressivi affinamenti, e più apparirà a tutti l'orrore di rinchiudere in cella dei condannati che vi languiscono non per i loro misfatti, ma perché esorcizzano i demoni che le persone oneste imprigionano in loro. I progressi che l'umanesimo auspica fanno rabbrividire. Se le prigioni spariranno senza che il godimento sia restaurato nei suoi diritti, esse cederanno soltanto il posto ad istituzioni psichiatriche ariose, in accordo con le terapie che anestetizzano nei condannati al lavoro quotidiano la violenza delle frustrazioni. Non è forse giunto il tempo di stabilirsi talmente nell'amore di sé che, arrivando ad adeguarsi dal fondo del cuore molta felicità, ci si affezioni agli altri per la felicità stessa che tocca loro in sorte, amandoli per il favore di amare che dispensano a se stessi? Non sopporto di essere abbordato per il ruolo, la funzione, il carattere, l'istantanea che mi fissa e mi imprigiona in ciò che non sono. Quale incontro sperare in un luogo in cui l'obbligo di essere in rappresentazione impedisce sempre che io esista? Mi importa soltanto la presenza del vivente, in cui convergono tutte le libertà che nessun giudizio ha il potere di arrestare.
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SUICIDIO MODO D’USO di CCC CNC NCN
Atto primo
La viltà che muore lascia un segno,
Un taglio profondo nelle arterie,
Ascolto il ritmo delle mie pulsazioni,
E non credo avrebbe senso avere il sangue spesso,
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Diserzione è il nome che gli hanno dato,
Ma so che non è possibile criminalizzare
Il contenuto emozionale delle mie azioni,
Le impronte nere sul soffitto della mia coscienza,
Il dilatarsi di pupille che guardano altrove.
Fucilate, plotoni d’esecuzione, carceri,
Ospedali psichiatrici, sentenze, pene,
Fiori appassiti sul davanzale di una finestra sbarrata.
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Ho tante buone ragioni per morire:
Barbiturici, sonniferi, serenase, morfina,
Trasgredire le istruzioni per il vostro uso.
Repulsione, incompatibilità, odio,
Non sono i miei padroni, non sopporto i loro scherzi
Odio i soldatini e le loro grette maniere.
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Qui è molto buio
Qui deve essere tutto in ordine
Qui la merda piove in testa
Qui devi leccare i pavimenti
Qui gli abiti mi stanno stretti
Qui i colori sono diversi
Qui le scarpe mi fanno male
Qui si muore
Qui si muore!
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Granelli di sabbia si sollevano al soffio del vento,
E allora ho buoni motivi per starmene fermo.
Non voglio morire nel campo di Marte,
Ho le mie ragioni per farlo!
La viltà che muore lascia un segno,
Un taglio profondo nelle arterie,
Ascolto il ritmo delle mie pulsazioni,
E non credo avrebbe senso avere il sangue spesso,
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Diserzione è il nome che gli hanno dato,
Ma so che non è possibile criminalizzare
Il contenuto emozionale delle mie azioni,
Le impronte nere sul soffitto della mia coscienza,
Il dilatarsi di pupille che guardano altrove.
Fucilate, plotoni d’esecuzione, carceri,
Ospedali psichiatrici, sentenze, pene,
Fiori appassiti sul davanzale di una finestra sbarrata.
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Ho tante buone ragioni per morire:
Barbiturici, sonniferi, serenase, morfina,
Trasgredire le istruzioni per il vostro uso.
Repulsione, incompatibilità, odio,
Non sono i miei padroni, non sopporto i loro scherzi
Odio i soldatini e le loro grette maniere.
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Qui è molto buio
Qui deve essere tutto in ordine
Qui la merda piove in testa
Qui devi leccare i pavimenti
Qui gli abiti mi stanno stretti
Qui i colori sono diversi
Qui le scarpe mi fanno male
Qui si muore
Qui si muore!
Il sintomo del mio disagio,
È il crimine che commetto per evadere!
Granelli di sabbia si sollevano al soffio del vento,
E allora ho buoni motivi per starmene fermo.
Non voglio morire nel campo di Marte,
Ho le mie ragioni per farlo!
Il processo di standardizzazione
Il grado di invadenza del governo occidentale contemporaneo non trova uguali, per quantità di ambiti e meticolosità della prescrizione, in circuiti culturali di altri luoghi e tempi. Mai nella storia dell’umanità sono stati regolamentati in maniera così vincolante i seguenti campi. È stato codificato come e dove i cadaveri possono essere seppelliti. Non si può esercitare qualsiasi commercio senza autorizzazione. Sono stati vietati innumerevoli alimenti di produzione casalinga o artigianale, attraverso normative che rendono illegali certe composizioni e modalità di produzione del bene. È reato urinare in qualunque luogo che non siano bagni predisposti. In diverse città le norme urbanistiche sono ferree ed arrivano a specificare una ristretta gamma entro cui scegliere il colore delle persiane. C’è l’obbligo per ogni cittadino di frequentare la scuola; non si tratta qui di discutere sulla bontà del processo di alfabetizzazione ma del fatto che questo venga obbligatoriamente imposto nella forma scolastica statale. Vaccinare i figli è indispensabile, anche per malattie oggi praticamente inesistenti. Ogni spazio sia pubblico che privato, sia finalizzato alla produzione che all’abitazione, sia agricolo che commerciale, è stato sottoposto a una sterminata, capillare serie di vincoli e certificazioni. È proibita la coltivazione e il consumo di marijuana e di tutte le droghe non legalizzate. Per molti cittadini del mondo non è più possibile spostarsi liberamente. Non si possono più raccogliere castagne, funghi o legna secca per riscaldarsi perché a tutto è stata assegnata una proprietà. Non si possono cantare canzoni in pubblico perché protette dai diritti d’autore. Non si possono fare fotocopie di libri. In diversi luoghi non si può dormire all’aperto e non si possono fare fuochi. Non ci si può riposare orizzontalmente su panchine. Non si può distillare la grappa o piantare una vigna senza prima pagare e ottenere una autorizzazione. È illegale utilizzare diversi oggetti e strumenti anche se funzionanti, se non approvati tramite autorizzazione e certificazione. Questo elenco è, ovviamente, incompleto. Potrebbe proseguire per pagine. Considerato che viviamo nell’auto-proclamata società della libertà, la lista di ciò che non si può fare, almeno legalmente, è davvero lunga. La maggior parte sono attività che l’umanità, nei secoli, ha sempre svolto senza pensare che potessero essere rese illegali.
Va riconosciuto che oggi, rispetto ad altri contesti culturali, viene esercitato un uso della forza limitato e una invadenza contenuta in certi ambiti (costruzione identitaria, vestiario, preferenze sessuali, libertà di espressione). Allo stesso tempo, questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti. L’amministrazione, come lo Stato moderno ora viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza. Le sanzioni colpiscono la diversità proprio negli ambiti del lavoro, della distribuzione proprietaria, della capacità di esercitare un peso politico, della gestione del territorio che abbiamo delineato come essenziali nel processo di standardizzazione.
Va riconosciuto che oggi, rispetto ad altri contesti culturali, viene esercitato un uso della forza limitato e una invadenza contenuta in certi ambiti (costruzione identitaria, vestiario, preferenze sessuali, libertà di espressione). Allo stesso tempo, questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti. L’amministrazione, come lo Stato moderno ora viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza. Le sanzioni colpiscono la diversità proprio negli ambiti del lavoro, della distribuzione proprietaria, della capacità di esercitare un peso politico, della gestione del territorio che abbiamo delineato come essenziali nel processo di standardizzazione.
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giovedì 19 giugno 2014
Errico Malatesta e la Settimana Rossa
Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari; il Quirinale è sfuggito per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazione e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani ma cadrà sicuramente e presto. È il momento di mettere in opera tutta la nostra energia, tutta la nostra attività. Qualunque debolezza, qualunque esitazione sarebbe oggi non solo vigliaccheria, ma una sciocchezza. All’opera tutti, con tutte le forze disponibili.
La necessità del momento. Poichè lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione bisogna provveder alle necessità della rivoluzione. E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze governative) bisogna provvedere all’alimentazione della cittadinanza. Bisogna che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente. Perciò le Camere del lavoro, le organizzazioni operaie ed i comitati di volontari prendano le misure necessarie perchè il servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda regolarmente e sufficientemente. Noi non intendiamo, ora, abolire la proprietà individuale. ma pretendiamo che i proprietari, i negozianti, i venditori di tutte le specie non abusino della circostanza per strozzare la popolazione e pretendiamo che si provveda per conto del municipio, per conto della collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per comprare il necessario. Il dazio è abolito, per volontà della popolazione, bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non già a profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al prezzo di prima, meno importo del dazio. Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della Camera del Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di volontari. Ora non è più il caso di preoccuparsi se un barbiere, per esempio, ha servito o no un cliente, o se un trattore ha aperto o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è rivoluzione; e bisogna provvedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo Ciascuno faccia quello che può, non si sciupi la roba, né il pane, né le munizioni. E si badi di non abusare di bevande alcoliche; perchè è tempo di tenere la testa a posto.
Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo collo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico. Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita. Già si annunzia che le Camere del Lavoro di Milano e di Bologna si sono rivoltate agli ordini. La Camera del Lavoro di Ancona è autonoma. L’Unione Sindacale Italiana certamente non mancherà il suo dovere. I ferrovieri hanno quasi completamente arrestato il servizio, e le linee sono state manomesse in modo che non è possibile al governo di ripararle nel breve tempo che gli resta di vita. E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE.
Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!
(VOLONTA’ 17 giugno 1914)
La necessità del momento. Poichè lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione bisogna provveder alle necessità della rivoluzione. E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze governative) bisogna provvedere all’alimentazione della cittadinanza. Bisogna che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente. Perciò le Camere del lavoro, le organizzazioni operaie ed i comitati di volontari prendano le misure necessarie perchè il servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda regolarmente e sufficientemente. Noi non intendiamo, ora, abolire la proprietà individuale. ma pretendiamo che i proprietari, i negozianti, i venditori di tutte le specie non abusino della circostanza per strozzare la popolazione e pretendiamo che si provveda per conto del municipio, per conto della collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per comprare il necessario. Il dazio è abolito, per volontà della popolazione, bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non già a profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al prezzo di prima, meno importo del dazio. Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della Camera del Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di volontari. Ora non è più il caso di preoccuparsi se un barbiere, per esempio, ha servito o no un cliente, o se un trattore ha aperto o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è rivoluzione; e bisogna provvedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo Ciascuno faccia quello che può, non si sciupi la roba, né il pane, né le munizioni. E si badi di non abusare di bevande alcoliche; perchè è tempo di tenere la testa a posto.
Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!
(VOLONTA’ 17 giugno 1914)
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Il 7 giugno di cento anni fa ad Ancona
La mattina del 7 giugno il maltempo impedì ad Ancona la parata militare. Verso le 8 le truppe si erano concentrate nella piazza Cavour sotto un cielo livido e quando il comandante del VII corpo di armata, il generale Barattieri, si apprestava a passare in rivista i reparti, un nuovo violento acquazzone costrinse a sospendere la manifestazione. Le truppe furono ricondotte in caserma anche perché l’acqua aveva disperso il pubblico. La contemporanea manifestazione antimilitarista vietata dal prefetto prevedeva, secondo il programma originario, l’assembramento davanti alla Casa del Proletariato in Via Nazionale e quindi un corteo sino alla piazza del Plebiscito ove avrebbe dovuto svolgersi un comizio ma verso le 9,30 Malatesta ed altri furono fermati e condotti in questura. Appena si sparse la notizia un vivo fermento si diffuse fra coloro che già erano convenuti alla Casa del Proletariato ma Malatesta già posto in libertà dopo una severa diffida fece inaspettatamente il suo ingresso nei locali dove l’assemblea aveva indetto per il pomeriggio alle ore 17,00 nella sede repubblicana di Via Torrioni, la cosiddetta Villa Rossa, un comizio privato che gli eventi della mattina non avevano consentito si svolgesse all’aperto. La questura emanò immediatamente un ordine di servizio per impedire che al termine del comizio i partecipanti si riversassero nella sottostante Piazza Roma ove doveva essere tenuto un concerto della Banda del Buon Pastore e successivamente della Banda Militare. All’ora stabilita in circa 500 convennero alla Villa Rossa dove parlarono Alfredo Pedrini per la Lega dei Muratori e della Camera del Lavoro di Ancona, Pietro Nenni direttore del Lucifero, Errico Malatesta, Ercole per i socialisti, Sigilberto Pelizza per la Camera del Lavoro e Livio Ciardi per i ferrovieri. Alla 18,35 tutto era concluso e gli intervenuti cominciarono a defluire alla spicciolata dalla Villa Rossa. In circa 200 formarono una colonna che cantando rese manifesto il proposito di recarsi in Piazza Roma trovando però la via bloccata da quattro file di carabinieri mentre più su, in via Ad Alto una ventina di questurini sbarravano il passo per l’unico altro accesso che avrebbe consentito di raggiungere piazza Roma. A questo punto l’ordine impartito dalla questura di bloccare il corteo provocò lo sbandamento dei partecipanti racchiusi in un budello quale era la salita stretta e ripida. I dimostranti respinti dai carabinieri ma non intenzionati a disperdersi per la campagna circostante furono costretti in un moto istintivo e spontaneo a converge sull’unica piccola porta di ingresso della Villa Rossa attorno alla quale si posizionarono anche i militari che presidiavano via Ad Alto. Accadde tutto in un attimo: carabinieri e questurini furono investiti da una pioggia di mattoni, sassi e zuppi di terra mentre dalla terrazza della Villa stava per essere calato in basso un pesante barile. Esposti ad una fitta sassaiola e alla vista del barile uno degli agenti estrasse la rivoltella e sparò quattro colpi in aria mentre i carabinieri contagiati dai colpi aprirono da sotto il fuoco a raffica. Fuggi fuggi generale con due corpi rimasti a terra, uccisi: Attilio Ciambrigoni anarchico di 21 anni e Antonio Casaccia di 24 anni. Gravemente ferito morirà il giorno dopo Nello Budini, repubblicano di 17 anni.
Sul terreno erano rimasti anche una decina di feriti. Mentre una atmosfera cupa avvolgeva la città veniva proclamato lo sciopero generale e, due giorni dopo i funerali dei caduti si svolsero alla presenza di migliaia e migliaia di partecipanti. Il sogno dell’insurrezione diventava realtà e avrebbe avvolto mezza Italia con punte significanti nella città di Fabriano e nel Ravennate. Sciopero generale a Roma, Milano, Firenze, Napoli, Torino …..
Sul terreno erano rimasti anche una decina di feriti. Mentre una atmosfera cupa avvolgeva la città veniva proclamato lo sciopero generale e, due giorni dopo i funerali dei caduti si svolsero alla presenza di migliaia e migliaia di partecipanti. Il sogno dell’insurrezione diventava realtà e avrebbe avvolto mezza Italia con punte significanti nella città di Fabriano e nel Ravennate. Sciopero generale a Roma, Milano, Firenze, Napoli, Torino …..
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La Settimana Rossa
Erano anni in cui si stava realizzando un cambiamento enorme e brutale. Un’Italia contadina e arretrata stava vivendo un’industrializzazione accelerata, con un clima sociale difficile e spesso denso di violenza: era tra i nuovi operai delle città che anarchici come Malatesta, socialisti come Pietro Nenni, sindacalisti delle Camere del Lavoro andavano a parlare di lavoro e diritti, educazione e rispetto. L'elemento che aveva cementato tale unione era l'odio contro il governo borghese e le sue istituzioni.
Nella penisola si era consolidato un blocco sociale formato da contadini, operai e ceto medio, di estrazione per lo più anarchica, socialista, sindacalista e repubblicana. Questa alleanza ideologica era tenuta assieme da un comune senso antimilitarista, dalla contrarietà all'impresa coloniale in Libia e dalla lotta contro le Compagnie di Disciplina dell’Esercito dove molti militanti, riconosciuti come rivoluzionari, venivano inviati a scopo rieducazionale.
In particolare due casi avevano colpito e commosso l'opinione pubblica: quello del soldato bolognese Masetti che all'inizio della guerra di Libia aveva sparato contro il proprio colonnello ed era stato rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale a Imola; quello del soldato milanese Antonio Moroni che per le sue idee anti-militariste era stato inviato in una Compagnia di Disciplina e qui aveva subito sevizie. I partiti popolari reclamavano per entrambi la immediata liberazione.
Il movimento anarchico fu l'anima della lotta, come lo era stato nella campagna antimilitarista per la liberazione di Augusto Masetti. Questa presenza era dovuta in larga parte al lavoro di chiarificazione e di organizzazione che, dalla fine del secolo precedente e a partire proprio dalla città di Ancona, aveva puntato a rinsaldare le relazioni fra gruppi e compagni, a raggrupparli attorno ad un programma comune e rivolto all'intervento nel movimento operaio, combattendo al tempo stesso le influenze borghesi che penetravano nel movimento. Questo lavoro aveva visto come protagonisti Pietro Gori, Luigi Fabbri, Luigi Bertoni, Errico Malatesta, per citare solo i più noti, e si era sviluppato attraverso periodici, come L'Agitazione, Il Pensiero, Volontà.
La Settimana Rossa fu un moto a carattere insurrezionale che attraversò l'Italia nel giugno del 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Tutto ebbe inizio con le manifestazioni antimilitariste indette congiuntamente dalle forze dell'estrema sinistra (socialisti, repubblicani, anarchici, sindacalisti rivoluzionari) per domenica 7 giugno, festa dello Statuto, giorno caro all'Italia monarchica e liberale. Per sette giorni, dall'8 al 14 giugno del 1914, tutta l'Italia fu attraversata da un forte vento rivoluzionario.
La causa scatenante fu l'eccidio di tre giovani lavoratori avvenuto ad Ancona per l'intervento dei carabinieri contro i manifestanti: due repubblicani Antonio Casaccia di 24 anni e Nello Budini di 17 anni, che morirono all'ospedale, e l'anarchico Attilio Giambrignani, di 22 anni, morto sul colpo. Episodi tragici di questo tipo erano accaduti sovente in quegli anni. Quello di Ancona fu la goccia che fece traboccare il vaso. In tutte le grandi città, dal Nord al Sud d'Italia, ci furono manifestazioni per strada e scontri violenti tra carabinieri e manifestanti con decine di morti, alcuni anche tra le forze dell'ordine.
Nella penisola si era consolidato un blocco sociale formato da contadini, operai e ceto medio, di estrazione per lo più anarchica, socialista, sindacalista e repubblicana. Questa alleanza ideologica era tenuta assieme da un comune senso antimilitarista, dalla contrarietà all'impresa coloniale in Libia e dalla lotta contro le Compagnie di Disciplina dell’Esercito dove molti militanti, riconosciuti come rivoluzionari, venivano inviati a scopo rieducazionale.
In particolare due casi avevano colpito e commosso l'opinione pubblica: quello del soldato bolognese Masetti che all'inizio della guerra di Libia aveva sparato contro il proprio colonnello ed era stato rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale a Imola; quello del soldato milanese Antonio Moroni che per le sue idee anti-militariste era stato inviato in una Compagnia di Disciplina e qui aveva subito sevizie. I partiti popolari reclamavano per entrambi la immediata liberazione.
Il movimento anarchico fu l'anima della lotta, come lo era stato nella campagna antimilitarista per la liberazione di Augusto Masetti. Questa presenza era dovuta in larga parte al lavoro di chiarificazione e di organizzazione che, dalla fine del secolo precedente e a partire proprio dalla città di Ancona, aveva puntato a rinsaldare le relazioni fra gruppi e compagni, a raggrupparli attorno ad un programma comune e rivolto all'intervento nel movimento operaio, combattendo al tempo stesso le influenze borghesi che penetravano nel movimento. Questo lavoro aveva visto come protagonisti Pietro Gori, Luigi Fabbri, Luigi Bertoni, Errico Malatesta, per citare solo i più noti, e si era sviluppato attraverso periodici, come L'Agitazione, Il Pensiero, Volontà.
La Settimana Rossa fu un moto a carattere insurrezionale che attraversò l'Italia nel giugno del 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Tutto ebbe inizio con le manifestazioni antimilitariste indette congiuntamente dalle forze dell'estrema sinistra (socialisti, repubblicani, anarchici, sindacalisti rivoluzionari) per domenica 7 giugno, festa dello Statuto, giorno caro all'Italia monarchica e liberale. Per sette giorni, dall'8 al 14 giugno del 1914, tutta l'Italia fu attraversata da un forte vento rivoluzionario.
La causa scatenante fu l'eccidio di tre giovani lavoratori avvenuto ad Ancona per l'intervento dei carabinieri contro i manifestanti: due repubblicani Antonio Casaccia di 24 anni e Nello Budini di 17 anni, che morirono all'ospedale, e l'anarchico Attilio Giambrignani, di 22 anni, morto sul colpo. Episodi tragici di questo tipo erano accaduti sovente in quegli anni. Quello di Ancona fu la goccia che fece traboccare il vaso. In tutte le grandi città, dal Nord al Sud d'Italia, ci furono manifestazioni per strada e scontri violenti tra carabinieri e manifestanti con decine di morti, alcuni anche tra le forze dell'ordine.
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giovedì 12 giugno 2014
L’umano cittadino e la natura di Henry David Thoreau
Per concludere amare e vivere nelle natura guardando gli animali non vuol dire lottare contro il progresso, ma contro la sua degenerazione. Nella nostra natura c’è sia l’anarchia che la tecnologia: non facciamo errori grossolani. Qui è non comprendere che anche la tecnologia, che è neutrale è stata poi assoggettata alle teorie dell’assurdo; se, come me, non poni cesura totale tra naturale e culturale allora anche la tecnica, in senso non banale, è natura: perché ne è emersione.
Utilizzare gli strumenti interni al sistema che si contesta scatenando le contraddizioni, questo è necessario, senza integrazione non c’è disintegrazione: generando paradossi l’anarchia sarà possibile.
INCOMMENSURABILE di Tania Van Schalkwyk
C’è un oceano incommensurabile
e ti inghiotte
quando ti bacia
In questo mare ci sono scogliere con
sponde che cadono in buchi scoscesi
Puoi sederti sul corallo
tenere i tuoi piedi a penzoloni sul precipizio
lasciare che le tue caviglie vengano mordicchiate
guardare le ombre dell’azzurro confondersi tra loro
ascoltare l’uomo nel mare chiamarti a sé —
e tu puoi immergerti nelle sue fredde e dure braccia
affondare nella storia senza fine dei suoi occhi scuri
bere nel suo sale
giacere distesa sul fondo del suo letto —
o puoi attendere che una corrente ti porti via
ti spinga lontano dal suo abbraccio
ti spinga sempre più lontano verso il mare aperto —
continuare a galleggiare, nelle profonde
braccia spalancate verso il sole
coi capelli che sfiorano la superficie
potrai trovar pace
potrai pensare che ti sei lasciata andare
finché ti accorgi di non essere sola —
i fruscii e gli spruzzi di una pinna
il bagliore di una bocca che ha fame di te
uno strattone nei tuoi riccioli, i tuoi arti tirati
ti rammentano che lui è lì, ti fanno ricordare
della discesa, del giorno in cui verrai divorato
della notte in cui ti arrenderai, della volta in cui
smetterai di camminare, smetterai di nuotare
E ti lascerai annegare, incommensurabile.
e ti inghiotte
quando ti bacia
In questo mare ci sono scogliere con
sponde che cadono in buchi scoscesi
Puoi sederti sul corallo
tenere i tuoi piedi a penzoloni sul precipizio
lasciare che le tue caviglie vengano mordicchiate
guardare le ombre dell’azzurro confondersi tra loro
ascoltare l’uomo nel mare chiamarti a sé —
e tu puoi immergerti nelle sue fredde e dure braccia
affondare nella storia senza fine dei suoi occhi scuri
bere nel suo sale
giacere distesa sul fondo del suo letto —
o puoi attendere che una corrente ti porti via
ti spinga lontano dal suo abbraccio
ti spinga sempre più lontano verso il mare aperto —
continuare a galleggiare, nelle profonde
braccia spalancate verso il sole
coi capelli che sfiorano la superficie
potrai trovar pace
potrai pensare che ti sei lasciata andare
finché ti accorgi di non essere sola —
i fruscii e gli spruzzi di una pinna
il bagliore di una bocca che ha fame di te
uno strattone nei tuoi riccioli, i tuoi arti tirati
ti rammentano che lui è lì, ti fanno ricordare
della discesa, del giorno in cui verrai divorato
della notte in cui ti arrenderai, della volta in cui
smetterai di camminare, smetterai di nuotare
E ti lascerai annegare, incommensurabile.
Abbiamo bisogno di identità forti
Abbiamo bisogno di identità forti? Dobbiamo necessariamente appartenere a gruppi e conformarci alla condotta collettiva del nostro gruppo di riferimento? Le identità sono modi di disegnare circuiti di appartenenza mediante un processo di riduzione del differente al simile. Una volta che l’identità è affermata, si riconosce, infatti, per l’omogeneità di sentimenti, pratiche e valori che caratterizza i diversi individui che appartengono al gruppo. La costruzione delle identità è quindi un processo di delimitazione di un gruppo e di definizione di ciò che fa parte della sua identità. In questo processo di edificazione di aggregati sociali riconoscibili si giocano dinamiche di potere. Una prima forma di potere consiste nella selezione di quali debbono essere i valori condivisi dal gruppo. Una seconda forma risulta dalla capacità di diffondere – o imporre - le pratiche considerate accettabili per chi appartiene al gruppo. L’autorità identitaria rende omogenea la pluralità individuale e genera una contrapposizione verso l’altro.
Negli ultimi decenni l’antropologia culturale ha mostrato che le identità che ci vengono spesso presentate come naturali e inevitabili sono, in realtà, costruite e arbitrarie. Essendo culturalmente fabbricate, le identità potrebbero essere decostruite, svuotate e riconfigurate. Si possono quindi rifiutare dinamiche di appartenenza che mistificano la lettura della realtà? Ci si può svincolare dall’inconsapevole disciplinarizzazione della nostra condotta richiesta dal conformarsi all’appartenenza identitaria? Si può ma spesso non si fa. Anche in circuiti antagonisti, anche in ambienti libertari. E’ relativamente più semplice cogliere il potere, al di fuori di noi, nelle istituzioni, nel carcere, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle caserme, nello stato; è più problematico prendere coscienza di come noi stessi riproduciamo il potere nel vissuto quotidiano. Non ci sono rimedi semplici per abbattere queste forme di potere discorsivo e sfuggevole se non la consapevolezza individuale delle dinamiche sociali, quotidianamente riprodotte e all’apparenza innocue.
Abbiamo bisogno di identità forti? Dobbiamo necessariamente appartenere a gruppi e conformarci alla condotta collettiva del nostro gruppo di riferimento? Le identità sono modi di disegnare circuiti di appartenenza mediante un processo di riduzione del differente al simile. Una volta che l’identità è affermata, si riconosce, infatti, per l’omogeneità di sentimenti, pratiche e valori che caratterizza i diversi individui che appartengono al gruppo. La costruzione delle identità è quindi un processo di delimitazione di un gruppo e di definizione di ciò che fa parte della sua identità. In questo processo di edificazione di aggregati sociali riconoscibili si giocano dinamiche di potere. Una prima forma di potere consiste nella selezione di quali debbono essere i valori condivisi dal gruppo. Una seconda forma risulta dalla capacità di diffondere – o imporre - le pratiche considerate accettabili per chi appartiene al gruppo. L’autorità identitaria rende omogenea la pluralità individuale e genera una contrapposizione verso l’altro.
Negli ultimi decenni l’antropologia culturale ha mostrato che le identità che ci vengono spesso presentate come naturali e inevitabili sono, in realtà, costruite e arbitrarie. Essendo culturalmente fabbricate, le identità potrebbero essere decostruite, svuotate e riconfigurate. Si possono quindi rifiutare dinamiche di appartenenza che mistificano la lettura della realtà? Ci si può svincolare dall’inconsapevole disciplinarizzazione della nostra condotta richiesta dal conformarsi all’appartenenza identitaria? Si può ma spesso non si fa. Anche in circuiti antagonisti, anche in ambienti libertari. E’ relativamente più semplice cogliere il potere, al di fuori di noi, nelle istituzioni, nel carcere, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle caserme, nello stato; è più problematico prendere coscienza di come noi stessi riproduciamo il potere nel vissuto quotidiano. Non ci sono rimedi semplici per abbattere queste forme di potere discorsivo e sfuggevole se non la consapevolezza individuale delle dinamiche sociali, quotidianamente riprodotte e all’apparenza innocue.
giovedì 5 giugno 2014
Sempre connessi e sempre sotto controllo!
Quello che sta avvenendo sul pianeta ad una velocità impressionante è una distruzione di tale proporzioni che non necessita di alcun strumento o specialista per rendersene conto. L’ecocidio in atto ha ormai raggiunto e superato quasi ovunque la soglia dell’irreversibilità: gli stessi elementi che rendono possibile la vita sul pianeta stanno scomparendo, un ecosistema più complesso nella sua integrità è diventato una rarità. Questo sistema sta lavorando al dopo: dopo aver garantito e messo in atto un saccheggio e una distruzione senza precedenti, si appresta a far a meno della natura e quindi anche dell’uomo, per come si è inteso fino ad ora essere umano. Ma non stiamo parlando di un salto che sta per compiersi da parte del totalitarismo tecnologico. La tecnologia, trama del nostro quotidiano e dimensione interiorizzata che plasma e modifica la stessa realtà, non fa salti, può stare nascosta per anni in qualche laboratorio di ricerca, ma assolutamente non fa salti. Ci siamo già dentro a pieno a questa singolarità, come è stato definito questo radicale cambiamento in corso. Dal chip sotto pelle ai droni sui quartieri a “rischio” l’avanzata del dominio tecnologico è lenta e inarrestabile: talmente lenta che neanche ce ne rendiamo conto. Ma è una finta lentezza: se gaggets tecnologici, diventati protesi nel nostro quotidiano come i cellulari, si rinnovano in tempi sempre più corti, lo stesso avviene per le tecnologie militari e di controllo. Con un certo eufemismo, si potrebbe dire che quello non immediatamente utile al militare viene lasciato al pubblico per farlo concentrare sulla propria alienazione o per affinare intorno a se quella vasta gabbia tecnologica, di cui l’espressione più evidente è il cosiddetto “internet delle cose”: sempre connessi e sempre sotto controllo! Il ruolo delle grosse multinazionali come sempre è chiave, quando è in corso un cambiamento di tali proporzioni e dalle così vaste implicazioni per il futuro, ma non si può ridurre tutto alle compagnie come IBM, Monsanto, Basf … per citarne solo alcune. La questione è molto più ampia e complessa, coinvolge tutto il sistema della ricerca scientifica dell’alta tecnologia e un determinismo tecnologico che ci vuole sempre più imbrigliati. Ci sentiamo di puntare forte l’attenzione sull’interconnessione delle scienze convergenti: biotecnologia, nanotecnologia, neuroscienze, informatica. Sentiamo di dare un ruolo particolare alle nanotecnologie e al nanomondo che si sta realizzando passo dopo passo, dove le decisioni sono già state prese e partecipare al dibattito con i loro tavoli truccati non significa altro che consolidare il proprio sfruttamento in forma consensuale. In questo stato di cose anche le normali manifestazioni di consenso vengono meno o si fanno superflue, una tecnologia che si è fatta sistema muove i suoi passi a prescindere da noi. L’ingegneria genetica va di pari passo con l’ingegneria sociale, dove il vivente viene snaturato della sua stessa essenza e dove questo “uomo nuovo” deve essere il miglior custode della gabbia. Le nanotecnologie non sono arrivate dal nulla, come dicono gli stessi estimatori il debito verso le biotecnologie è enorme, non sono altro che la loro continuazione. Per questo pensiamo sia necessario non separarle mai, mettendone in luce la comune origine e il medesimo percorso. Il terrore dei sostenitori del nanomondo è vedere ripetersi quello che è avvenuto con gli ogm, dove una visione fortemente negativa ha preso piede in tutto il mondo creando numerose resistenze.
Quello che sta avvenendo sul pianeta ad una velocità impressionante è una distruzione di tale proporzioni che non necessita di alcun strumento o specialista per rendersene conto. L’ecocidio in atto ha ormai raggiunto e superato quasi ovunque la soglia dell’irreversibilità: gli stessi elementi che rendono possibile la vita sul pianeta stanno scomparendo, un ecosistema più complesso nella sua integrità è diventato una rarità. Questo sistema sta lavorando al dopo: dopo aver garantito e messo in atto un saccheggio e una distruzione senza precedenti, si appresta a far a meno della natura e quindi anche dell’uomo, per come si è inteso fino ad ora essere umano. Ma non stiamo parlando di un salto che sta per compiersi da parte del totalitarismo tecnologico. La tecnologia, trama del nostro quotidiano e dimensione interiorizzata che plasma e modifica la stessa realtà, non fa salti, può stare nascosta per anni in qualche laboratorio di ricerca, ma assolutamente non fa salti. Ci siamo già dentro a pieno a questa singolarità, come è stato definito questo radicale cambiamento in corso. Dal chip sotto pelle ai droni sui quartieri a “rischio” l’avanzata del dominio tecnologico è lenta e inarrestabile: talmente lenta che neanche ce ne rendiamo conto. Ma è una finta lentezza: se gaggets tecnologici, diventati protesi nel nostro quotidiano come i cellulari, si rinnovano in tempi sempre più corti, lo stesso avviene per le tecnologie militari e di controllo. Con un certo eufemismo, si potrebbe dire che quello non immediatamente utile al militare viene lasciato al pubblico per farlo concentrare sulla propria alienazione o per affinare intorno a se quella vasta gabbia tecnologica, di cui l’espressione più evidente è il cosiddetto “internet delle cose”: sempre connessi e sempre sotto controllo! Il ruolo delle grosse multinazionali come sempre è chiave, quando è in corso un cambiamento di tali proporzioni e dalle così vaste implicazioni per il futuro, ma non si può ridurre tutto alle compagnie come IBM, Monsanto, Basf … per citarne solo alcune. La questione è molto più ampia e complessa, coinvolge tutto il sistema della ricerca scientifica dell’alta tecnologia e un determinismo tecnologico che ci vuole sempre più imbrigliati. Ci sentiamo di puntare forte l’attenzione sull’interconnessione delle scienze convergenti: biotecnologia, nanotecnologia, neuroscienze, informatica. Sentiamo di dare un ruolo particolare alle nanotecnologie e al nanomondo che si sta realizzando passo dopo passo, dove le decisioni sono già state prese e partecipare al dibattito con i loro tavoli truccati non significa altro che consolidare il proprio sfruttamento in forma consensuale. In questo stato di cose anche le normali manifestazioni di consenso vengono meno o si fanno superflue, una tecnologia che si è fatta sistema muove i suoi passi a prescindere da noi. L’ingegneria genetica va di pari passo con l’ingegneria sociale, dove il vivente viene snaturato della sua stessa essenza e dove questo “uomo nuovo” deve essere il miglior custode della gabbia. Le nanotecnologie non sono arrivate dal nulla, come dicono gli stessi estimatori il debito verso le biotecnologie è enorme, non sono altro che la loro continuazione. Per questo pensiamo sia necessario non separarle mai, mettendone in luce la comune origine e il medesimo percorso. Il terrore dei sostenitori del nanomondo è vedere ripetersi quello che è avvenuto con gli ogm, dove una visione fortemente negativa ha preso piede in tutto il mondo creando numerose resistenze.
I PUGNI IN TASCA di Marco Bellocchio
Siamo nel Piacentino, in una famiglia della borghesia agraria, tarata dall’epilessia. La madre è vedova, cieca e smarrita; dei quattro figli, uno soltanto Augusto, il maggiore è sano di corpo, ma si vergogna degli altri, Sandro è epilettico, Leon è subnormale e Giulia è nevrotica. Il più pericoloso è Sandro, va soggetto a crisi frequenti, e cova una cupa violenza contro il mondo. Si sente disutile, condannato a soccombere. Per vincere il proprio complesso d’inferiorità e affermarsi con un gesto che lo convinca della propria forza di volere e quindi del proprio diritto a sopravvivere, dovrebbe intanto eliminare gli ostacoli vicini. Ove riuscisse a togliere di mezzo i più deboli, potrebbe infatti sperare di raggiungere la sicurezza di Augusto, che ha affari in città, crescere nella stima, anzi nell’amore malato, di Giulia. Nella sua puerile demenza non ha, ovviamente, il coraggio di architettare un piano, ma quando, imparata a guidare l’automobile, ha acquistato maggior fiducia in se stesso, la follia è così lucida da saper profittare dei casi fortuiti. Presentatasi l’occasione favorevole, Sandro passa infatti all’azione: spinge la madre in un burrone e affoga il fratello minore nella vasca da bagno. Se ne vanta con Giulia, e il legame morboso li stringe a coalizzarsi contro Augusto, che sta per sposare una borghese di città. Ma l’alleanza è breve e inquieta: sarà proprio Giulia, temendo che stia per venire il suo turno, a ristabilire l’ordine lasciando morire Sandro senza soccorrerlo durante una crisi.
Con I pugni in tasca, siamo coinvolti nel furore d’un giovanotto in rivolta contro tutti quei valori morali e sociali che la tradizione ha racchiuso nella famiglia. Marco Bellocchio non se la prende soltanto con la borghesia di provincia. Quest’ambiente gli serve per comodo autobiografico, per le risorse delle tinte grigie, e anche per la moda di andare a cercare in provincia l’origine di ogni vizio. In realtà egli spara a 360 gradi: è proprio l’istituto familiare che gli sembra giunto al tragico crollo, dacché continua a porsi come microcosmo dove l’individuo è costretto a trovare il principio e la fine della propria ragion d’essere. Ma Bellocchio non s’avventa solo contro la famiglia ma soprattutto contro ogni tipo di società in cui si valga nella misura in cui si è utili. È il buttare al fuoco un certo tipo di religiosità, un certo tipo d’educazione cattolica, quella dei collegi in cui il regista è cresciuto. La morte si rivela come l’evento trasformatore: rompe equilibri, rapporti di forza, per ricostruirne altri. Sandro è un ragazzo che uccide anche soltanto per la curiosità di disordinare un ordine venuto a noia e di vedere l’ordine nuovo.
Il ’68 è vicino, e la rivolta è nell’aria.
Con I pugni in tasca, siamo coinvolti nel furore d’un giovanotto in rivolta contro tutti quei valori morali e sociali che la tradizione ha racchiuso nella famiglia. Marco Bellocchio non se la prende soltanto con la borghesia di provincia. Quest’ambiente gli serve per comodo autobiografico, per le risorse delle tinte grigie, e anche per la moda di andare a cercare in provincia l’origine di ogni vizio. In realtà egli spara a 360 gradi: è proprio l’istituto familiare che gli sembra giunto al tragico crollo, dacché continua a porsi come microcosmo dove l’individuo è costretto a trovare il principio e la fine della propria ragion d’essere. Ma Bellocchio non s’avventa solo contro la famiglia ma soprattutto contro ogni tipo di società in cui si valga nella misura in cui si è utili. È il buttare al fuoco un certo tipo di religiosità, un certo tipo d’educazione cattolica, quella dei collegi in cui il regista è cresciuto. La morte si rivela come l’evento trasformatore: rompe equilibri, rapporti di forza, per ricostruirne altri. Sandro è un ragazzo che uccide anche soltanto per la curiosità di disordinare un ordine venuto a noia e di vedere l’ordine nuovo.
Il ’68 è vicino, e la rivolta è nell’aria.
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MANO ALLE MANNAIE!
Alla giovane Russia!
Per colpa di quelli che ci governano, il nostro paese è ridotto in condizioni spaventose. Non resta che una via d’uscita: una rivoluzione sanguinosa, spietata che distrugga alla radice tutte le fondamenta dell’odierno ordine sociale ed annienti tutti i sostenitori del sistema attualmente in vigore. Noi non ne abbiamo paura, anche se sappiamo che ciò costerà fiumi di sangue.
Per prima cosa regoleremo i conti con la famiglia imperiale, i Romanov pagheranno col loro sangue le sofferenze del popolo, il dispotismo di tanti lunghi anni, il loro disprezzo per i diritti e i bisogni più elementari dei loro sudditi. La stirpe dei Romanov perderà la testa. Invadiamo il palazzo d’Inverno e sterminiamo tutti quelli che lo occupano.
È possibile che l’annientamento di tutta la famiglia dello zar segni il compimento della nostra opera. Ma è possibile che il partito imperiale si levi come un sol uomo per difendere lo zar. In tal caso confidiamo in noi stessi, nelle nostre forze, nell’amore del popolo, nell’avvenire glorioso della Russia che sarà il primo paese al mondo a realizzare il grande compito del socialismo, e gridiamo: "mano alle mannaie!"
Abbattete senza pietà il partito degli zar così come esso senza pietà si è levato contro di voi. Abbatteteli sulle piazze, se questa banda di cani oserà cacciarvi a pedate! Abbatteteli nelle strade delle città di provincia e nei viali della metropoli! Abbatteteli nei villaggi e nelle borgate!
Se falliremo dovremo pagare con la nostra vita il tentativo di aiutare gli esseri umani a conquistare i loro diritti, saliremo senza paura sul patibolo e senza paura poseremo la testa sul ceppo.
Il Comitato Centrale della Rivoluzione
(Manifesto affisso sui muri degli edifici pubblici, Pietroburgo 1862)
Per colpa di quelli che ci governano, il nostro paese è ridotto in condizioni spaventose. Non resta che una via d’uscita: una rivoluzione sanguinosa, spietata che distrugga alla radice tutte le fondamenta dell’odierno ordine sociale ed annienti tutti i sostenitori del sistema attualmente in vigore. Noi non ne abbiamo paura, anche se sappiamo che ciò costerà fiumi di sangue.
Per prima cosa regoleremo i conti con la famiglia imperiale, i Romanov pagheranno col loro sangue le sofferenze del popolo, il dispotismo di tanti lunghi anni, il loro disprezzo per i diritti e i bisogni più elementari dei loro sudditi. La stirpe dei Romanov perderà la testa. Invadiamo il palazzo d’Inverno e sterminiamo tutti quelli che lo occupano.
È possibile che l’annientamento di tutta la famiglia dello zar segni il compimento della nostra opera. Ma è possibile che il partito imperiale si levi come un sol uomo per difendere lo zar. In tal caso confidiamo in noi stessi, nelle nostre forze, nell’amore del popolo, nell’avvenire glorioso della Russia che sarà il primo paese al mondo a realizzare il grande compito del socialismo, e gridiamo: "mano alle mannaie!"
Abbattete senza pietà il partito degli zar così come esso senza pietà si è levato contro di voi. Abbatteteli sulle piazze, se questa banda di cani oserà cacciarvi a pedate! Abbatteteli nelle strade delle città di provincia e nei viali della metropoli! Abbatteteli nei villaggi e nelle borgate!
Se falliremo dovremo pagare con la nostra vita il tentativo di aiutare gli esseri umani a conquistare i loro diritti, saliremo senza paura sul patibolo e senza paura poseremo la testa sul ceppo.
Il Comitato Centrale della Rivoluzione
(Manifesto affisso sui muri degli edifici pubblici, Pietroburgo 1862)
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