Il 14 febbraio del 1966 Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano, studenti del liceo milanese Parini e animatori del giornale studentesco La Zanzara, hanno l’idea di redigere l’inchiesta «Che cosa pensano le ragazze d’oggi». Al centro del dibattito c’è il ruolo della donna nella società e temi come l’educazione sessuale nelle scuole, la legittimità o meno dell’uso di contraccettivi e i rapporti prematrimoniali. La delicatezza degli argomenti, la minore età delle intervistate e un contesto storico sociale ancora impreparato fanno sì che l’articolo del piccolo foglio studentesco diventi un caso nazionale, rimbalzando sulle prime pagine dei giornali e dividendo il Paese tra colpevolisti, in prima fila Democrazia cristiana e Movimento sociale italiano e innocentisti Sinistra e cattolici progressisti che si mobilitano a difesa dei tre studenti.
L’articolo venne attaccato da un volantino di Gs (Gioventù studentesca) di don Luigi Giussani futuro fondatore di Comunione e Liberazione e gli autori dell’inchiesta furono denunciati da un gruppo di genitori e rinviati a giudizio dalla Procura della Repubblica con l’accusa di “oscenità a mezzo stampa e pubblicazione clandestina”
Il 16 marzo i tre giovani redattori vengono accompagnati in Questura e invitati dal giudice Pasquale Carcasio, secondo una legge di epoca fascista a spogliarsi e a sottoporsi a visita medica per «verificare la presenza di tare fisiche e psicologiche». I due ragazzi acconsentono, mentre Claudia Beltramo si oppone e pretende di vedere un avvocato. Lo scandalo culminerà con un processo per direttissima ai tre giovani, oltre alla denuncia al preside del liceo Daniele Mattalia e alla responsabile della tipografia Aurelia Terzaghi, per non aver esercitato il dovuto controllo sul giornale pubblicato nella scuola.
Al processo partecipano oltre 400 giornalisti di testate italiane e straniere, mentre nelle strade migliaia di studenti scendono in piazza in segno di protesta, per la prima volta dal dopoguerra. Difesi dagli avvocati Giacomo Delitala, Giandomenico Pisapia, Alberto Dall’Ora, i tre giovani verranno assolti il 2 aprile 1966, stabilendo così la libertà di trattare sui giornali temi scottanti come la sessualità, ma la scia di polemiche si protrarrà per molto tempo ancora. Dall’arringa dell’avvocato Delitalia: «Il pubblico ministero si è
accorto persino lui di aver tirato troppo la corda e di aver promosso uno scontro tra due Italie: quella vecchia, che non era meglio di quella di oggi e quella moderna. È un’azione quella dei ragazzi della Zanzara che induce noi adulti a meditare ed avrebbe dovuto indurre anche il pubblico a farlo per evitare che da questi fatti fosse fatto un processo. Ma forse sarà un bene, perché così tali problemi sono venuti a galla ed è un bene soprattutto per la collettività che se ne parli. Ma non è un bene per gli imputati, ai quali è stata inflitta un’esperienza che lascerà un segno nello sviluppo futuro, buono o cattivo che sia»
L’assoluzione piena non solo portò la serenità tra i banchi dell’istituto di via Goito, ma segnò indelebilmente il passo, fu il segno premonitore di un ’68 alle porte, che avrebbe spinto alla ribellione la gioventù di tutto il mondo. Erano anni di boom economico e di parziale benessere anche tra le classi sociali meno abiette, che aspiravano a mandare i figli a scuola perché migliorassero la loro condizione sociale.
L’inchiesta
La famiglia: Le ragazze milanesi rispetto ai genitori non accettano più «un atteggiamento di tipo autoritaristico, ma si chiede loro amicizia e una maggiore comprensione dei propri problemi». Una di loro dice: «Io posso accettare un consiglio da mio padre solo se è motivato e non perché dice che è il padre e basta!». Come si vede, una notevole consapevolezza della propria libertà.
L’educazione sessuale: È quella che manca a scuola, dicono le intervistate. «Non vogliamo più un controllo dello Stato e della società sui problemi del singolo e vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità». E per ottenere questo, dicono le ragazze, occorre l’educazione sessuale nelle scuole. Stesso concetto che sta alla base di chi, oggi, propone l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole (ma le varie proposte di legge sono rimaste lettera morta).
Il sesso, la società e il problema morale e religioso: Condanna senza mezzi termini dei film erotici, prudenza sul controllo delle nascite nel matrimonio e per quanto riguarda i rapporti prematrimoniali, qui, in effetti le ragazze si dividono. Ci sono quelle che «pongono dei limiti», altre invece che sostengono che «nell’amore nessuno dovrebbe agire secondo limiti e regole già prima codificati, ma solo secondo la propria coscienza e la propria volontà». Altre invece dicono che «all’uomo che si ama si può dare tutto ma solo nel matrimonio». Ma è il problema della verginità legata all’influenza della Chiesa che appassiona le giovani studentesse del Parini. Qualche risposta: «La religione in campo sessuale è portatrice di complessi di colpa», oppure, «Quando esiste l’amore non possono o non devono esistere limiti e freni religiosi» e ancora: «La posizione della Chiesa mi ha creato molti conflitti fin quando non me ne sono allontanata».
Una grande sensibilità è sempre presente in Breton e questa sensibilità si esprime con una grande intensità quando evoca l'anarchismo. In Arcane 17, scritto nel 1944, ricorda: "La bandiera rossa, del tutto pura, priva di marchi o insegne, ritroverò sempre per essa l'esaltazione popolare all'avvicinarsi dell'altra guerra, l'ho vista dispiegarsi a migliaia nel cielo basso di Pré-Saint-Gervais. Tuttavia, sento che a ragione non posso farci nulla continuerei a fremere ancor più all'evocazione del momento in cui questo mare fiammeggiante, in posti poco numerosi e ben circoscritti, è stato bucato dallo stormire di bandiere nere. Nelle più profonde gallerie del mio cappello nero, certo, le devastazioni fisiche erano più sensibili, ma la passione aveva veramente forato certi occhi, vi aveva lasciato dei punti di incandescenza indimenticabili. Era come se la fiamma fosse passata su tutti loro bruciandoli soltanto più o meno, non lasciando sugli uni che la rivendicazione e la speranza più ragionevoli, le meglio fondate, mentre portava agli altri, più rari a consumarsi sul posto in un atteggiamento inesorabile di sedizione e di sfida. E ancora: Non dimenticherò mai la distensione, l'esaltazione e la fierezza che mi procurò, una delle primissime volte che bambino mi si portò in un cimitero tra tanti monumenti funerari deprimenti o ridicoli, la scoperta di una semplice lastra di granito incisa in lettere capitali rosse con la superba sentenza Né dio né padroni".
Utopia
Credo che l’idea di ambientare un esperimento utopico in un contesto ambientale molto difficile e povero mi sia venuta dal voler reagire alla confusione tra il concetto di “vita buona” e di “La Vita dei Beni”, se è chiaro quel che intendo (nell’originale inglese, gioco di parole tra “a good life” e “The Good Life”), Per molti l’“utopia” assomiglia a un enorme supermercato, in cui tutto abbonda, tanto il necessario quanto il voluttuario.
Ma c’è una grande differenza tra “abbondanza” e “abbastanza”. Nessuna utopia che si basi su un’equa distribuzione potrà mai promettere più del sufficiente. Il sovrappiù è una necessità solo per il capitalismo, il quale si basa sulla crescita perpetua e su una radicale ineguaglianza della prosperità materiale. Inoltre, ambientando il mio esperimento anarchico su un pianeta povero di materie prime, è stato più semplice (e un autore di romanzi deve semplificare) mostrare come funzionasse la società. Quando c’è a malapena di che sfamare tutti e tutti devono lavorare per ottenerlo, garantire un’equa distribuzione è molto più facile.
Ho parlato delle utopie pianificate (come Anarres) in un saggio dove proponevo (a me stessa, in ogni caso) di lasciare l’utopia modello per arrivare a qualcosa di più selvaggio – intento con cui ho scritto il romanzo utopico Sempre la valle, che difficilmente è visto come un’utopia perché non ha un progetto o un’affiliazione di natura politica.
Si tende a pensare che questo romanzo parli degli indiani. In effetti ho preso qualche elemento da diverse società native americane, ma credimi, i kesh del mio libro non sono indiani, né nessun’altra popolazione di mia conoscenza; ho tratto ispirazione da tutte le società non-capitaliste, più o meno basate sul consenso di cui ho trovato traccia. E per di più, mi sono concessa qualche libertà nei confronti di quella che chiamiamo “natura umana”. (E questo perché, da brava figlia di un antropologo, sono stata educata a diffidare di qualsiasi discorso sulla o convinzione nella “natura umana”. Perché finora la “natura umana” si è sempre rivelata una questione di opinione, non di osservazione.)
L’anarchia al femminile
E' una questione filosofica enorme e non sono sicura di volerla affrontare daccapo. Vi sono parecchie prove fondate del fatto che il modo delle donne di condurre le cose (nella loro sfera di potere solitamente limitata) sia ben diverso dal modo tipico degli uomini (i quali, di solito, iniziano col riservarsi quasi interamente il potere). Il fatto stesso che le donne generalmente accettino questo stato di cose è significativo. Le donne, di norma, sembrano non desiderare il tipo di potere che gli uomini vogliono con tanta determinazione. Alle donne sembra non importare un bel nulla chi è il re e chi è il capo e così via, fintanto che possono gestire la propria vita – che necessariamente tende a incentrarsi sulla famiglia, la quale, naturalmente, nella maggior parte delle società non si riduce a una coppia, ma è un gruppo più esteso, una tribù o un villaggio. E in quest’ambito, il modo preferito dalle donne di mantenere l’ordine non è con la forza, ma con la persuasione, attraverso l’utilizzo di premi e della riprovazione – strumenti di natura sociale piuttosto che la forza bruta. E tendono a ricercare il consenso, piuttosto che a voler imporre la propria personale volontà.
Non saprei dire quanto questo modo di governare senza autorità centrale sia davvero connesso al genere – penso che nessuno lo sappia. Potrebbe non essere affatto tipicamente femminile. Potrebbe semplicemente essere l’eccessivo "machismo" della nostra società a vedere tutto ciò come femminile. Il governare attraverso il consenso, senza un capo, era piuttosto comune tra le popolazioni dei nativi americani. Gli europei invasori – tutti uomini, naturalmente – non riuscivano assolutamente a capirlo; dissero agli indiani, dovete avere un Grande Capo; non può esistere una società senza un Uomo al Vertice! Così gli indiani furono costretti a tirar fuori un qualche vecchio dei loro che era capo guerriero o maestro di danza o che aveva qualche carica, e con questi i bianchi fecero un accordo, per poi infrangerlo. Lo statuto delle donne era molto diverso a seconda dei popoli nativi; in alcune società le donne avevano l’autorità ultima, e nominavano i capi; in altre – particolarmente tra i popoli guerrieri molto ammirati dai bianchi – le donne erano trattate da serve e da beni di scambio. E tuttavia, perfino queste società erano governate per consenso e non per decreto imposto dall’alto. Attraverso la consuetudine e non attraverso la forza.
Mangiare il brodo con le mani
Tecnologia significa uso di strumenti. La tecnologia e il linguaggio sono ciò che ci ha diversificati da qualunque altro essere sulla terra. Chiunque pensi che la tecnologia è irrilevante dovrebbe provare a mangiare brodo di pollo con le mani.
Torino, Piazza Statuto 7 luglio 1962
Rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Torino, 5 luglio: gli operai della città della Fiat si preparano allo sciopero di categoria indetto per il 7-8-9 di quel mese da Fiom, Fim, Uil; si prevede una partecipazione alta, soprattutto per l’adesione allo sciopero della Uil che alla Fiat conta sul 63% degli operai iscritti a qualche sindacato. Tra il 5 e il 6 luglio i dirigenti Fiat e quelli della Uil e del Sida (un sindacato giallo) si accordano per un aumento salariale tanto che La Stampa, il quotidiano degli Agnelli-Fiat, il 6 luglio potrà titolare: Uil e Sida si accordano con la Fiat e invitano gli operai a non scioperare. L'indomani mattina lo sciopero è totale. Non solo totale, ma anche duro. I crumiri che vogliono lavorare devono superare minacce, ingiurie e botte. Le macchine dei dirigenti che tentano di entrare vengono prese a sassate. I lavoratori, soprattutto quelli iscritti alla Uil, sono sbigottiti e furiosi per come quattro burocrati sindacali siano riusciti a rendere nulle, per pochi spiccioli, le ben più importanti richieste di diminuzione dei ritmi, orario di lavoro, norme disciplinari. Un tradimento.
Al pomeriggio, verso le 14.30-15, tre, quattrocento operai in gran parte iscritti alla Uil, ma anche a Cisl e Cgil, sono assembrati davanti alla sede della Uil in piazza Statuto: urlano, fischiano. Un centinaio di agenti con le jeep e due auto-idranti presidiano la sede del sindacato socialdemocratico. La tensione aumenta rapidamente; in un bar vicino, due sindacalisti Uil, riconosciuti, vengono picchiati; sono messi in salvo a fatica; volano le prime pietre contro le finestre del sindacato. Il numero di dimostranti aumenta, così la tensione e gli scontri. Inizia una vera e propria battaglia che si protrarrà senza momenti di sosta fino alle 4 di mattina del giorno dopo. Tra le 21,30 e le 23 c'è abbastanza calma e la polizia ne approfitta per far evacuare i dirigenti Uil dalla sede in cui sono asserragliati da ormai otto ore; travestiti da dimostranti: ognuno su di una camionetta in mezzo a tre poliziotti a forte velocità verso la "centrale".
La domenica alle 11 piazza Statuto è affollata da centinaia di operai, qualche tensione, ma sostanzialmente la situazione è più calma. Come la notte che scorre tranquilla, con la piazza presidiata da un enorme schieramento di polizia e carabinieri arrivati dal Veneto, dall'Emilia e dalle altre province piemontesi, anche in vista dello sciopero di lunedì.
L'indomani, però, davanti ai cancelli delle fabbriche, di operai ce ne sono ben pochi; solo polizia carabinieri e sindacalisti di professione. Le direzioni di tutte le aziende, sull'esempio della Fiat, hanno invitato i lavoratori a restare a casa. I sindacati non sono stati da meno: Cgil e Cisl hanno sospeso ogni tipo di manifestazione e in particolare la Uil "ha invitato tutti i lavoratori a proseguire lo sciopero restando però a casa e lasciando l'azione di picchettaggio davanti alle fabbriche ai responsabili e agli attivisti sindacali". Il bilancio complessivo dei tre giorni di scontri, come lo riporta la cronaca, è questo:
1215 fermati, 90 arrestati e rinviati a giudizio per direttissima, un centinaio i denunciati a piede libero; 169 i feriti fra le forze dell'ordine. Per quanto riguarda i dimostranti, La Stampa parla di 9 persone che sono costrette a ricorrere alle cure ospedaliere. Non dice che i feriti per le botte ricevute in fase di fermo, in Questura o nelle caserme, sono centinaia.
Finiva la rivolta di piazza Statuto, ma nulla nel movimento operaio sarà più come prima. La rivolta simultanea contro le dirigenze padronali e sindacali segnerà una svolta nella coscienza di quei giovani operai immigrati - anima e braccia di quelle giornate – che qualche anno dopo daranno vita, a partire dall’autunno 1969, a una lunga stagione di lotte autorganizzate, autonome, lontane e contrarie alle gerarchie e alle logiche sindacali.
Era il risveglio della "santa canaglia", e canaglia era un titolo onorifico, così come oggi teppismo è un titolo di disprezzo; e i combattenti oscuri di queste battaglie aperte erano esaltati e contrapposti al marciume dei crumiri e dei "lavoratori in colletto duro", così come oggi si pretenderebbe che i proletari fossero tutti in colletto duro, crumiri anche quando scioperano, per distinguersi dalla "teppa" dei veri, autentici scioperanti.
Torino proletaria, che i partiti del più sconcio tradimento si sono precipitati a battezzare "teppista" con un servilismo di fronte al quale i vecchi arnesi del riformismo diventano rispettabili, ha fatto né più né meno quello che una tradizione non imbelle insegnava: ridestatasi dal lungo sonno del paternalismo vallettiano e del costituzionalismo e
legalitarismo sindacale e politico dei partiti della convivenza pacifica, della democrazia, e imboccata la via dello sciopero, essa è balzata d'un salto – come gia negli episodi della Lancia e della Michelin – al disopra di un trentennio di pacifismo sociale, ha ridato sangue e vita al motto marxista che lo sciopero è la "scuola di guerra" del proletariato, non una festa patronale o una celebrazione patriottica.
Nessuno li aveva organizzati: appunto perciò si erano organizzati da sé. Nessuno era disposto a proteggerli: perciò si difesero. Nessuno ordinava loro di attaccare: ordinarono a se stessi di farlo. C'erano, al contrario, coloro che, come si vanta la famosa "federazione giovanile torinese del PSI descritta come... estremista", "tentavano di porre ordine invitando alla calma" mentre la polizia caricava: li picchiarono, come sempre
(Tratto da "Il programma comunista" n. 14 del 17 luglio 1962)
Ho chiamato Madonna
per farmi dare una linea
lei ha detto “Ragazzo che hai fatto,
hai passato il tuo tempo con un santo
parlando alla luna e al sole”.
Ma io non conosco la differenza tra il folle e il saggio,
indicami un fiume da seguire lontano da queste menzogne,
me la cavo da solo da tanto tempo,
mi vuoi dare una mano?
È troppo tempo che sollevo le mie ossa
non vuoi capire?
Ho chiamato il capitano
per farmi scendere a riva
perché sembrava terra di nessuno.
È forse questa la via da seguire, io dissi
stringendogli la mano
mi rispose che non aveva risposte,
non teneva lui la chiave;
io sono un uomo semplice, è tutto quello che mi ha detto,
me la cavo da solo da tanto tempo,
mi vuoi dare una mano?
Sono stato fuori al freddo troppo a lungo,
non vuoi capire?
Ho sentito piangere mia madre,
ripeteva il mio nome
sussurri nella notte oscura,
dicendo la colpa di chi è!
La clessidra continua a girare
non c’è abbastanza sabbia da vedere
io sono un santo
quindi lasciami in pace.
È troppo tempo che me la cavo da solo
mi vuoi dare una mano?
È troppo tempo che raccolgo le mie ossa
non vuoi capire?
È tanto tempo che sono solo
mi vuoi dare una mano?
È troppo tempo che sono fuori al freddo
non vuoi capire?
Fin dall'inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, Bookchin introduce ne dibattito della New Left un nuovo concetto, ritenuto fondamentale per un pensiero che si dichiara rivoluzionario: l'ecologia. Prima di questo momento l'ecologia era sub-disciplina della biologia, relativamente giovane, un pensiero che trovava il suo fondamento nello studio della vita sulla Terra. Per Bookchin è invece arrivato il tempo di riconoscere che l'ecologia ha delle fondamentali implicazioni rivoluzionarie, poiché è divenuto indispensabile occuparsi in modo relativamente nuovo del rapporto tra uomo e natura. E' sempre più evidente, infatti, l'impossibilità, di tutelare l'armonia tra uomo e ambiente senza creare una comunità umana capace di vivere in equilibrio costante con l'ambiente naturale. L'ecologia della libertà è l'opera più importante di un pensatore all'apice del suo ragionamento, un'opera che articola un progetto di società nuova partendo dalla nascita della vita, dal transito dall'inorganico all'organico, per giungere ai grandi orizzonti di una società ecologica. Per trovare un possibile rimedio al disastro ecologico contemporaneo è indispensabile individuare le origine della gerarchia e del dominio:
"Il fatto che la gerarchia in tutte le sue forme - dominio dell'anziano sul giovane, dell'uomo sulla donna, dell'uomo sull'uomo in forma di subordinazione di classe, di casta, di etnia o di una qualsiasi delle altre stratificazioni di status sociale - non sia stata identificata come un ambito di dominio assai più ampio del solo dominio di classe è stata una delle carenze cruciali del pensiero radicale. Nessuna liberazione sarà mai completa, nessun tentativo di creare una armonia tra gli esseri umani e tra l'umanità e la natura potrà avere mai successo, finché non saranno state sradicate tutte le gerarchie e non solo le classi, tutte le forme di dominio e non solo lo sfruttamento economico."
Reggio Emilia, 6 luglio 1960
In solidarietà a quanto successo a Genova e a Licata, la sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione, proclamò lo sciopero cittadino. La prefettura proibì gli assembramenti e le stesse auto del sindacato invitarono con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare durante la manifestazione. Ma, l’unico spazio consentito, la Sala Verdi che aveva una capienza di 600 posti, era troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti. Un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decise quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. In quel periodo gli assembramenti nei luoghi pubblici erano vietati.
“Lo sciopero è riuscito imponente in tutta la provincia” annuncia poco dopo le 16,30 ai cittadini radunati in piazza della Libertà un’auto della Camera del Lavoro. Ora non mancano che pochi minuti al comizio che deve coronare la grande manifestazione popolare (e che è stato autorizzato). Ma nessuno potrà mai ascoltare quel comizio: prima ancora che gli oratori prendano posto sul palco, comincia, infatti, l’inferno.
In poco tempo scoppia il caos. Arrivano decine di camionette, si attivano gli idranti, partono i lacrimogeni. Insieme a quelli anche colpi di mitra, di fucile, e di pistola sparati ad altezza uomo.
Alle 16.45 del pomeriggio una carica di un reparto di 350 poliziotti al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico, investe la manifestazione pacifica. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dai getti d’acqua e dai lacrimogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, per poi barricarsi letteralmente dietro ogni sorta di oggetto trovato, seggiole, assi di legno, tavoli del bar e rispondendo alle cariche con lancio di oggetti. Respinte dalla disperata resistenza dei manifestanti, le forze dell’ordine impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare. "Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l'isolato San Rocco.
Vidi un poliziotto scendere dall'autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d'uomo". In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli, l'operaio di 35 anni si trova isolato al centro di piazza della Libertà ed è lì che l'agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s'inginocchia, prende la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: "Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia".
«Stavamo tentando di uscire dalla piazza – ricorda l’ex comandante partigiano Lino Alvarez “Sbrigoli” – per imboccare via Andreoli, quando un gruppo di una trentina di poliziotti, al comando del commissario Caffari, ci sbarrò la strada sparandoci addosso senza pietà. Tentammo di costruire una barricata con quanto ci capitava sotto mano, sedie, tavolini, assi, mentre i mitra dei poliziotti continuavano a crepitare come in una battaglia. Sparavano dalle finestre della Posta e della Banca d’Italia, e ho visto distintamente il commissario Caffari indicare ai poliziotti dove dovevano mirare. Vicino a me un giovane s’è accasciato esanime, falciato da una raffica al petto. Altri – ed io tra essi – sono rimasti feriti».
Sul selciato della piazza caddero oltre a Tondelli, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri e Emilio Reverberi.
Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola e una guardia di PS dichiarò di aver perduto 7 colpi di pistola.
Sedici furono i feriti “ufficiali”, ovvero quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita, ma molti preferirono curarsi “clandestinamente”, allo scopo di non farsi identificare.
Qualcuno definì questi gravissimi fatti i “moti del luglio 1960”: il sacrificio dei cittadini democratici che vi persero la vita, o che vi rimasero feriti, contribuì in maniera decisiva a far fallire un tentativo d’involuzione autoritaria che avrebbe mutato profondamente la storia del nostro Paese.
la prossima volta che lui
ti fa notare la
ricrescita dei peli
delle tue gambe ricorda
al ragazzo che il tuo corpo
non è casa sua
lui è un ospite
avvisalo di non
rendersi
malaccetto
mai più
L'Occidente, la nostra civiltà, ormai si è sposato con la morte, oggi è un moribondo che uccide e la sua agonia sarà terribile - guerra sociale e guerra culturale. Tutte le civiltà sono strutture storiche, contingenti, con un principio e una fine. Nascono un giorno e muoiono un altro. Il capitalismo occidentale non farà eccezione. La decadenza di una civiltà di solita è accompagnata da turbolenze, drammi, conflitti. All'Occidente sta succedendo la stessa cosa.
I segnali della crisi del Capitalismo, della sua vecchiaia irreversibile sono clamorosi: la cosiddetta "cancellazione delle ideologia", una verità parziale e l'ascesa di uno scetticismo menomato, di un pragmatismo a-teorico con quel che comporta in termini di rinuncia al pensiero (non-pensiero), di prostrazione dell'immaginazione critica e dell'impulso creativo; l'esaurimento di tutte le arti e l'anemia della produzione culturale; l'astensionismo politico e un discredito della dinamica elettorale difficile da nascondere; l'invasione della povertà; la certezza di un collasso ecologico che può essere solo posticipato; eccetera. Negando l'evidenza di questa crisi, si direbbe che i pensatori ex-contestatori facciano propria, realmente, una prospettiva di fine della storia, come se la nostra civiltà fosse stata premiata con l'onorificenza dell'eternità e il nostro Sistema costituisse la realizzazione perfetta della Ragione, la meta verso cui, con ostinazione, si incammina l'Umanità; come se non sopravvivesse da nessuna parte il seme di una alternativa (anche se ciò fosse vero, non si potrebbe ricavarne un certificato di buona salute del capitalismo: le culture iniziano a morire prima che venga rivelato il volto del loro erede, prima che si profilino i contorni delle civiltà che le sostituiranno), come ci rimanesse solo un compito, un esercizio plausibile, una dedizione rispettosa: prenderci cura dell'esistente, ripararlo, aggiustarlo, universalizzarlo. Commettono, dunque, lo stesso errore in cui incappò il Comunismo: immaginare di aver già attraversato la soglia del Paradiso e che finalmente sia giunta l'ora di abilitarlo e difenderlo; sognare che la storia, avendo dato il suo frutto (il liberalismo globalizzato), la smetta di procuraci dei fastidi, di darci degli scossoni.
Probabilmente stiamo arrivando davvero alla Fine; ma non alla "fine della storia", quanto ai rantoli di una civiltà incredibilmente presuntuosa, pateticamente innamorata di sé.
Genova, 1960
L'autorizzazione data ai fascisti di tenere il loro congresso a Genova fu sia un ringraziamento del governo Tambroni per l'appoggio esterno del MSI sia un tentativo per misurare la temperatura del paese poiché Genova era una delle città più rosse d'Italia, dove le lotte avevano spesso superato le indicazioni sindacali e poter quindi dimostrare la possibilità di un'apertura all'estrema destra fascista senza timori di una reazione popolare.
Il 25 giugno studenti, giovani, impiegati organizzarono una protesta contro la convocazione del congresso neo-fascista fissato per il 2 luglio, a loro si uniranno i portuali e gli operai. Dopo questa protesta fatta al di fuori di partiti e sindacati, nasce una vera unione tra operai e studenti che capiscono le carenze delle organizzazioni della sinistra, che si limitavano a riprendere slogan antifascisti e a votare mozioni per impedire lo svolgimento del congresso. Il 30 giugno viene organizzato dai partiti della sinistra, uno sciopero a Genova e a Savona, sicuri di poter gestire la piazza in modo tranquillo. Intanto i cosiddetti "provocatori" si riuniscono: sono anarco-sindacalisti, ex-partigiani, comunisti dissidenti e gruppi di studenti, l'elemento nuovo e che giovani e lavoratori sono coinvolti in un'azione comune.
La manifestazione si svolge senza incidenti, ma l’inferno si scatena quando il corteo si sta disperdendo. La Celere infastidita dai fischi e dai canti partigiani, attacca la folla prima con un getto di acqua colorata a mezzo di autobotti, poi con lacrimogeni e caroselli verso gli operai seduti a riposare sulla fontana in Piazza de Ferrari. Dalle jeep calano le prime manganellate sulla testa dei manifestanti.
Ad animare la riscossa dei lavoratori sono i portuali, i “camalli” che scendono in piazza con i ganci da lavoro e con le magliette a strisce che rimarranno fra i simboli di quelle giornate. Decine di migliaia di persone rispondono con pietre, bottiglie, tavole e sedie dei bar, sedie delle case, assi di legno dei cantieri edili, in scontri che si frazionano per tutto il centro. Colpi d'arma da fuoco partono dai celerini e un giovane rimane ferito. Epicentro degli scontri sono Piazza De Ferrari, Via Petrarca, Piazza Matteotti, Piazza Dante, sottoporta Soprana, Via Ravecca e Via Fieschi. La battaglia esplose violenta quasi subito: da un lato una popolazione scesa in strada col sangue agli occhi, dall'altro la Polizia alla quale erano stati impartiti ordini estremamente precisi in termini di repressione. In Piazza De Ferrari una camionetta, che non riesce a fendere la folla, viene bloccata e bruciata, un contingente del Reparto Celere di Padova agli ordini del capitano Ludei fu disarmato e isolato da centinaia di manifestanti. L'ufficiale venne quasi annegato nella fontana della piazza mentre i suoi uomini furono percossi e feriti anche con l'uso delle famigerate “refie”, quei grossi uncini metallici usati per scaricare le stive delle navi. Più di cento agenti rimangono feriti o contusi e feriti anche una sessantina di dimostranti. Così il 30 giugno i lavoratori genovesi rimangono padroni delle strade, mentre carabinieri e Celere sono obbligati a ripiegare a presidio degli uffici pubblici.
Ma tutta Genova nella notte tra l'1 e il 2 luglio scende ancora una volta nella lotta di strada in un clima pre-insurrezionale: venti trattori agricoli, alla testa di una colonna proveniente da Portoria, avanzano per abbattere gli sbarramenti di filo spinato con cui la polizia aveva isolato Piazza De Ferrari e via XX Settembre. Nei quartieri del porto nella notte di vigilia si erano confezionate centinaia di bombe molotov; nella cinta industriale intorno alla città si erano ricostituite le vecchie formazioni partigiane armate pronte a scendere in città; nei quartieri del Porto, di Via Madre di Dio, di Porta S. Andrea si erano costruite barricate alte due metri di pietre e legname. E' a questo punto, all'alba del giorno 2 luglio, che il governo comprende di avere perso la partita e, per evitare rotture gravi, revoca alle ore 6 del mattino al MSI, il permesso di tenere il Congresso, mentre ottiene dai partiti di «sinistra» e dai sindacati la garanzia del mantenimento dell'ordine! Nelle lotte di quei giorni vennero arrestati 98 lavoratori genovesi: di questi 23 saranno ancora detenuti il 19 agosto 1960, quando verrà celebrato il processo che irrorerà molti anni di reclusione. Il risultato di quelle giornate di lotta sfociate poi in tutta l'Italia sancì la caduta del governo Tambroni appoggiato dai voti fascisti e la sua sostituzione con il governo Fanfani leader dell'ala sinistra della DC.
La vera novità di queste lotte e che nelle giornate di Luglio, ha fatto la sua comparsa nel nostro paese, una forza nuova che sorprese sia la borghesia sia i partiti di sinistra: la massa giovanile operaia e studentesca. E' verso questo settore della protesta che si orientarono i gruppi che si erano staccati dai tradizionali partiti della sinistra e che volevano diffondere una concezione realmente classista della lotta politica.
Siamo nel 1847. La Guerra tra Stati Uniti e Messico è finita da poco, con la vittoria degli americani, che si sono assicurati il controllo del Texas e di vasti territori in Colorado, California, Nevada, Utah e Wyoming. Un esiguo numero di soldati statunitensi sorveglia un fortino tra le nevi della Sierra Nevada, non lontano dall’ex frontiera, ma al contempo distanti praticamente da ogni cosa. L’avamposto si chiama Fort Spencer e della guarnigione fa parte anche il capitano John Boyd, medaglia al valore conquistata sul campo, ma solo per caso. In realtà l’ufficiale è un codardo e quel trasferimento in un avamposto sperduto è il modo in cui i suoi superiori lo hanno isolato dal mondo civile.
L’elemento estraniante arriva attraverso un uomo sopravvissuto ai rigori dell’inverno. Un “servo del signore”, come si definisce con trasporto. Dice di chiamarsi Colquhoun e di essersi perso tra le nevi tre mesi prima, insieme ad alcuni compagni, costretti poi al cannibalismo per sopravvivere. Colquhoun spinge Boyd a organizzare una spedizione per salvare gli unici due membri superstiti del suo gruppo, in particolare una donna che a suo dire rischia di essere mangiata dal suo compagno di sventura, un militare dal grado di colonnello, Ives, colui che comandava la carovana, nonché il primo ad aver spinto tutti verso l’antropofagia. Una volta nei boschi l’uomo rivela però la sua vera natura di cannibale: Colquhoun e Ives sono in realtà la stessa persona. L’uomo ha già ucciso i suoi cinque amici, nutrendosi dei loro corpi, e ora ha intenzione di fare lo stesso coi soldati di Fort Spencer. Solo Boyd riesce avventurosamente a salvarsi, rompendosi però una gamba durante la fuga. Sopravvivendo a stento, dopo giorni riesce a tornare all’avamposto, solo per scoprire che Colquhoun/Ives, ripulito e rivestito della sua vecchia uniforme, è ora ospite del forte. Il suo obiettivo è uno soltanto: continuare a nutrirsi di carne umana. Non solo per una deviazione mentale, bensì perché a suo dire la dieta antropofaga è in grado di preservare il fisico, di curare le malattie e di aumentare la forza di chi la segue. A quanto pare Ives ha però anche un piano più elaborato: diffondere la sua pratica mistico-cannibalista negli alti ranghi dell’Esercito…
L'insaziabile è un piatto forte, che mescola sapori, generi e toni narrativi incluse molte scene vivamente sconsigliabili agli stomaci delicati. A conti fatti, però, si rivela piuttosto roba per palati fini: serrato nell'azione, preciso nelle ellissi narrative, capace di accelerare e rallentare il racconto nei momenti giusti. Il gusto europeo della regista viene fuori nel realismo dei dettagli, a cominciare da ambienti e corpi visibilmente sporchi come un film americano non ci darebbe mai.
L’interpretazione stessa del cannibalismo è singolare, legata a pratiche sciamaniche antiche e occulte, che in un certo senso si ricollegano alla tradizione del Wendigo, lo spirito mangiatore di uomini del folklore algonchino. Un demone che si dice sia figlio dell’inverno e della fame.
Antonia Bird è una regista che ama fare film scomodi e irregolari. L'insaziabile, dove Antonia dirige di nuovo il suo attore-feticcio Robert Carlyle, è uno strano racconto dell'orrore situato in un contesto western; ma un horror intelligente e complesso, originale, che fa affidamento sull'intelligenza dello spettatore giocando alternativamente tra humor nero e truculenze gore; all’interno del film abbiamo un paio di letture allegoriche che il sottotesto ci suggerisce: la più esplicita usa il cannibalismo come metafora del capitalismo, dei soldi e del potere, nonché di Hollywood (non a caso la collocazione geografica della guarnigione è la California), dove tutti sono belli e affascinanti ma non pensano che a mangiarsi l'un l'altro. La seconda riguarda la droga (l'effetto dell'antropofagia è descritto dal personaggio di Carlyle allo stesso modo di una sostanza stupefacente) e dipinge gli junkies come esseri diabolici degni di essere sterminati.
Antonia Bird è vegetariana, e si capisce dal film. Mangiare e sopravvivere o mantenere dignità umana e morire? Perché in fondo: “Tu sei quello che mangi.”
La trasgressione dei confini esistenti e la contestazione degli stessi possono ispirare una nuova forma di cittadinanza, che permetta la coabitazione di diversi, che consenta alle singolarità di fare comunità senza rivendicare un'identità, a alle persone di coappartenere senza una rappresentabile condizione di appartenenza.
Così come i mondi, anche i nostri luoghi di enunciazione interiore hanno le proprie geografie. Le trans-culture non temono nessuna geografia. La ricerca dei continenti inesplorati deve portare fino alla vertigine in cui ribolle la materialità e l'immaterialità della vita, come ci hanno insegnato i surrealisti. Ci deve essere una biologia per scatenare le forze degli esseri, e le relazioni tra loro, senza usare le inservibili pratiche della vecchia politica, così come c'è, nella medicina cinese, una tecnica per guarire parti del corpo, toccando punti sull'estensione del corpo stesso, lontano dalle parti da curare.