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giovedì 22 febbraio 2018

Il ’68… La Tesi della Sapienza (Capitolo VIII)

Riportiamo i primi due capitoletti A e B della TESI DELLA SAPIENZA
A. Le tesi
1. Queste tesi vengono proposte alle assemblee delle facoltà dai delegati riunitisi a Pisa su mandato della base allo scopo di precisare le direttive del movimento studentesco.
2. L’elaborazione è stata compiuta nella Sapienza di Pisa occupata e, successivamente all’intervento della polizia chiamata dal rettore contro i delegati, negli istituti delle facoltà occupate.
3. I lavori si sono svolti in una sede universitaria occupata perché è un diritto della base che la sua rappresentanza stia a lavorare nel luogo che più di ogni altro appartiene agli studenti. Il lavoro teorico, inoltre, non ha senso se non è verificato in pratica, e la pratica in questo caso è la lotta contro tutto ciò che costituisce l’attuale sistema universitario, e che si esprime principalmente nel piano Gui e nelle leggi di recente approvate.
4. L’elaborazione di queste tesi è stata compiuta mentre con l’occupazione della Sapienza si protestava contro la conferenza dei rettori, riunita a Pisa. 
5. L’aspetto principale dell’occupazione della Sapienza non è la protesta, e sarebbe errato considerare un punto d’arrivo il successo propagandistico ottenuto per l’intervento della polizia. L’aspetto principale sono le tesi, e la verifica della giustezza di ciò che si è fatto a Pisa può venire solo dalla discussione della base sulle tesi.
6. Le occupazioni di sedi universitarie vanno istituzionalizzate, e ciò potrà essere fatto in futuro anche prescindendo da motivi contingenti di protesta. Le ragioni di tale istituzionalizzazione sono le seguenti:
a. l’università appartiene alla base universitaria1, e questo possesso va affermato contro le strutture esistenti che lo negano;
b. la base e la sua rappresentanza devono studiare e discutere sempre la situazione e la linea di condotta, e la sede di questo lavoro è l’università;
c. entro l’università, occorre esperimentare quei tipi di insegnamento e di ricerca fondati sul lavoro di gruppo, che le strutture esistenti impediscono e che la base ritiene indispensabili.
7. È attività essenziale del movimento la demolizione sistematica delle tesi della controparte, e la dimostrazione pratica e teorica di una razionalità superiore. 
B. Stato attuale del movimento
8. Il movimento sono le assemblee e gli studenti che contribuiscono al dibattito e all’azione pratica promossa dalle assemblee.
9. Tutti quegli studenti che non si confrontano con la teoria e la pratica del movimento sono estranei ad esso. Il movimento, peraltro, tiene conto della lotta di classe contro il sistema capitalistico nella sua totalità, e ricerca l’unita con tutte le forze che lo contestano in pratica.
10. Il movimento è maturato positivamente negli ultimi due anni, che hanno visto una progressiva presa di coscienza delle assemblee, culminata per ora nel presente momento di lotte.
11. Il movimento tocca anche strati del mondo studentesco medio. Questo discorso vale per le significative lotte in cui gli studenti medi sono stati di recente impegnati, e per la prospettiva futura. Infatti lo sviluppo capitalistico assorbe sempre più forza lavoro qualificata non solo dall’università, ma anche dalla scuola media. Questa situazione rende vana una distinzione in prospettiva tra movimento studentesco universitario e medio, e propone nuove forme di unità.
12. La maturazione del movimento progredisce in stretta relazione alla crisi ed allo svuotamento delle istanze parlamentari tradizionali del movimento studentesco.
13. L’UNURI è in uno stato di crisi non sanabile, non tanto per quello che fa o non fa come organismo parlamentare, quanto per l’inesistenza di qualsiasi rapporto con la base.
14. La situazione dell’UNURI riflette quella di tutti gli OO.RR. e deriva da un vizio di origine: si tratta di un organismo di vertice e per questo manca qualsiasi tipo di analisi delle trasformazioni che avvengono nel mondo universitario, nonché dei vari nessi che collegano i diversi strati della base alle componenti del mondo della produzione.
15. Le diverse forze politiche del mondo universitario, e in particolare l’UGI, che ha sempre espresso le posizioni più avanzate in seno agli OO.RR. e all’UNURI, non sono da respingersi pregiudizialmente come strumenti, ma si condannano da sé all’inutilizzabilità non appena rinchiudono la propria azione nell’ambito dell’UNURI e dei rapporti di vertice con i partiti ed i sindacati.
16. Il movimento respinge la strumentalizzazione a fini di vertice da parte di qualsiasi partito. I tentativi di strumentalizzazione si riconoscono immediatamente, perché si traducono invariabilmente in pratica come azioni di freno alle lotte.
17. Il movimento è nato da un processo di maturazione politica piuttosto che da spontaneità sindacale. Le attuali lotte ricercano la propria verifica in una ulteriore maturazione ed ampliamento del consenso, per cui è necessario un dibattito molto aperto ed un lavoro molto assiduo da tutti gli studenti nelle assemblee.
18. La base non presenta tutta lo stesso livello di combattività e la maturazione di questo periodo è lontana dall’avere raggiunto tutte le assemblee delle facoltà. Questo fatto si spiega, perché gli studenti non sono una classe dotata di omogeneità, ma sono una categoria le cui componenti economico-sociali sono molto numerose. La scarsa
omogeneità economico-sociale degli studenti è da collegarsi con la struttura e i metodi di insegnamento delle diverse facoltà, e con il condizionamento imposto dalla scelta di determinate carriere.
19. È possibile rafforzare il movimento estendendolo a facoltà che ancora gli rimangono estranee. Dato che lo sviluppo capitalistico è un elemento oggettivamente unificante gli strumenti per ottenere questo rafforzamento sono l’analisi di tale sviluppo, la proposta e l’esempio pratico del lavoro di gruppo, e la radicalizzazione delle lotte.

Georges Etiévant anarchico

Nato l'8 giugno 1865 a Parigi Intorno al 1890 inizia a frequentare circoli anarchici come il Circle International di Horel e, nel 1891 è stato condannato a 50 franchi per essere stato sorpreso con un revolver. Nel 1898 fondò un gruppo chiamato Social Studies Friendly Group d'Asnières ed è presso il locale di questo gruppo che, durante una perquisizione, la polizia ha scoperto in una stufa di ghisa cartucce di dinamite e molto denaro rubato il 15 febbraio 1892 a Soisy-sous-Etioles che collegano Etiévant a Ravachol. Accusato di occultamento, Georges Etiévant fu processato il 25 luglio 1892 alle Assise de Versailles, con Faugoux, Chevenet e Drouhet, e condannato a cinque anni di carcere. Dopo aver scontato la pena nella prigione di Clairvaux, Etiévant collaborò con il Libertaire di cui sarebbe stato nominato direttore. A seguito di un articolo intitolato "Il coniglio e il cacciatore" , pubblicato nel n. 103, fu condannato in contumacia nel dicembre del 1897 a due anni di prigione. La notte del 19 gennaio, Etiévant ha pugnalato un ufficiale di polizia della stazione di polizia di Berzélius Street e un secondo ufficiale che era venuto in aiuto del suo collega. Dopo essere stato neutralizzato e portato all'interno della stazione di polizia senza essere perquisito, ha sparato con un revolver a un altro ufficiale. I tre poliziotti sono rimasti solo leggermente feriti. Pur non uccidendo nessuno, Georges Etiévant venne condannato a morte. Successivamente la pena viene commutata ai lavori forzati per tutta la vita. Muore in carcere all'Isola di Salvezza, nella Guyana il 6 febbraio 1900.
"Nessuna idea è innata, tutte a mezzo dei sensi ci vengono dall'ambiente in cui viviamo. La facoltà di assimilarle varia a seconda degli individui, dell'intensità o della frequenza delle sensazioni provate. Ora, se ogni atto è la vibrazione di un'idea o di un gruppo di idee, come si può determinare la responsabilità di un individuo se non si possono conoscere le sensazioni che l'hanno mosso ad agire, le resistenze che egli poteva opporre? Non potendosi valutare le sensazioni che altri percepiscono o sentono, le influenze a cui gli individui non possono a meno di non cedere, il diritto che in nome della legge si arroga una categoria di individui, un ordine della società, di giudicarne di propri simili, non ha ombra di fondamento alcuno.
ogni giudizio degli uomini sugli uomini è impossibile, ogni ricompensa come ogni punizione è ingiusta, per minima che sia o per quanto grandi possano essere il beneficio ed il misfatto.
Non si possono giudicare né gli uomini né gli atti degli uomini senza un criterio adeguato, e questo criterio non v'é, e, vi fosse pure, non nelle leggi dovremmo andarlo a cercare giacché la vera giustizia sia immanente, immutabile, le leggi mutevoli e caduche. Perché delle leggi avviene quel che è di tutte le cose: se le leggi sono buone perché tanti deputati e senatori a mutarle? E se le leggi sono cattive perché tanti magistrati ad applicarle?
(Dichiarazione di Georges Etiévant alle Assise di Versailles il 27 luglio 1892)  

I cittadini e la città

Nelle città la maggior parte delle persone non riesce a vivere come vuole; l’ambiente urbano, così com’è, non permette che nascano e si sviluppino le loro personalità; è inadatto a soddisfarne i bisogni, organizzato com’è a vantaggio di qualcos’altro. L’attività di ognuno, che sia lavoro, uso del tempo libero, dormire, cucinare, studiare, eccetera, è di norma organizzata in spazi che solo in minima parte possono essere creati, modificati e gestiti da chi li abita. Gli ambienti sono concepiti in modo tale che l’abitare sia funzionale non alla vita di ciascuno, ma agli interessi di persone estranee ad essa. Così la scuola è costruita primariamente per educare alla disciplina, la fabbrica o l’ufficio per creare profitto, i condomini per spezzare la socialità, il cubo in cui viviamo per ammansirci; difficilmente possono essere modificati.
Se si vuole cambiare qualche cosa nella propria casa si deve chiede il permesso a qualche autorità.
Regolamenti edilizi e burocrazie di ogni genere hanno criminalizzato ogni intervento creativo all’esterno, ma anche all’interno delle abitazioni.
Nell’intimo delle mura domestiche la possibilità di gestire lo spazio si limita a poche cose, per lo più intese a isolare all’interno delle quattro mura le persone che ci abitano.
L’unico ambito in cui si ha il permesso di organizzare la propria casa è confinato alla disposizione dei mobili, alla tinteggiatura delle pareti: tutto il resto è precluso, dove si abita e come si abita sono sotto stretto controllo.
Per cambiare tutto ciò, l’individuo deve evolversi, liberarsi dalla delega, diventare cittadino a tutti gli effetti fino a trovare il proprio posto e mettere le radici. Questo cambiamento spetta a coloro che nel territorio vivono, non a coloro che ci investono, e l’unico ambito in cui ciò è possibile è quello offerto dall’autogestione territoriale generalizzata, cioè la gestione del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie. La città deve generare un’aria che renda liberi gli abitanti che la respirano.

giovedì 15 febbraio 2018

Il ’68… Pisa il 10 e l’11 febbraio 1967 (capitolo VII)

L'occupazione della sede universitaria della Sapienza di Pisa era infatti immediatamente successiva ad un'agitazione sindacale nazionale lanciata da tutte le associazioni di categoria dei docenti, degli assistenti e degli studenti universitari, e si inseriva nel quadro delle primissime proteste pubbliche suscitate dal progetto di riforma universitaria elaborato dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui, il famigerato disegno di legge n. 2314. (che rivedeva gli assetti universitari proponendo l’istituzione dei dipartimenti, prevedendo tre livelli di titoli di studio differenti per durata, contenuti e prospettive professionali il diploma universitario, la laurea e il dottorato di ricerca, facendo profilare – secondo i critici – un tendenziale aumento delle tasse universitarie).
Lo sciopero è stato proclamato fino al 4 febbraio dai professori di ruolo aderenti all'ANPUR, fino al 10 febbraio dai professori incaricati e dagli assistenti dell'ANPUI e dell'UNAU, e fino al 7 dall'organizzazione degli studenti (UNURI). Occupare voleva dire: siamo noi, l’assemblea a decidere come e che cosa funziona d’ora in poi. L’occupazione aveva i suoi rituali iniziatici. Uno striscione, per prima cosa, veniva messo fuori dal portone. Spuntava anche sempre una bandiera rossa almeno nelle facoltà di Lettere e Fisica. L’assemblea eleggeva un suo comitato esecutivo, un gruppetto di non più di quattro o cinque persone e nello stesso modo la direzione politica e le persone addette all’organizzazione. Poi si procedeva al suggello fisico degli istituti per evitare danni e furti, ai turni di presenza, ai picchetti dell’ingresso, col compito non solo di sorvegliare ma di spiegare a tutti quelli che venivano a curiosare gli obiettivi della lotta.
Gli avversari del nascente movimento studentesco, l’organizzazione rappresentativa ORIUP in testa, provarono a dare voce alla maggioranza silenziosa che – a loro giudizio – dissentiva con la «manovra estremista» in corso. Il corteo del successivo 10 febbraio, al quale partecipò un migliaio di giovani, si concluse con un furioso «assedio» alla storica sede dell’Ateneo da parte di alcune decine di essi, presumibilmente guidato da esponenti neofascisti del Fuan, pronti ad approfittare dell’insofferenza dei convenuti. «La manifestazione ha rischiato di degenerare – riferiva “Il Telegrafo” – poiché per due volte i dimostranti avevano tentato di abbattere la porta dell’edificio, utilizzando prima “un carretto” e poi “un grosso palo”». Gli assalti, però, vennero respinti. L’occupazione viveva in realtà, in una vera e propria assemblea permanente, in esperimenti di didattica alternativa, lo scambio con gli studenti provenienti da altre facoltà e altre sedi. Studenti addetti all’approvvigionamento di cibo di ogni genere, sacchi a pelo per chi decideva di dormire la notte. In realtà l’idea iniziale partorita negli incontri alla Casa dello Studente, l’occupazione della Sapienza doveva essere di stampo tradizionale, una riunione di lavoro di riflessione sull’università, e doveva produrre un controprogetto di riforma da opporre al disegno di legge del ministro Gui, doveva essere un’analisi sulla figura sociale dello studente, un ipotesi di rapporto tra ricerca e didattica. Ma si trasformo in un quarantotto, anzi in un evento sessantottino, con alcuni ragazzi che rimasero tutta la notte, chi dormendo per terra nei sacchi a pelo, o avvolti nelle coperte arrivate chissà da dove; tutti ad aspettare la polizia.
La polizia arriva, alle cinque del mattino, e  sgombera di forza con schedature, fotografie e perquisizioni ( la polizia ne avrebbe poi schedati settantadue, tra i quali quattordici donne). Si rompeva clamorosamente, una tradizione secolare, che voleva le forze dell’ordine fuori dalle università. 
Il rettore dell’Università di Pisa, Alessandro Faedo, aveva autorizzato l’intervento degli agenti perché evidentemente non riteneva tollerabile la coesistenza delle due “riunioni”. Non si trattò certo di una decisione presa a cuor leggero: per l’Ateneo pisano fu il primo intervento delle forze dell’ordine nella storia della repubblica e la notizia creò un diffuso disagio anche tra coloro che non simpatizzavano con la minoranza «estremista».
Durante l’occupazione viene elaborato il testo: Progetto di tesi del sindacato studentesco, conosciuto anche come Le Tesi della Sapienza.









La millecento di Rino Gaetano

Hai finito il tuo lavoro 
hai tolto trucioli dalla scocca 
è il tuo lavoro di catena 
che curva a poco a poco la tua schiena 
neanche un minuto per ogni auto 
la catena è assai veloce 
e il lavoro ti ha condotto 
a odiare la 128 
Ma alla fine settimana 
il riposo ci fa bene 
noi andremo senza pensieri 
dagli amici a Moncalieri 
. . . la millecento,la millecento . . . 
Hai lasciato la catena 
un bicchiere di vino buono 
ti ridà tutto il calore 
trovi la tua donna e fai l'amore 
sei già pronto per partire 
spegni tutte le luci di casa 
metti il tuo abito migliore e pulito 
lasci al gatto la carne per tre giorni 
e insieme a una Torino abbandonata 
trovi la tua macchina bruciata 
. . . la millecento,la millecento,la millecento . . . 

Pietro Gori il cavaliere dell’ideale

Nato a Messina nel 1865 da genitori toscani e laureatosi a Pisa in giurisprudenza, ben presto inizia la propria attività di propagandista del pensiero anarchico, spesso affiancata da quella di avvocato negli innumerevoli processi che vedono altri anarchici sul banco degli accusati. Il primo arresto, con condanna a un anno di carcere, è del 1890 e successivamente le numerose sentenze a suo carico (tutte comminate per reati d’opinione) lo porteranno ad affrontare più e più volte l’esilio, ora nel nord dell’Europa, ora nelle Americhe. Nel 1891 è al congresso anarchico di Capolago, dove vengono gettate le basi del partito socialista anarchico rivoluzionario, e nel 1892 partecipa a Genova ai lavori del Congresso che vede riunite le Società Operaie di tutta Italia, dove, con la nascita del partito socialista italiano, si consuma definitivamente la separazione fra le due scuole del socialismo, quella anarchica rivoluzionaria e antiparlamentare e quella socialdemocratica, riformista e parlamentare. Costretto nel 1894 ad abbandonare l’Italia, ripara dapprima in Svizzera (quando il governo elvetico lo espellerà su pressioni dello stato italiano compone la famosissima Addio a Lugano) poi in Belgio e Olanda e infine a Londra, dove entra in contatto con il principe anarchico Kropotkin e la combattiva Louise Michel, eroina della Comune di Parigi. Da Londra passa negli Stati Uniti dove svolge, nella numerosa colonia italo-americana, una intensissima attività di pubblicista e conferenziere. È soprattutto grazie a questa sua presenza, e a quella quasi contemporanea di Malatesta, che si consolida in America fra gli immigrati italiani un forte e duraturo movimento anarchico.
Dopo una breve parentesi in patria, una nuova condanna a 12 anni di galera lo riporta all’estero, questa volta in Argentina (dove fonda l’importante rivista scientifica in spagnolo Criminalogia moderna), poi in Cile, Uruguay e Brasile. Rientrato in Italia grazie ad una amnistia, nel 1903 fonda, assieme a Luigi Fabbri la rivista Il Pensiero, che nei suoi otto anni di esistenza sarà un punto di riferimento costante e imprescindibile dell’anarchismo organizzatore. Gli ultimi anni di vita, ormai minata dalla tubercolosi, ne vedono notevolmente ridotta l’attività, ma nonostante il male che ne fiacca tragicamente le forze, cerca ancora, quando possibile, di dare il suo contributo alla causa. Un ultimo giro di conferenze in Romagna e nelle Marche, la sistemazione dei suoi numerosissimi scritti, sono gli ultimi segni del suo lavoro. Si spegne a Porto Ferraio, nell’amatissima isola d’Elba, nel gennaio del 1811.

La sua vita avventurosa e la tragica e prematura morte ne hanno a lungo accompagnato il ricordo, evidenziandone gli aspetti più romantici, quelli che ne hanno fatto “il cavaliere dell’ideale” o il “poeta dell’anarchia”, ma la sua attività sociale, ben lungi dall’essere improntata a una approssimativa divulgazione dell’idea anarchica, fu determinante per il crescere e il consolidamento fra le classi subalterne di una volontà di rivolta cosciente e di emancipazione solidale. La sintesi fra il solido pensatore, l’agitatore irrequieto e il comunicatore di straordinaria grandezza, contribuì alla nascita di un mito duraturo che appartenne, trasversalmente, non solo agli anarchici della “sua” Toscana, ma a tutti coloro che aspirarono e lottarono, col pensiero e con l’azione, per l’edificazione di una società in cui giustizia e libertà non fossero parole vuote destinate a pochi, ma i principi fondamentali della vita collettiva.

giovedì 8 febbraio 2018

Il '68 ... Torino 1967 rovente (capitolo VI)

Il 01 febbraio 1967 si tiene l'Assemblea generale degli studenti a Palazzo Campana. E' approvata la seguente mozione: "L'assemblea degli studenti in sciopero dell'Università di Torino, costatando: l'assoluta inefficienza del piano di riforma governativo in cui gli studenti continuano ad essere esclusi da ogni posizione di responsabilità nella gestione dell'Università che non viene riconosciuto da parte del Governo il diritto degli studenti a una retribuzione in quanto lavoratori intellettuali; decide: di iniziare una nuova fase più avanzata di agitazioni per bloccare l'approvazione del d.d.l. governativo; di sviluppare nelle prossime settimane una vasta azione di massa nelle Facoltà volta a contestare la struttura autoritaria dell'Università; di riunire nelle prossime settimane le assemblee di Facoltà per individuare obiettivi articolati e specifici di lotta; e nel caso che le nostre richieste non vengono accolte di programmare occupazione delle facoltà.
Il 9 febbraio 1967 occupazione di Palazzo Campana a Torino. Ore 20.50 la polizia entra a Palazzo Campana su invito del rettore. Sgombero: 81 studenti denunciati.
il 10 febbraio 1967 mattino: fallisce per l'opposizione della polizia un corteo diretto verso il rettorato. Si convoca l'assemblea all'istituto di Fisica. Occupazione. Ore 13: sgomberata Fisica, nuove denunce. Ore 16.00: assemblea generale al Politecnico con 6-700 persone presenti. Si decide di occupare l'istituto di Filologia, l'occupazione durerà fino al 12 febbraio.
Il 13 febbraio viene occupato nuovamente Palazzo Campana.
Il 16 febbraio è sospesa l'occupazione di Palazzo Campana su richiesta del rettore Allara. L'indomani, il senato accademico si dichiara non competente a trattare le questioni proposte da parte studentesca e ne rimanda l'esame ai consigli di facoltà.
Il 18 febbraio 1967: constatata l'indisponibilità da parte del senato accademico viene ripresa l'occupazione. Ore 20: su invito del senato accademico, la polizia interviene nuovamente per sgomberare Palazzo Campana. Inoltre il senato accademico delibera la serrata di Palazzo Campana, in vigore fino al 25 febbraio.
Il 27 febbraio 1967 riapre Palazzo Campana. L'assemblea generale vota la sospensione dell'occupazione a partire dalle ore 24, riservandosi di optare in futuro per ulteriori forme di lotta.
Il 10 maggio 1967 assemblea ad architettura che vota per l'occupazione. Tre giorni dopo la polizia sgombera la facoltà di Architettura. Il rettore ne ordina la chiusura "fino a quando i giovani dimostreranno di non volere altri incidenti". Riaprirà un mese dopo.
Tra il 22 e il 28 giugno 1967 incontro tra studenti docenti e consiglio di facoltà con la mediazione del dottor Floridi ispettore del ministero.
Il 23 novembre 1967 di nuovo assemblea, il 27 novembre dopo l'ultima assemblea Palazzo Campana è rioccupato.

CHI CADE di Chandra Livia Candiani

Mistero glorioso
la faccia del mondo
sotto la tessitura di nomi,
festa del sangue 
le ferite che vengono al rosso
per filare luce.
Nel cuore della notte 
(la notte ha cuore)
accerchiante buiezza
l'io è uno sbando
qualcuno che non ti pensa - 
quasi mai.
Mettiti nei tuoi panni
e comincia a danzare.

William Morris Notizie da Nessun Luogo

William Morris, socialista, anarchico, architetto e cultore della tradizione artigianale minacciata dal «progresso» della tecnologia industriale, esponente della scuola preraffaellita, creatore di comunità artistiche che avrebbero influenzato lo sviluppo delle arti e della cultura in Inghilterra, William Morris, uno dei tanti scrittori di utopie del diciannovesimo secolo, ha composto una delle più belle, e più anarchiche, descrizioni di una società futura, quello straordinario News from Nowhere che ha rappresentato, soprattutto nei paesi anglosassoni, un caposaldo e un precursore della letteratura «fantascientifica» che tanto sviluppo avrà nel ventesimo secolo.
Nato nel 1834 da agiata famiglia borghese, compiuti gli studi ad Oxford, la sua prima formazione culturale fu orientata al recupero di un «ritorno al gotico» su ragioni sociali di colore libertario, con particolare attenzione alle antiche libere associazioni corporative dei lavoratori. Sostenitore della tesi che «un’arte fatta dal popolo per il popolo è felicità per chi la crea e per chi ne usa», seppe poi coniugare questa sua aspirazione artistica, concretizzatasi nel notissimo laboratorio artigiano di arte applicata e arredamento «Arts and Crafts», con un forte impegno sociale fatto di conferenze, comizi, scritti e iniziative di agitazione a fianco delle vittime del duro sistema industriale dell’Inghilterra dell’ottocento. Nel 1885 fondò la «Lega Socialista» dal chiaro sapore anarchico e ne diresse il giornale The Commonweal, ove esprimeva appassionatamente le sue teorie sulla possibilità di una emancipazione popolare capace di attuarsi anche attraverso gli strumenti della libera arte. L’ultima sua fatica fu la creazione di un laboratorio per la stampa e la legatura a mano dei libri, che lo tenne impegnato fino alla morte, avvenuta in povertà nel 1896. 
News from Nowhere è un riassunto di ardite e originali concezioni sociali, un esercizio ideale che si inserisce nel ricco filone della letteratura utopistica sviluppatasi in Europa dopo la Rivoluzione francese, allorché la caduta della monarchia consentiva alle menti più aperte e fantasiose di immaginare società future, perfette, felici e ispirate ai principi di libertà, fraternità e uguaglianza. A differenza però di molti «colleghi», come Cabet, Bellamy, Fourier, la società che ha in mente Morris non è affatto una struttura chiusa e predeterminata, nella quale tutto è già deciso e il sistema di regole prospettato prevede un fermo controllo autoritario, ma
piuttosto una società aperta, passibile di sviluppi e progressi, nella quale nessuno esercita o può esercitare autorità, e dove la felicità e la serenità del singolo si riflettono nella felicità e nella serenità della intera comunità. Una vera utopia libertaria dunque, con aspetti magari ingenui ma dove è possibile vivere una situazione profondamente «anarchica», dove le istituzioni coercitive sono un ricordo del passato e l’unica autorità rimasta è quella nata, spontaneamente, dal lavoro liberato. Lavoro liberato che diventa creazione artistica e vita naturale, in perfetta sintonia con l’esigenza primaria dell’uomo nuovo, non più schiavo e vittima di bisogni indotti, ma capace di costruire, nell’attività fisica e intellettuale, il proprio compimento. 
La trama è quanto mai semplice. William Guest, militante
libertario, rientrato a casa dopo una accesa discussione coi compagni sulle prospettive della futura rivoluzione sociale, si trova trasportato nella Londra del XXI secolo. Qui, confuso e incuriosito, conosce il barcaiolo Dick e il vecchio bibliotecario Hammond, che gli illustrano le caratteristiche, straordinarie per l’anarchico William, di quella loro nuova società, dalla quale sono definitivamente e concordemente banditi lo sfruttamento capitalistico e le istituzioni autoritarie. Un «mondo nuovo», una Londra immaginaria, senza più i grandi stabilimenti industriali e le cattedrali del capitalismo, ripulita dai fumi, dalla sporcizia e dalle tenebre della società del profitto, immersa e inserita in una campagna rigogliosa e attraversata da un Tamigi divenuto un serafico luogo di delizia. Consapevole del propri limiti L’autore evita volutamente, di prospettare un sistema chiuso e predeterminato, molto viene lasciato nel vago, per permettere al lettore di stabilire una specie di relazione interattiva con il racconto. Una originale forma di rispetto, quindi, che permette di capire, più di tante altre cose, l’approccio esistenziale profondamente libertario di Morris. 

giovedì 1 febbraio 2018

Il '68 ... un anno prima, Palazzo Campana Torino (capitolo V)

Il ciclo di occupazioni della sede delle facoltà umanistiche di Torino ha inizio il 27 novembre 1967, in seguito ad una mobilitazione nata nella settimana precedente in segno di protesta per un provvedimento di edilizia universitaria in discussione nel consiglio d'amministrazione dell'ateneo. La proposta del rettore Mario Allara prevedeva l'acquisto di un area periferica per realizzare un ampliamento significativo delle sedi universitarie, opera che avrebbe dovuto far fronte al costante incremento delle immatricolazioni universitarie cui anche l'ateneo piemontese era sottoposto. Il progetto di acquisto de La Mandria aveva incontrato non poche resistenze, non solo quelle opposte dagli studenti. Gli universitari in agitazione ritengono che lo scorporamento delle facoltà umanistiche e la delocalizzazione che ne sarebbe seguita avrebbe privato gli studenti di vantaggi pratici e culturali che solo il contatto con il centro storico della città poteva garantire, anche in considerazione del fatto che l'ateneo non si dislocava all'interno di una tradizionale città universitaria – non aveva cioè un campus comune per tutti gli iscritti – ma manteneva in qualche modo una sua coerenza e continuità sfruttando alcuni storici palazzi settecenteschi, tutti situati nella zona centrale di Torino.
L'assemblea degli studenti torinesi, riunita il 27-11-1967, individua il principale ostacolo frapposto all'organizzazione autonoma degli studenti nella struttura autoritaria della scuola italiana; riconferma lo stato di agitazione ad oltranza in tutte le facoltà di Torino, e proclama l'occupazione di Palazzo Campana sulla base delle proposte politiche e organizzative emerse dalle assemblee; individua nella contestazione dei metodi didattici dell'insegnamento accademico, che dietro la maschera della neutralità della scienza e della cultura instilla negli studenti la mentalità autoritaria propria delle autorità accademiche, il principale obiettivo della lotta degli studenti. In pratica, l’occupazione della facoltà ha avuto inizio al termine dell’assemblea: è stato chiuso uno degli accessi a Palazzo Campana, mentre gli studenti sostavano all’altro ingresso impedendo l’accesso ai professori e docenti, sì che l’attività didattica è stata sospesa. 
È inevitabile che il discorso che noi portiamo avanti si collochi al di fuori della logica dei partiti. Innanzitutto per la carica eversiva che scaturisce da una contestazione violenta che mette in crisi una delle strutture portanti della società: la scuola. In secondo luogo, ci poniamo al di fuori del dibattito politico tra i partiti perché abbiamo rifiutato ogni ipoteca ideologica e ci dedichiamo a un lavoro di mobilitazione di massa. Noi contestiamo la società partendo da una struttura ben definita, nella quale siamo inseriti. Invece il tipo di scontro che avviene tra i partiti è essenzialmente ideologico, astratto: avviene al di fuori di ogni movimento, studentesco o operaio, capace comunque di dare concretezza al dibattito.”
(Studenti di Palazzo Campana)
Gli universitari di Torino hanno organizzato dei «contro-corsi», dove gli studenti si amministrano da soli un’istruzione solitamente dispensata da un establishment culturale e accademico inerte e pago dei suoi privilegi feudali. Gli studenti di Torino chiedono la fine di un sistema istruttivo che non insegna niente, ma si arroga il diritto dell’ex-cathedra, del giudizio di una tantum sulla salute mentale dello studente, della «dolce vita accademica». Torino ci fa comprendere che la Bolivia è qui.
 il 27 novembre 1967 cominciava qualcosa di radicalmente nuovo. Cominciava il Sessantotto.  All’occupazione parteciparono anche i cattolici, anche i liberali, senza rinunciare per questo alla loro identità politica. Mentre c’erano comunisti iscritti che la criticavano come piccolo borghese. Questa trasversalità, questa mescolanza sono stati i grandi caratteri del movimento sessantottino. Si manifestava contro il Vietnam ma si amava il cinema americano. Nella stessa persona potevano convivere la suggestione per la non violenza gandhiana e l’ammirazione per come sparavano i guerriglieri. Palazzo Campana nasce come contestazione anti-accademica, che prende di mira l’autoritarismo dei professori e mette in discussione la struttura didattica, i contenuti dell’insegnamento e i criteri degli esami, come affermava il documento approvato dalle assemblee di facoltà e inviato per posta a tutti i docenti di Lettere e Filosofia, Scienze politiche, Magistero e Giurisprudenza. L’occupazione durò fino al 27 dicembre, quando ci fu il primo sgombero. Gli studenti si erano attrezzati con brandine, avevano un ciclostile che funzionò ininterrottamente. Dopo il primo sgombero ci furono altre occupazioni. Spesso duri gli scontri coi professori: vedere il rettore Mario Allara, che teneva in pugno l’ateneo da vent’anni, salire lo scalone fra due file di studenti bianco come un lenzuolo dava il segno della lotta. Numerose le denunce. Luigi Bobbio e Guido Viale sono arrestati. “C’era il piacere della dimensione collettiva – ricorda Marconi –. Il piacere di vivere dentro l’università: mangiare, dormire, ciclostilare i manifesti, parlare coi giornalisti, seguire i contro-corsi, suonare la chitarra. Questa quotidianità era il luogo di formazione del movimento, molto di più delle rituali assemblee con nove centimetri di spazio a testa. Come in tutti i movimenti di massa c’era gente che non faceva nulla, ma ciò che contava era lo stare lì. C’era anche una serie di persone che muovevano da una condizione di infelicità individuale, per cui il collettivo significava un riscatto”.

CITY OF GOD di Fernando Meirelles

Un intrico di vicoli fatiscenti, strade sterrate, fogne a cielo aperto, baracche e casupole poverissime. Nessuna struttura pubblica, nessun presidio di Polizia, nessuna attività culturale, City of God è un universo a parte, un autentico ghetto dove regna un feroce clan che controlla ogni cosa ed ogni movimento, e in primo luogo il fiorente e tragico traffico di droga. Buscapè è un giovane estraneo a tutto ciò; è timido, insegue delicatamente l’amore di una donna, e vuole a tutti i costi diventare un fotografo professionista. E ci riuscirà partendo dal gradino più basso, cioè iniziando a lavorare come fattorino dentro un grande quotidiano. Solo casualmente gli capiterà di riprendere con la sua macchina un furibondo scontro tra cosche rivali che provocherà molti morti. Sarà il servizio che gli cambierà la vita, per sempre.
L'antitesi del buon Buscapè è rappresentata da Dadinho, bambinetto dal carattere dominante e violento, che riuscirà nella scalata alla malavita locale, divenendo, a suon di omicidi,  il più temuto criminale della città, con il soprannome di Zè Pequeno.
Bambini, amanti e male amati, assassini adolescenti assassinati, nella Città di Dio, una delle più degradate favelas di Rio de Janeiro. L’occhio che guarda è di Buscapè, una sorta di alter ego di Paulo Lins, autore del romanzo omonimo da cui il film è tratto, anch’egli figlio di Cidade de Deus e della violenza che vi regna sovrana. Buscapé non è il protagonista dell’opera,  l’attraversa raccontandoci la nascita del crimine organizzato e lo sviluppo del narcotraffico in questa favela dalla fine degli anni sessanta all’inizio degli anni ottanta. Il suo sguardo, proprio come l’inseparabile macchina fotografica, sua unica alleata, immortala gli amori, le vite, le morti e i (piccoli) miracoli come il suo: riuscire a sopravvivere e a realizzarsi in un mondo dai destini già segnati, condannati alla delinquenza e ad una morte prematura.
Fernando Meirelles, similmente al romanzo, divide l’opera in tre parti, tre fasi temporali distinte per tre stili diversi. La prima parte racconta la storia del “Tender Trio”, ambientata
negli anni sessanta, al ritmo della samba. Evoca una sorta di criminalità romantica, una certa innocenza giovanile espressa attraverso uno stile piuttosto classico, fatto di camera fissa e carrellate. La seconda si svolge agli inizi degli anni settanta. È la storia di “Zé Pequeno”: gli affari cominciano a crescere col traffico di droga. Tanti colori acidi, lisergici, una macchina da presa più libera, un montaggio più sciolto, meno serrato, un’atmosfera psichedelica, con l’aria densa di pop e musica nera. L’ultimo capitolo è riservato alla guerra per il controllo del narcotraffico. Siamo negli anni ottanta ed è l’episodio di “Manè  Galinha”: monocromatico, agitato, veloce e caotico, figlio della cocaina. Montaggio frastagliato e discontinuo, ritmo affannoso, con panoramiche veloci e macchina fuori fuoco, vibrazioni heavy metal.
La spettacolarizzazione del degrado rasenta l’immoralità, l’estrema violenza della pellicola trascina lo spettatore sull’orlo dell’abisso senza fondo del male. Ne è uscito un film convulso e vorticoso, ma anche imprevedibilmente poetico e denso di riflessioni non solo socio-politiche ma anche psicologiche. Nessuno è sottoposto a giudizio moralistico, l’obiettivo cinematografico si limita ad esporre una realtà passandola attraverso il filtro della creatività e della manipolazione visuale. L’obiettivo principale del film, al di là dell’intento documentaristico, è di mostrare come questi bambini in quel particolare ambiente siano esposti al rischio di perdere una delle innate qualità dell’essere umano: la libertà di scelta.

La società maschiocentrica

In una civiltà che svaluta la natura, la donna diventa l'immagine della natura, la più debole e la più piccola, e le differenze fra i sessi imposte dalla natura diventano, in una società dominata dai maschi, le più umilianti che possano esistere... uno stimolo chiave all'aggressione.
Ciò nondimeno, la donna ossessiona questa civiltà maschile con un potere che non è solo arcaico e atavico: ogni società maschiocentrica deve continuamente esorcizzare gli antichi poteri della donna, che risiedono nella sua capacità di riprodurre la specie, di allevare la prole, di fornire un rifugio amoroso dal mondo ostile, cioè in realtà di svolgere quei compiti - coltivazione del cibo, ceramica, tessitura, per citare le più sicure invenzioni tecniche femminili - che rendono possibile quel mondo, per quanto in termini assai differenti da quelli formulati dal maschio.
Ancor prima che l'uomo intraprenda la conquiste dell'uomo, ovvero il dominio di una classe sull'altra, la morale patriarcale gli impone di affermare la sua conquista della donna. Il soggiogamento della natura femminile e la sua assimilazione nel complesso della morale patriarcale costituiscono il primo atto di dominio e un processo che porterà, nell'immaginario maschile, all'idea di sottomissione della natura. Non è forse casuale che i termini natura e terra abbiano conservato il genere femminile fino ai giorni nostri. Quello che può sembrarci un atavismo linguistico, riflesso di una epoca trapassata, in cui la vita sociale era matricentrica e la natura ne era la dimora domestica, potrebbe anche essere una persistente sottile espressione della continua violenza dell'uomo sulla donna come natura e sulla natura come donna.