L'antitesi del buon Buscapè è rappresentata da Dadinho, bambinetto dal carattere dominante e violento, che riuscirà nella scalata alla malavita locale, divenendo, a suon di omicidi, il più temuto criminale della città, con il soprannome di Zè Pequeno.
Bambini, amanti e male amati, assassini adolescenti assassinati, nella Città di Dio, una delle più degradate favelas di Rio de Janeiro. L’occhio che guarda è di Buscapè, una sorta di alter ego di Paulo Lins, autore del romanzo omonimo da cui il film è tratto, anch’egli figlio di Cidade de Deus e della violenza che vi regna sovrana. Buscapé non è il protagonista dell’opera, l’attraversa raccontandoci la nascita del crimine organizzato e lo sviluppo del narcotraffico in questa favela dalla fine degli anni sessanta all’inizio degli anni ottanta. Il suo sguardo, proprio come l’inseparabile macchina fotografica, sua unica alleata, immortala gli amori, le vite, le morti e i (piccoli) miracoli come il suo: riuscire a sopravvivere e a realizzarsi in un mondo dai destini già segnati, condannati alla delinquenza e ad una morte prematura.
Fernando Meirelles, similmente al romanzo, divide l’opera in tre parti, tre fasi temporali distinte per tre stili diversi. La prima parte racconta la storia del “Tender Trio”, ambientata
negli anni sessanta, al ritmo della samba. Evoca una sorta di criminalità romantica, una certa innocenza giovanile espressa attraverso uno stile piuttosto classico, fatto di camera fissa e carrellate. La seconda si svolge agli inizi degli anni settanta. È la storia di “Zé Pequeno”: gli affari cominciano a crescere col traffico di droga. Tanti colori acidi, lisergici, una macchina da presa più libera, un montaggio più sciolto, meno serrato, un’atmosfera psichedelica, con l’aria densa di pop e musica nera. L’ultimo capitolo è riservato alla guerra per il controllo del narcotraffico. Siamo negli anni ottanta ed è l’episodio di “Manè Galinha”: monocromatico, agitato, veloce e caotico, figlio della cocaina. Montaggio frastagliato e discontinuo, ritmo affannoso, con panoramiche veloci e macchina fuori fuoco, vibrazioni heavy metal.
La spettacolarizzazione del degrado rasenta l’immoralità, l’estrema violenza della pellicola trascina lo spettatore sull’orlo dell’abisso senza fondo del male. Ne è uscito un film convulso e vorticoso, ma anche imprevedibilmente poetico e denso di riflessioni non solo socio-politiche ma anche psicologiche. Nessuno è sottoposto a giudizio moralistico, l’obiettivo cinematografico si limita ad esporre una realtà passandola attraverso il filtro della creatività e della manipolazione visuale. L’obiettivo principale del film, al di là dell’intento documentaristico, è di mostrare come questi bambini in quel particolare ambiente siano esposti al rischio di perdere una delle innate qualità dell’essere umano: la libertà di scelta.
Lo vidi la rima volta su uno speciale che fece La7 in seconda serata che lo mandò in prima visione (sempre se la memoria mi assiste). Una di quelle opere che disorienta, "sconvolge" e che sa imprimere il giusto piacere con il suo stile ipercinetico e pop da videoclip. Tanta roba!
RispondiEliminaIsmāʿīl
P.s. Centra niente con il post in questione ma ne approfitto di questo spazio per complimentarmi con il vostro approfondimento sui movimenti (e non solo a vedere il mare magnum di etichette). Alla prossima!
Grazie molte si il film è particolare e lascia il segno, un abbraccio
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