Lo sciopero è stato proclamato fino al 4 febbraio dai professori di ruolo aderenti all'ANPUR, fino al 10 febbraio dai professori incaricati e dagli assistenti dell'ANPUI e dell'UNAU, e fino al 7 dall'organizzazione degli studenti (UNURI). Occupare voleva dire: siamo noi, l’assemblea a decidere come e che cosa funziona d’ora in poi. L’occupazione aveva i suoi rituali iniziatici. Uno striscione, per prima cosa, veniva messo fuori dal portone. Spuntava anche sempre una bandiera rossa almeno nelle facoltà di Lettere e Fisica. L’assemblea eleggeva un suo comitato esecutivo, un gruppetto di non più di quattro o cinque persone e nello stesso modo la direzione politica e le persone addette all’organizzazione. Poi si procedeva al suggello fisico degli istituti per evitare danni e furti, ai turni di presenza, ai picchetti dell’ingresso, col compito non solo di sorvegliare ma di spiegare a tutti quelli che venivano a curiosare gli obiettivi della lotta.
Gli avversari del nascente movimento studentesco, l’organizzazione rappresentativa ORIUP in testa, provarono a dare voce alla maggioranza silenziosa che – a loro giudizio – dissentiva con la «manovra estremista» in corso. Il corteo del successivo 10 febbraio, al quale partecipò un migliaio di giovani, si concluse con un furioso «assedio» alla storica sede dell’Ateneo da parte di alcune decine di essi, presumibilmente guidato da esponenti neofascisti del Fuan, pronti ad approfittare dell’insofferenza dei convenuti. «La manifestazione ha rischiato di degenerare – riferiva “Il Telegrafo” – poiché per due volte i dimostranti avevano tentato di abbattere la porta dell’edificio, utilizzando prima “un carretto” e poi “un grosso palo”». Gli assalti, però, vennero respinti. L’occupazione viveva in realtà, in una vera e propria assemblea permanente, in esperimenti di didattica alternativa, lo scambio con gli studenti provenienti da altre facoltà e altre sedi. Studenti addetti all’approvvigionamento di cibo di ogni genere, sacchi a pelo per chi decideva di dormire la notte. In realtà l’idea iniziale partorita negli incontri alla Casa dello Studente, l’occupazione della Sapienza doveva essere di stampo tradizionale, una riunione di lavoro di riflessione sull’università, e doveva produrre un controprogetto di riforma da opporre al disegno di legge del ministro Gui, doveva essere un’analisi sulla figura sociale dello studente, un ipotesi di rapporto tra ricerca e didattica. Ma si trasformo in un quarantotto, anzi in un evento sessantottino, con alcuni ragazzi che rimasero tutta la notte, chi dormendo per terra nei sacchi a pelo, o avvolti nelle coperte arrivate chissà da dove; tutti ad aspettare la polizia.
La polizia arriva, alle cinque del mattino, e sgombera di forza con schedature, fotografie e perquisizioni ( la polizia ne avrebbe poi schedati settantadue, tra i quali quattordici donne). Si rompeva clamorosamente, una tradizione secolare, che voleva le forze dell’ordine fuori dalle università.
Il rettore dell’Università di Pisa, Alessandro Faedo, aveva autorizzato l’intervento degli agenti perché evidentemente non riteneva tollerabile la coesistenza delle due “riunioni”. Non si trattò certo di una decisione presa a cuor leggero: per l’Ateneo pisano fu il primo intervento delle forze dell’ordine nella storia della repubblica e la notizia creò un diffuso disagio anche tra coloro che non simpatizzavano con la minoranza «estremista».
Durante l’occupazione viene elaborato il testo: Progetto di tesi del sindacato studentesco, conosciuto anche come Le Tesi della Sapienza.
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