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giovedì 5 dicembre 2019

LA CALIFFA di Alberto Bevilacqua

La "Califfa" nomignolo che in Emilia viene attribuito alla donna autoritaria e spregiudicata. 
Doberdò è uno scaltro e maturo industriale, un "self-made-man" che si è costruito un piccolo impero economico in una cittadina della provincia emiliana. Per solidarietà con gli operai licenziati da un'altra impresa fallita, le maestranze di Doberdò occupano gli stabilimenti. Nel fronteggiare la situazione, il padrone si mostra fermo, ma anche disponibile al dialogo; e quando una delle sue dipendenti, la bella e focosa Irene, detta "la Califfa", con un gesto volgare gli esprime pubblicamente il proprio disprezzo, egli si mostra magnanimo per indurre gli operai incerti tra le direttive dei capi sindacali e gli incitamenti alla violenza di estremisti facinorosi a riprendere il lavoro. Irene è una donna indipendente e spregiudicata, rimasta vedova quando le hanno ucciso il marito durante una dimostrazione, e risoluta a combattere l'odiato padrone. Si lascia tuttavia, a poco a poco, ammorbidire e conquistare da Doberdò, negli incontri che i due hanno in fabbrica e poi anche nella villa dell'industriate. Irene diventa l'amante di Doberdò e induce gli operai ad ascoltare le proposte di rinnovamento e di partecipazione avanzate dall'industriale. I disordini, però, continuano; anche perché il progressismo dell'industriale non è ben visto dai suoi colleghi, che minacciano di esautorarlo dalla direzione della loro associazione. Così mentre da un lato Doberdò ritrova nell'amore per Irene la vitalità che aveva perduto nel monotono "ménage" con una moglie banale e un figlio capellone, dall'altro cerca di non farsi sfuggire di mano la situazione in fabbrica. Ma mentre, all'alba, rientra da un ennesimo incontro con l'amante, è assalito e ucciso da sicari, che ne abbandonano il corpo nei pressi della fabbrica. Ancora una volta Irene ha perduto così il suo amore.
La Califfa, o dell'ambiguità, è l'opera prima cinematografica dello scrittore Alberto Bevilacqua. Girato appena dopo l'autunno caldo è il primo film a soggetto direttamente collegabile a quei mesi drammatici, tratto dal suo terzo libro, edito nel 1964, è ambientato a Parma, città natale di Bevilacqua.
Il linguaggio di Bevilacqua è rapido e asciutto. Probabilmente l’esperienza cinematografica gioverà al narratore, abbreviando la distanza dalle cose. Né gli attori lasciano a desiderare: Ugo Tognazzi è un perfetto imprenditore figlio di contadini che, grazie all’amore, passa dal pragmatismo alla sfida romantica nei confronti del potere. Romy Schneider è di una bellezza sconvolgente, fotografata in stupendi primi piani, tra le cariche della polizia e il sangue che scorre. Un personaggio adatto alle sue caratteristiche femminili, una donna forte e innamorata, disposta a mettersi in gioco. Bevilacqua racconta la società italiana di fine anni Sessanta con gli imprenditori d’assalto, le fabbriche che chiudono, gli operai che occupano e chiedono rispetto per il lavoro. Vediamo le cariche della polizia, gli imprenditori suicidi dopo il fallimento, le proteste di piazza. Il quadro sociale è accompagnato da un’analisi spietata dei rapporti borghesi tra moglie e marito, la passione che si stempera, il tradimento, ma pure il contrasto generazionale padre – figlio non sfugge alla critica. L’operaia ribelle e l’imprenditore hanno in comune il coraggio, le origini umili, la voglia di credere in un progetto e l’illusione di cambiare il mondo. Ma sarà la cruda realtà a vincere sui loro sogni.
La politica di avvicinamento di Doberdò verso i lavoratori gli procura prima l'irritazione e poi l'odio dell'Unione degli Industriali della Regione i quali ammoniscono l'ormai ex amico a desistere dalle sue iniziative. Doberdò non accetta imposizioni e in tal modo firma la sua condanna: viene preso a fucilate e trascinato a morire dinanzi alla sua fabbrica. Gli operai nel film sono mostrati come una sparuta e odiosa minoranza di teppisti, violenti, pronti magari ad uccidere, ma poi, vista la fine di Doberdò ucciso dagli industriali, sono allora proprio queste facce patibolari ad avere ragione, a non voler credere e accettare le «isole» di democrazia, a voler generalizzare la lotta, a voler continuare lo sciopero anche se hanno ottenuto la cogestione, infatti Doberdò è stato eliminato dagli industriali retrivi non perché questi non sono ancora maturi al salto di qualità, ma perché egli ha condotto la sua lotta da solo, dall'alto, paternalisticamente, svincolato da una ideologia comune con gli operai, da una vera coscienza proletaria e rivoluzionaria.

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